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    L'INTERVISTA

    INTERVISTA INEDITA AL REGISTA VITTORIO DE SETA (2°) (A cura di MARCELLO CELLA)

    06/08/2007 - PISA, 27 Marzo 1996:

    INTERVISTA al regista VITTORIO DE SETA:

    (A cura di MARCELLO CELLA)

    Lei dice che un cinema che si rivolge alla gente e che lo metta anche in rapporto con lo spettatore è un tipo di rapporto che si può ottenere. Basta forse girare in modo diverso, porsi nei confronti della realtà in modo diverso. Ecco, questa strada, come diceva lei, non è stata scelta anche per problemi di potere, per problemi politici. Io però le vorrei chiedere, questa strada che invece lei ha imboccato non pensa che sia una strada personale, che sia difficile proporla come modello al cinema in generale, alla televisione, al mondo delle comunicazioni?

    De Seta: "Non credo. Perchè poi bisogna analizzare se c'è un pubblico che lo richiede. Quando mi hanno chiesto di fare qualcosa per la televisione non avevo nessuna idea. Poi mi dissero che c'era questo libretto, Un anno a Pietralata, sulla scuola. Non sapevo che altro proporre. Non sapevo niente sulla scuola, non avevo mai letto Don Milani, non avevo mai sentito parlare di Mario Lodi. Poi ho cominciato a leggere ed è venuto fuori che la scuola attiva, la scuola creativa non solo parte dall'interesse del bambino ed è una scuola in atto, cioè non è una scuola nozionistica in cui avviene questo trasferimento del sapere dalla testa dell'insegnante alle teste degli studenti, ma è un modello interattivo di scambio, di crescita e di produzione di cultura, non di fruizione di cultura. Allora là mi sono trovato davanti ad un bivio perchè questa era una scuola estemporanea. Noi siamo partiti avendo degli schemi, che ne so, avevamo un'idea delle scuole del quartiere anche perchè avevamo vissuto nelle vecchie case del Tiburtino Terzo, e quindi abbiamo detto 'la casa è una cosa che riguarda i ragazzi'. Poi avevamo pensato al tema del rapporto fra i sessi, che non abbiamo potuto sviluppare sia perchè non avevamo il tempo, sia perchè abbiamo avuto paura, e al tema del furto. Però non è che potevamo pensare di fare un film su una scuola attiva, su una scuola estemporanea che parte dall'interesse del bambino che non si può prevedere, facendo una sceneggiatura. E' ovvio che sarebbe stata una contraddizione tremenda. E mi sono reso conto della difficoltà. Quando l'ho raccontato a Comencini l'ho visto impallidire, pur essendo lui un esperto di bambini, perchè i bambini, i ragazzini avrebbero potuto non starci, e invece ha funzionato. Ho fatto questo giro per dire che se Diario di un maestro è venuto bene non è perchè io fossi un autore particolarmente intelligente, è soltanto che io ho capovolto i termini del discorso e decidendo di fare un film attivo, in atto, su una scuola attiva, in atto, ho fatto si che entrasse nella scuola la cultura dei ragazzini del Tiburtino Terzo. Credo sia stato l'elemento che ha fatto il successo del film. Per la prima volta i genitori sono potuti entrare in classe durante una lezione, fino allora tabù, e capire che si poteva fare una scuola diversa, una scuola interessante, che poteva dare dei frutti e che non annoiava. Ognuno poi aveva vissuto e sofferto sulla propria pelle la scuola tradizionale. Non so se mi spiego. Quello che vorrei dire è che mi sono levato di mezzo anche io come autore. Il maestro leva la predella della cattedra, che viene appoggiata alla parete e diventa una libreria, uno scaffale. E' un fatto simbolico che il maestro scenda dal proprio livello di potere, di autorità, di trasmissione del sapere e si mette al livello dei ragazzi, si coinvolge con loro, non è più lui che orienta e conduce i discorsi, non è lui il promotore, praticamente si disautora. E quindi la classe diventa un gruppo, proprio dove si vive fisicamente, dove i banchi diventano tavoli di lavoro di gruppo e il maestro diventa un collaboratore, un coordinatore dei ragazzi e insieme producono cultura. Perchè quando si parla del furto entra in classe un altro maestro che è l'ex ladro. Io credo che sia questo che ha affascinato, non il talento del signor De Seta che rimane un'espressione astratta. E' stata proprio questa scelta coerente. Così ho scoperto che si può fare un film su un argomento apparentemente noioso, perchè a scuola ci siamo un po' tutti annoiati, e tenere la gente quattro ore e mezzo a vedere questo maestro con i suoi sedici ragazzini e fare un buon documento di istruzione su quello che dovrebbe essere la scuola, e fare anche spettacolo. Se non l'avessi fatto io mi sarebbe sembrato impossibile, pazzesco. Questo è sempre per dire, prima parlavamo della funzione dell'arte…".

    A prescindere da questa sua esperienza con la scuola, in generale lei quanto ritiene il documentario cinema d'autore e comunque espressione di una soggettività, di uno sguardo particolare sul mondo e quanto invece è valido come documento in sè, fatto in qualche modo anche dalla gente che compare nel film?

    De Seta: "E' sempre lo stesso discorso. Solo che quando facevo i documentari non lo sapevo. Ho solo sentito d'istinto che dovevo abolire questa tremenda voce fuori campo. Ma perchè? Per tanti motivi. Per cominciare, secondo me, era un elemento distruttivo, ma soprattutto era il punto di vista dell'autore. Cioè è l'autore che ipoteca la verità. L'autore va nei luoghi dove gira il documentario e impone il suo punto di vista. Ecco, torniamo di nuovo alla scuola nozionistica, alla trasmissione del sapere. Mentre invece i documentari che ho fatto io credo che resistano anche a distanza di quarant'ani perchè sono interattivi, perchè il parlato, la voce fuori campo è abolita e il sonoro automaticamente entra in primo piano, e anche perchè è abolita quella musica un po' lagnosa tipica di queste cose. Quindi entra come protagonista il suono. Anche il silenzio è suono, cioè l'assenza di suono. Non so se l'avete notato nei documentari, ma ci sono degli elementi sincronici, c'è un momento veloce, poi c'è la pausa, c'è il silenzio dell'attesa e sono quasi tutti così. Poi l'autore si leva di mezzo, cioè rinuncia a questa pretesa assurda di avere un suo punto di vista che è del tutto inverosimile e anche ingiustificabile perchè che ne so io delle miniere di zolfo o dei pastori di Orgosolo? L'autore poi togliendosi di mezzo, non è che rinuncia al suo punto di vista perchè d'altra parte il documentario lo fa lui, le inquadrature le fa lui, decide lui il montaggio, fa tutto lui, però in un certo senso fa vivere la cultura di un posto. E' sempre autore ma non è impositivo, dittatoriale, è un rapporto simbiotico con la realtà che filma per cui essa ha modo di esprimersi. Quella era una cultura popolare che secondo me era importante vivere. Certo se c'è una festa sei tu quello che decide se riprendere questo o quello, quindi alla fine si parla sempre di film in atto. Parliamo sempre della stessa cosa. Ad esempio, mi ricordo che Moravia mi aveva detto: "Ho quindici giorni di tempo, ti scrivo un soggetto". Allora vado a casa sua, c'era Dacia Maraini in quel momento. Lui non so se c'era mai stato in Sardegna, però dirigeva la rivista Nuovi Argomenti che aveva pubblicato due lunghe inchieste su Orgosolo, e dopo un po' che parliamo capisco che lui non ne sapeva niente. Però era uno scrittore e si sentiva autorizzato a scrivere un soggetto. C'era anche Franco Solinas, un grandissimo sceneggiatore sardo, che però era di Sassari, e anche lui aveva scritto un soggetto, ma non andava bene. Non perchè io fossi difficile. Avevo già fatto un documentario su Orgosolo, e rimasi lì a Orgosolo un mese da solo perchè non avevo voglia di avere a che fare con uno sceneggiatore e mi sono immerso in questa realtà, e in questo seguivo il metodo zavattiniano del pedinamento della realtà. Come si diceva per la mia esperienza nella Guinea Bissau, uno deve sapere tutto e poi da questo tutto viene fuori una storia esemplare…".

    Questo però accadeva anche in Zola…

    De Seta: "Si, certo, Zola. Forse stavo inventando l'acqua calda. Fare il cinema vuol dire poi perdere un sacco di tempo. Non c'è neanche il tempo di leggere tanto. A me Zavattini mi elettrizzava perchè l'avevo conosciuto, sprizzava cinema da tutti i pori…Zavattini era generosissimo, veramente un maestro. Mi ricordo, ancora non facevo cinema, il soggetto di Umberto D. che fu proprio meraviglioso…Diciamo che c'erano dei denominatori comuni. Sono balle l'ispirazione, che uno si sveglia di notte e ci ha l'idea, ma a chi la vuole dare a bere! Bisogna solo cercare di capire la realtà, che già è un grandissimo lavoro perchè devi riassumerla, condensarla, ridurla ad una storia di un'ora e mezza".

    Però i soggetti dei suoi film sono comunque sempre, ora non voglio usare un termine desueto come gli umili, però sono sempre le culture popolari, i bambini, cioè chi non è in grado di esprimere consapevolmente una propria visione della realtà. Ora che le culture popolari sono praticamente scomparse lei come pensa di continuare e come si porrebbe di fronte ad un eventuale film?

    De Seta: "C'è sempre una realtà. Basta guardarsi intorno. Ora c'è l'incultura popolare però qualcosa c'è. Quello che c'è uno va a indagare. Qualsiasi argomento, qualsiasi ambiente uno cerca di raccontare si deve sempre rifare alla realtà. Anche se uno deve fare, che so…dico una cosa che non mi interessa per niente, un film sui piloti della Formula Uno, deve stare lì delle ore per capire che cosa è questa realtà. E poi da tutta questa realtà deve tirare fuori degli elementi filmici, cioè deve interpretare una realtà dinamica, che si muove, deve trovare il modo di creare delle situazioni da cui viene fuori la realtà di questi corridori automobilistici".

    Ma di questo suo rapporto con la realtà, personalmente ora si sente più vicino in qualche modo a questa formula di tirare fuori la realtà da un film di finzione, cioè la ritiene ancora valida e attuabile anche in futuro, oppure si sente più vicino al documentario puro?

    De Seta: "Beh, finzione è una parola, anche se è un termine inglese, che non indica necessariamente la falsità, però spesso mi sembra che lo diventi. Su questo, secondo me, bisogna essere molto radicali perchè per esempio, magari ora vi scandalizzo, Casablanca a me non dice proprio niente e quella è finzione perchè non ti dice proprio niente sull'atmosfera di quegli anni, 1941-1942, che cosa poteva essere questa città in Marocco, dove si intersecavano tedeschi e americani. Voglio dire, c'è il ritorno al mistero, c'è Humphrey Bogart, c'è questo amore sullo sfondo della guerra, però Humphrey Bogart truccava la roulette, si capisce ad un certo punto. Non capisco cosa possa avere in comune con la realtà tutto questo. Oggi quando si vede Casablanca non è che ci sia un arricchimento, qualcosa di reale, è solo finzione. E mettiamoci anche Hitchcock se è per questo…Ma forse non sto rispondendo alla tua domanda…".

    …No, no…Ma quello che volevo sapere è se lei ora personalmente si sente più vicino al documentario puro, senza nessun traliccio narrativo, oppure a questa formula di trarre dalla realtà una storia esemplare, come è avvenuto in Banditi a Orgosolo, e se lo ritiene valido anche per il futuro.

    De Seta: "Beh, nei documentari che ho fatto io non ci sono dei protagonisti identificabili, però un traliccio narrativo c'è, c'è sempre una storia, una storia che si svolge dalla mattina alla sera. Per realizzare un documentario come dici tu dovrebbe essere una cosa asettica, scientifica, bisognerebbe abolire la storia. Ma per quelli che ho fatto io le storie ci sono…I film di finzione dovrebbero sempre documentare qualche cosa e i documentari dovrebbero sempre raccontare qualche cosa. Questa discriminazione fra il documentario e il film di finzione mi sembra artificiosa, non necessaria. Magari ci sono film in cui ci sono storie, però che siano documentari o no per me…io ho sempre cercato di raccontare qualche cosa. Mancava un protagonista, l'eroe perchè erano dei film collettivi, c'era un pescatore, un minatore…Sono categorie in cui non mi riconosco tanto. Bisogna stare attenti perchè altrimenti restiamo ingabbiati in queste cose e quando c'è il film di finzione non c'è il documentario. Io direi che prima di tutto è una questione di cinema".

    Lei è anche restio a parlare di tecnica, però in realtà i suoi collaboratori, Tovoli e altri, hanno raccontato anche di alcune invenzioni, per esempio dell'imbracatura della macchina da presa in Diario di un maestro per anticipare la situazione.

    De Seta: "Ma questa è una questione pratica. Io dico sempre che la tecnica è il 5% del film…".

    Beh, però la steadycam è stata usata per la prima volta da Kubrick ed è stato un fatto tecnico e di linguaggio fondamentale senza il quale Shining non esisterebbe. Ecco, in Diario di un maestro lei ha inventato una cosa analoga…

    De Seta: "…Non è importante che ci sia la steadycam. I film di Kiarostami sono fatti di quadri fissi, non c'è carrello. Cioè, prima vengono le cose da dire, poi i mezzi si adattano. Mi ricordo che in Kiarostami usavano una carrozzella da paralitico. Voglio dire, guai a capovolgere i termini della questione. Non si parte mai da questo. Questa è l'ultima cosa".

    Si, ma la creatività sta anche nell'uso della tecnica. Non è banale usare una tecnica determinata anche se al servizio di una idea. Certo che non bastava. Però in Diario di un maestro per girare a misura d'uomo in un ambiente chiuso lei aveva bisogno di una certa tecnica senza la quale quel film non sarebbe stato fatto…

    De Seta: "…Si, certo…mi ricordo che abbiamo perso un sacco di tempo a cercare le tecniche giuste…avevamo anche pensato di mettere dei microfoni sotto i banchi, di nascondere la macchina da presa poi abbiamo capito che sarebbe stato scorretto. Alla fine la risoluzione elementare è che c'era un operatore che per una mezzoreta girava tutto con la macchina a mano e il fonico con un microfono direzionale che ha dovuto imparare a staccarsi dalle regole del film tradizionale, cioè a non registrare per forza nella direzione della macchina da presa perchè la macchina da presa magari stava da una parte e un ragazzo parlava dall'altra, e quindi a svincolarsi da questo sincronismo. Dopo aver fatto un po' di prove il problema si è risolto e ce ne siamo dimenticati, era strumentale, automatico. Non avevamo il carrello, però nessuno mi ha mai detto 'ah, bel film, ma peccato che non c'è il carrello'. Quando c'è stato bisogno di fare quella corsa all'inizio della caccia abbiamo messo un teleobiettivo, abbiamo fatto dei segni col gesso per terra in modo che corressero un po' in circolo e non andasero fuori fuoco e si è risolto".

    Per Diario di un maestro ha anche scritto un'altra sceneggiatura prima del montaggio per questi problemi di sincrono…

    De Seta: "Per Diario di un maestro con estrema repulsione ho dovuto scrivere una sceneggiatura perchè la burocrazia della RAI la pretendeva. Falsa, cioè con scene campo-controcampo, poi l'ho messa da parte e non l'ho guardata più. Poi con Francesco Tonucci che è stato preziosissimo abbiamo disegnato e previsto questi temi, queste materie. Una volta è successo che siamo usciti e i ragazzini hanno veramente catturato una lucertola e allora la scuola e il film hanno seguito quello che era successo, non il contrario. Non è che ci siamo detti, 'adesso usciamo e prendiamo una lucertola', perchè poteva anche accadere che prendessero delle rane, dei ranocchi. Allora noi ci saremmo adeguati a quello che succedeva. Perciò la sceneggiatura in Diario di un maestro è un ibrido perchè l'80 % era questo happening che si svolgeva nella scuola e poi il quadro del 20% era il diario di quel maestro, con gli altri insegnanti che erano attori. Per quanto riguarda la storia dell'insegnante che arriva e subito si scontra con il direttore, ecco, in quel caso c'erano le scene scritte come nel cinema normale, però recitate liberamente, girate a mano, ma il testo era scritto. Naturalmente quando lo vedeva la gente non si accorgeva che una parte era estemporanea e un'altra invece era scritta perchè quando il direttore entra in aula e fa quelle domande ai ragazzi, quello era un caso ancora diverso: lui sapeva che stava recitando, mentre i ragazzi non lo sapevano. Quindi in quel caso la tecnica era mista. Era come andare in automobile con quattro o cinque marce e dover cambiare le marce a seconda delle situazioni che si presentavano. E i critici questo non l'hanno capito per niente. E' un caso particolare che è potuto avvenire solo perchè i bambini sono disposti al gioco, e in quella situazione erano disposti a giocare a fare la scuola, perchè avevano undici, dodici anni. Se ne avessero avuti sedici non sarebbero stati più al gioco. Non credo che questa tecnica sia molto ripetibile nel cinema-verità fatto dagli adulti".

    Lei scrive sempre molto, poi magari la sceneggiatura non viene seguita, però esiste un diario di svariate centinaia di pagine per un progetto su san Paolo che poi non ha realizzato. Ecco, che rapporto istituisce lei con questi testi, con questo bisogno di scrivere il film?

    De Seta: "Non so. Quando succedeva mi sembrava, e in parte mi sembra ancora adesso, che fosse una mancanza di mestiere. In realtà un film è un racconto di cinquanta pagine ed è già troppo. Perciò prendere un libro e farne un film mi sembra già un'operazione difficilissima. Io scrivevo forse perchè elaborare voleva dire riuscire a centrare quelli che erano i momenti essenziali, filmici. Era una ricerca che poi passava sempre per tre momenti. Il cinema credo che sia anche questo, è come andare nel bosco a cercare dei serpenti con un paniere, prenderne un certo numero e spostarti. Ma mentre ti sposti alcuni escono. Allora ne prendi altri. E questo succede tre volte nel cinema. C'è il momento della sceneggiatura, quello della ripresa e quello del montaggio. C'è una strana affinità. Non si può supporre che tutto quello che hai scritto devi mettercelo per forza, anche se ci sono quelli che fanno così, e non ho mai capito come si riesca a farlo. Chi vuol fare del cinema si deve abituare a questa cosa in senso positivo, senza considerarla una perdita perchè se si scrivono delle cose, quando si va a girare ovviamente cambiano. Vedendo il girato infatti ci si accorge che certe cose hanno una valenza filmica, mentre altre no. A Hollywood ingaggiavano sempre dei grossi commediografi, se li compravano, li strapagavano e poi li mettevano lì in un angolo. Una volta con Meneghetti dovevo girare una scena di un rapporto di coppia che andava male e lui aveva scritto un lunghissimo dialogo per far capire queste cose. Quando è arrivato uno di questi praticoni venuti dalla gavetta di Hollywood si è capito che questo dialogo non funzionava perchè era troppo parlato. Questo praticone gli ha detto allora come avrebbe fatto lui. Questa coppia saliva su un ascensore. Al secondo piano saliva un altro uomo. La donna ad un certo punto guardava questo uomo ed era tutta qui la crisi della coppia, cioè veniva visualizzata con tre inquadrature che valevano più delle sedici pagine di dialogo. Questa è la concretezza del cinema, visualizzare. Quindi può darsi che uno giri sia le sedici pagine di dialogo, sia la scena dell'ascensore. Poi in proiezione si accorge che quella che funziona è la scena dell'ascensore. Certo, poi con il tempo uno ci azzecca di più, però non è detto. Non c'è nessuno che nasce imparato e non vi credete che uno che ha fatto cento film lo sappia. Non è vero. Con questo voglio dire che il lavoro didattico o anche di semplice comunicazione non è poi così importante. E' una ricerca, questa è una verità molto semplice, però è importante. Perchè sennò diventa tutto di testa. Mi ricordo che una volta ho visto un documentario molto bello su Picasso fatto da Clouzot (Il mistero Picasso, del 1956, ndr.) e veniva fuori che Picasso cercava, dipingeva dietro un vetro o una tela e uscivano quattordici versioni diverse di un quadro che magari andavano sempre bene, ma per lui no. Ricominciava il quadro fino a buttarlo via. Aveva lavorato per niente. Questo secondo me dovrebbe confortare perchè relativizza tutto. Si prova, si rischia, ci si espone, si cerca e questo è il secondo paniere. Al montaggio c'è il terzo. A quel punto uno non ha più a che fare con le idee, con la sceneggiatura, non ha più a che fare con una realtà da filmare, ha a che fare con il materiale filmico concreto e deve fare i conti con quello e non più con quello che aveva in testa prima. Cioè, quello che aveva in testa prima deve tornare ad esprimersi con quei mezzi, con quella pellicola impressionata che ognuno ha a disposizione perchè sennò si fa sempre una nostalgia, una recriminazione, 'ah, peccato!'. E poi con quello te la cavi e miracolosamente viene fuori qualcosa di interessante. Mi ricordo che quando feci Isole di fuoco mi sono messo a piangere perchè mi sembrava che non ci fosse niente. Invece alla fine grazie al montaggio anche a distanza di anni quello che avevo sentito viene fuori. Quindi questo dimostra che alla base di questo lavoro più che il pensiero c'è il sentimento. Bisogna sentire le cose e poi miracolosamente, non si sa come, alla fine quello che uno sentiva, se uno lo sentiva veramente, viene fuori. Magari con soluzioni che lui non aveva neanche immaginato".

    Lei dice che la realtà non vale, cioè bisogna renderla realtà. Però deve riconoscere nello stesso tempo un ruolo molto importante anche al montaggio. I suoi sono film di montaggio. Non trova che questo fatto sia un po' in contraddizione con quello che ha detto, cioè ricomporre con il montaggio e nello stesso tempo essere il più possibile rispettosi di una realtà su cui intervenire il meno possibile?

    De Seta: "Beh, ma la realtà non è fatta di una sequenza temporale. Il cinema è una compressione, il cinema, la letteratura sono una compressione del tempo. Infatti è per questo che tante volte trovo che i video paghino un tributo al tempo reale. Mentre noi all'epoca eravamo costretti a fare i documentari di dieci minuti, qualsiasi soggetto o argomento doveva rientrare in dieci minuti. Dovevamo comprimere tutto in dieci minuti e per comprimere tutto in dieci minuti bisogna tagliare. In dieci minuti con un piano sequenza facevi un documentario di tre ore. Che poi magari avrebbe raccontato la realtà della pesca al pesce spada anche meglio, però poi bisognava fare i conti con la stanchezza dello spettatore, con l'esigenza della sintesi. Non ho mai sentito la necessità di un piano sequenza, non ho mai usato un dolly. Se vedete i film di Kiarostami sono semplicissimi, spesso con una inquadratura fissa, una panoramica che segue un personaggio. Io credo che tutta questa macchinosità sia stata messa su da Hollywood. L'importante è quello che si vuole raccontare, i mezzi vengono da soli. Se uno ce li ha li usa, sennò si serve di quelli che ha. Non è mai la povertà…Sappiamo tutti che Cartier Bresson aveva una normale macchina fotografica. Il macchinario rischia di sommergerti. Io penso che per cominciare conviene rimanere attaccati alla povertà".

    Senta, ci può parlare anche di Un carnevale di Venezia che è stato il più sfortunato dei suoi film e non se ne sa quasi niente. Come è nato, perchè ha questo trattamento sonoro senza commento parlato, perchè a Venezia…

    De Seta: "E' stato l'ultimo che ho fatto prima di In Calabria e dopo Hong Kong, città di profughi. Non so perchè mi è venuto questo impulso, perchè quando sono arrivato a Venezia ho capito che non avevo l'ispirazione. Ho registrato il carnevale di Venezia e basta. Non sembra neanche un lavoro mio. Ho sentito di aver toccato il fondo. Anche in questo lavoro succede che uno si consuma un po' e a quel punto lì, secondo me, è meglio fare proprio un altra cosa. Non è che c'è un dottore che ti costringe a fare cinema anche se non hai idee, non hai l'ispirazione, non hai il sentimento…Purtroppo bisogna campare e allora fai una cosa di mestiere. Ma perchè non è un granchè, secondo voi, questo lavoro?".

    No, a me personalmente piace, però pensavo l'avesse girato perchè in fondo è un fenomeno popolare, anche se un fenomeno popolare sui generis, e quindi volesse continuare una ricerca sulla cultura popolare che per lei era consueta. Però mi chiedevo come era nato e come mai lei era così poco soddisfatto.

    De Seta: "Non sono i temi miei, che poi in gran parte sono di interesse antropologico o riguardano il fatto che la cultura popolare muore e non viene sostituita da nient'altro. Lì c'era un qualcosa perchè c'è un carnevale più raffinato e poi c'è quello della gente semplice. Però non sentivo di doverci mettere niente di mio a parte la capacità tecnica di poter riprendere quello che succedeva e uno sforzo di montaggio per metterlo insieme. Non avevo molte idee, probabilmente".

    Ha anche parlato di problemi con i produttori sopravvenuti nello stesso periodo de Il carnevale di Venezia.

    De Seta: "Più che problemi con i produttori c'erano problemi con la RAI, i distributori…Poi produzione o distribuzione è sempre un condizionamento. Se tornassi indietro mi piacerebbe tornare alle origini, avere i soldi io per fare liberamente quello che voglio senza dover rendere conto a nessuno, tornare ad uno stato di libertà assoluta perchè sennò è quasi un'autocensura e ti sembra di dover rispondere di questi soldi. Quindi uno automaticamente viene condizionato e poi alla fine fai delle scelte sbagliate perchè sai di dover rispondere di questi soldi, che il film deve incassare…Poi magari questo non è capitato a me…Diario di un maestro è stato prodotto dalla RAI ma non mi sono fatto condizionare, anche nell'interesse della RAI fra l'altro perchè è stato un buon successo. Però è un fatto psicologico, di testa. Purtroppo il cinema fra pellicola, sviluppo, e stampa costa molto e allora cedi al condizionamento. Poi c'è il condizionamento del tempo perchè magari una volta i documentari dovevano durare dieci minuti, poi dovevi fare un lavoro di un'ora-un'ora e mezza. Non si può mai fare come uno scrittore o un pittore che sceglie lui la dimensione, cioè prima lo fa e poi sa se la cosa piace o no alla gente. Immaginate se avessero chiesto a Tolstoj un preventivo su Guerra e pace. Che ne sapeva lui? Ha cominciato ed ha scritto per quattro anni di seguito. Come faceva a dire quanto sarebbe stato lungo, quanto sarebbe costato, quanto ci voleva a metterlo in scena? Purtroppo questo è il cinema e siccome costa è un ibrido come quelle figure mitologiche che hanno il busto da uomo e le zampe di capra, perchè le esigenze commerciali, industriali ti scombussolano. Purtroppo non c'è la libertà che c'è in altri campi artistici. Se uno scrittore non è convinto di una cosa la tira fuori anni dopo, dieci anni dopo, o non la tira fuori per niente. Invece quello che noi facciamo deve essere venduto. Questo è un condizionamento forte che spiega poi la nascita e lo sviluppo di tutti i vari generi cinematografici, come la commedia all'italiana, per esempio, perchè i produttori cercano sempre di rifare quello che ha avuto successo".

    Io avevo una curiosità sul sonoro. Lei di solito è restio a inserire nei suoi documentari fonti sonore esterne. Mentre invece in In Calabria c'è questa voce fuori campo che commenta e che è molto presente. Volevo chiederle se forse era una scelta dettata dal fatto di voler porre in maniera forte e chiara il problema di questa cultura popolare che va scomparendo.

    De Seta: "Se lo dovessi rifare non credo che lo migliorerei di molto. Io ho cominciato ad usare la voce fuori campo in Quando la scuola cambia e in La Sicilia rivisitata, ma perchè? Questa è una scella mia di fondo perchè per me è molto importante prima di tutto essere chiari. Allora è meglio compromettere il risultato artistico che non quello della chiarezza e quindi qui per esempio c'è un nesso con l'idea del saggio cinematografico perchè mi sembra che fra l'inchiesta televisiva, immediata, selvaggia ed il film di finzione che ci vuole due anni per farlo ci sia una via di mezzo e potrebbe essere quella del documentario. Probabilmente poi entrano anche altri fattori perchè i miei primi documentari secondo me si dovevano fare così perchè era sottinteso quasi un sentimento di rassegnazione, di nostalgia per questo mondo che scompariva. Almeno io lo sentivo così e quindi c'era la consapevolezza della rassegnazione e della nostalgia per ciò che scompariva, si dava per scontato. Poi, dopo quarant'anni, quando ho fatto In Calabria non ero più convinto di questa cosa, perchè andando avanti, se negli anni Cinquanta pensavo che il prezzo del progresso dovesse essere la morte di questa cultura, dopo quarant'anni mi si è sfaldata fra le mani l'idea del progresso stesso e allora mi ci voleva la parola per dirlo. Credo che non ci ho azzeccato perchè ho capito dopo, chissà la prossima volta, che siccome la parola diventa un mezzo espressivo come un altro, e il cinema è estremamente composito espressivamente perchè ci sono anche l'inquadratura, il colore, il suono, allora credo che la parola dovrebbe diventare una componente poetica quanto le altre. E invece noi ne facciamo sempre un qualcosa di pensato. Non ho avuto il coraggio di inserirla più poeticamente invece di farla dire da una voce canonica come quella di Cucciolla. Forse era meglio che la dicessi io o una collaboratrice del film, però anche lì si va a cozzare contro la resistenza inconscia dei fonici degli stabilimenti che ti dicono che la voce tua non va bene. Mi ricordo che fin dall'inizio io dicevo allo speaker, a Cucciolla, "perchè non parli come con tua moglie?". Poi vedendo i vecchi documentari di Lizzani mi sono accorto che sono tremendi proprio perchè c'è 'la voce della vittoria', c'era uno speaker con una voce come Mussolini, con quel fraseggio, mussoliniano appunto, che ancora sopravvive".

    Perchè Banditi a Orgosolo è doppiato mentre invece La Terra trema è in siciliano. Perchè ha scelto di far parlare i suoi pastori in italiano?

    De Seta: "Intanto La terra trema, quel poco che ne è uscito nei cinema è uscito doppiato…".

    …però gira anche una versione con i sottotitoli, perchè io doppiato non l'ho mai visto…

    De Seta: "…Ma mica a Canale 5…Ora credo che doppieranno anche un film di Kiarostami. E in questo siamo all'assurdo, si torna indietro, siamo proprio uno dei paesi peggiori, dove si doppia tutto. La terra trema nel 1948 è costato centoventi milioni e per farlo con il suono in diretta ci voleva dietro il camion con la pellicola negativa che veniva incisa in sincrono con le immagini. Quello era il sincrono allora. Io sui monti di Banditi a Orgosolo come facevo a portarmi dietro tutti questi macchinari? A parte il fatto poi che i pastori non è che erano degli attori professionisti e quindi ogni volta che parlavano dicevano un'altra cosa, cioè aggiungevano, levavano. Poi c'era il problema del fonico. La cosa richiedeva una resa tecnica troppo forte che poi avrebbe compromesso per altri versi il risultato finale. E poi non sarebbe uscito comunque nei cinema, non escono ancora adesso nei cinema i film sottotitolati. Cominciano adesso con qualche film americano in televisione alla notte. E siamo nel 1996. Nel 1961 come si faceva? Il cinema si fa se rientrano i soldi. In questo caso non sarebbero rientrati i soldi, sarebbe stato un atto di eroismo. Ma perchè, vi dà molto fastidio?".

    No, no, anzi, era per il problema dell'accento sardo…

    De Seta: "L'accento lievemente sardo non andava bene perchè fa ridere, no? E' diventato una cosa buffa. Nei varietà quando vogliono far ridere fanno i siciliani o i sardi. Addirittura il protagonista è stato doppiato da Gian Maria Volontè che ancora non era conosciuto e molte altre parti le ha fatte un attore di origine jugoslava perchè aveva un qualcosa che andava bene nella voce. Il bambino invece l'ha fatto un'attrice, come anche il ragazzino. Ci siamo arrangiati così, dato che ero al mio primo film senza aver mai fatto un doppiaggio".


     
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