I ‘RECUPERATI’ di ‘CelluloidPortraits’ - RECENSIONE - Da Cannes 2022 - Concorso - Dal 25 Maggio
(Nostalgia; ITALIA/FRANCIA 2022; drammatico; 118'; Produz.: Picomedia - Mad Entertainment in associazione con Medusa Film e in coproduzione con Rosebud Entertainment Pictures; Distribuz.: Medusa Film)
After 40 years of absence, Felice returns to her hometown: Naples. He rediscovers the places, the codes of the city and a past that eats away at him.
Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)
“La conoscenza è nella nostalgia: chi non si è perso non possiede†Pier Paolo Pasolini
Non è certo il primo Mario Martone ad esprimersi sul legame viscerale con la propria terra. E con Napoli poi! Un legame d’amore autentico, schietto, nostalgico e drammatico, ma soprattutto indissolubile. E lo stile del racconto non poteva essere altrimenti. Un racconto asciutto, persino scarnificato, che trae proprio da una sceneggiatura silente, o comunque fatta di poche parole, tutta la sua potenza. Una potenza condivisa dall’interprete protagonista caricato del maggior fardello: che è l’immenso Pierfrancesco Favino nei panni di Felice Lasco, un affermato e benestante imprenditore in edilizia, migrato all’estero per 40 anni, prima a Beirut in Libano e poi in Sud Africa dove ha lasciato la bella moglie medico egiziana ad attenderlo. E’ lui che fa ritorno a Napoli, nel rione Sanità dell’infanzia, per rivedere la madre ormai molto anziana, la Teresa Lasco di un
altrettanto intensa Aurora Quattrocchi.
Che Martone sia un autore, un vero Maestro di cinematografia lo si coglie ovunque, e in particolare in tre parti fondamentali di questa storia raccolta dalla prosa del best seller omonimo, Nostalgia, appunto, di Ermanno Rea. La prima ad avvolgerci in tutto lo struggente dramma naturale, è quella che pone sotto i riflettori l’inevitabile decadimento della madre. Decadimento fisico e psicologico che il figlio non può fare a meno di constatare, iniziando fuori tempo massimo ad adoperarsi per confortarla in ogni modo: la scena del bagno nella grande tinozza è una di quelle che non si dimenticheranno facilmente. E’ il languido trionfo dell’implosione di sentimenti forti, inespressi se non con semplici gesti, accorati e lenti, fino al pianto della madre, quando l’elegia del dolore gronda tutto il verismo di un affresco di vita rubato, al tempo che inesorabilmente è ormai trascorso lontano da quella terra e
da quegli affetti. Una familiarità dispersa di cui parla la stessa lingua di Felice/Favino, all’inizio caricata di un italiano a cadenza straniera, fino al graduale recupero di un dialetto strettamente partenopeo, di quelli che richiedono la massima attenzione da parte dello spettatore per non perdersi qualcosa per strada. Una lingua riassimilata tra i vicoli percorsi a piedi, assorto tra mille pensieri, mentre assapora di nuovo le usanze, gli odori, le atmosfere, seppure ‘inquinate’ dai disagi e dalle piaghe di una criminalità che corre sul filo della camorra. Una criminalità che parte dal basso, con un boss che arma i giovani e che ci va giù pesante. Con estremo dinamismo Martone dipana tra questi vicoli quei flashback misurati che svelano i trascorsi non troppo tranquilli di Felice nell’adolescenza, così come il tragico legame che lo lega all’amico e compagno di scorribande allora legate alla microcriminalità fatta di furti, scippi e similari.
Almeno fino ad un evento in cui i due giovani varcano il limite tanto da cambiare per le loro vite sempre, per quanto in maniera opposta.
Altra parte del racconto che sa tingersi di speciale è proprio l’incontro tanto cercato da Felice/Favino, con il famigerato amico d’infanzia, ora diventato il più temuto boss della camorra del paese: l’inquietante Oreste Spasiano di Tommaso Ragno. Non valgono gli avvertimenti, i tentativi di dissuasione, e le mediazioni del parroco per far conoscere Felice alle famiglie di certi quartieri, cercando di proteggerlo mentre lo presenta come una brava persona. Diventato musulmano, Felice aveva poi trovato il modo di aprirsi con questo parroco - il Don Luigi di Francesco Di Leva - vestito di una spiritualità operativa molto umana e perennemente teso alla ricerca di una giustizia terrena oltre che celeste, mentre lotta ogni giorno con la malavita.
Beh, anche quell’’incontro limite’, che poi avrà luogo
nei remoti anfratti della classica tana del lupo, trasuda di un verismo basculante: tra un’umanità perduta che ha toccato il fondo tante di quelle volte da aver dimenticato il senso della misura, e l’umanità pentita e animata da tutta la nostalgia possibile, di poter ritrovare il proprio posto nel mondo, riabbracciando proprio quel respiro mediterraneo di cui, a dispetto di tutto il male possibile, Felice è convinto di poter rivivere senza più scappare dall’ingombrante passato. Ma il passato ti ritrova sempre, anche quando mai te lo aspetteresti. E il finale è un pugno nello stomaco assestato come si deve, ancora una volta, netto e crudo, asciutto e inesorabile.
Eppure, a restare nel cuore e nella mente, oltre la tragedia, è quel respiro mediterraneo interculturale cui inneggia la magica musica arabeggiante danzata dai ragazzi e dai migranti confluiti sotto l’ala protettrice di quella parrocchia, una mosca bianca di confine che vola e
fa volare, schivando la malavita, fin dove possibile. Ma capita che neppure il salvabile possa essere salvato, e indorare la pillola, oltre che inutile, suonerebbe falso e menzognero.
Secondo commento critico (a cura di La parola al film)
trailer ufficiale:
teaser trailer ufficiale:
clip 1:
clip 3:
clip 6:
clip 8:
clip 9:
Perle di sceneggiatura
Madre di Felice: Tu sei figlio a me, vedi di stare attento. Tu non sei come lui!
Parroco (Francesco di Leva): Te ne sei andato, hai conosciuto altri mondi.
Felice (Pierfrancesco Favino): Io lo voglio incontrare, Oreste è come me. Lei mi deve guardare come uno dei suoi ragazzi: possono fare altre scelte, ma non potranno mai tradirsi l'uno con l'altro.
Parroco: Tu ti illudi, i cuori si richiudono col tempo.
Felice: No, i nostri no.