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    OMAGGIO A FRANCO ZEFFIRELLI (FIRENZE: 15-23 maggio 2007)

    Firenze, i territori del cinema II edizione: Il genio fiorentino

    15/05/2007 - Il Genio Fiorentino, Provincia di Firenze, APT Firenze, Anemic, in collaborazione con Centro Sperimentale di cinematografia, Mediateca Regionale Toscana, presentano:

    Firenze, i territori del cinema - Seconda edizione
    Omaggio a un Maestro - FRANCO ZEFFIRELLI
    15-23 Maggio 2007

    Nell’ambito della manifestazione Il Genio Fiorentino, iniziativa promossa dalla Provincia di Firenze e dai 44 comuni che la compongono, Anemic propone una rassegna di film dedicati al maestro FRANCO ZEFFIRELLI, regista teatrale e cinematografico di fama mondiale, che ben rappresenta l’ingegno e il talento presenti nelle terre fiorentine. La rassegna ripercorre le tappe più importanti della carriera cinematografica di Zeffirelli, dalle esperienze di aiuto regia con i maestri del cinema come Luchino Visconti, Luigi Zampa e Antonio Pietrangeli, ai film fondamentali della sua filmografia interpretati da attori tra i più significativi della scena internazionale. Ogni incontro sarà accompagnato da un’introduzione critica.

    La rassegna è a cura di Gianna Bandini, Carlo Coda, Enrico Gualandi, Gabriele Rizza. Redazione di Gabriele Rizza, con la collaborazione di Piero Matteini e La Bottega del Cinema - Cineteca di Firenze

    Informazioni: www.geniofiorentino.it

    PROGRAMMA:

    martedì 15 maggio
    Cinema Teatro del
    Popolo, Castelfiorentino
    ore 21.00
    SENSO
    di Luchino Visconti

    mercoledì 16 maggio
    Cinema Mignon,
    Montelupo Fiorentino
    ore 21.00
    FRATELLO SOLE,
    SORELLA LUNA

    di Franco Zeffirelli

    giovedì 17 maggio
    Cinema Alfieri Atelier,
    Firenze
    ore 20.45
    UN TE’ CON MUSSOLINI
    di Franco Zeffirelli
    ore 22.45
    LA BISBETICA DOMATA
    di Franco Zeffirelli

    giovedì 17 maggio
    Cinema Accademia,
    Pontassieve
    ore 21.00
    LA TERRA TREMA
    di Luchino Visconti

    venerdì 18 maggio
    Cinema Alfieri Atelier,
    Firenze
    ore 21.00
    GESU’ DI NAZARETH
    di Franco Zeffirelli

    venerdì 18 maggio
    Cinema Teatro del
    Popolo, Castelfiorentino
    ore 20.45
    JANE EYRE
    di Franco Zeffirelli
    ore 22.45
    L’ONOREVOLE ANGELINA
    di Luigi Zampa

    lunedì 21 maggio
    Cinema Garibaldi,
    Scarperia
    ore 21.00
    CALLAS FOREVER
    di Franco Zeffirelli
    lunedì 21 maggio
    Multisala Cabiria,
    Scandicci
    ore 21.00
    FRATELLO SOLE,
    SORELLA LUNA

    di Franco Zeffirelli

    martedì 22 maggio
    Cinema Alfieri Atelier,
    Firenze
    ore 20.45
    CAMPING
    di Franco Zeffirelli
    ore 22.45
    IL CAMPIONE
    di Franco Zeffirelli

    mercoledì 23 maggio
    Cinema Alfieri Atelier,
    Firenze
    ore 20.45
    ROMEO E GIULIETTA
    di Franco Zeffirelli
    ore 23.00
    LO SCAPOLO
    di Antonio Pietrangeli

    mercoledì 23 maggio
    Cinema Mignon
    Montelupo Fiorentino
    ore 21.00
    BELLISSIMA
    di Luchino Visconti

    mercoledì 23 maggio
    Cinema Garibaldi,
    Scarperia
    ore 21.00
    AMORE SENZA FINE
    di Franco Zeffirelli

    OMAGGIO A UN MAESTRO: FRANCO ZEFFIRELLI: (A cura di Associazione Anémic)

    La sua Aida kolossal ha inaugurato la stagione della Scala. Mentre è di questi giorni la Traviata all’Opera di Roma. Franco Zeffirelli (all’anagrafe Franco Corsi, fiorentino doc come suol dirsi, tifoso eccellente, classe 1923) rappresenta e incarna nel mondo il nostro patrimonio operistico. La sua forza trascinante e commovente. Coinvolgente e melodrammatica: appunto. Nel bene e nel male. Cinquant’anni di vita artistica nel segno della tradizione e dell’eccellenza artigianale. E spesso della polemica. Come si addice a un carattere “franco” di nome e di fatto. L’ultimo trionfo scaligero è stato il coronamento di una carriera operistica all’insegna della grandeur, della fantasmagoria scenografica, dell’esuberanza cromatica. E chi gli rimproverava questo “troppo” che in qualche modo toglieva spazio alla musica, lo mandava nell’inferno mozartiano condannandolo ad assistere per tutta la vita al Don Giovanni, modernista e minimalista, impaginato poco prima dal tedesco Peter Mussbach sullo stesso palcoscenico milanese. Al di là delle bagarre e del temperamento loggionista, l’itinerario zeffirelliano registra una incondizionata dedizione alla rivincita dell’arte dello spettacolo come valore inalienabile e contagioso nel nome e nel segno della “bellezza”, fascino della macchineria, eleganza dell’allestimento, coesione del meccanismo drammatico espressivo in tutte le sue componenti (scene, luci, costumi). Questo dicono forte e chiaro, senza tentennamenti o cedimenti, le sue regie liriche, teatrali, cinematografi che, televisive, “gridate” dai palcoscenici e dai set più prestigiosi d’Europa e d’America, e inequivocabilmente “segnate” dall’apprendistato con Luchino Visconti. Che subito dopo la guerra (il giovane Franco da Firenze trasferitosi a Roma per cercare fortuna nel mondo dello spettacolo) lo volle prima tra i suoi callaboratori come assistente, poi scenografo per Troilo e Cressida e Un tram che si chiama desiderio, e infine aiuto sia in teatro (Cecov, Shakespeare) che al cinema (La terra trema, Bellissima, Senso). E’ l’incipit di una carriera internazionale, volutamente e anche polemicamente “anglosassone”, unica nel suo genere per ampiezza di repertorio, trapunta da spettacoli memorabili come la Cenerentola di Rossini (1953), la Traviata con la Callas del 1958, La lupa di Verga con la Magnani esportata anche in Urss, il Lorenzaccio de Musset che nel 1976 riapre la rinnovata Comédie Française (ed la prima volta che viene invitato un regista italiano) o quel Romeo e Giulietta londinese del 1960 rubricato dal critico dell’"Observer", Kenneth Tynan, come "una rivelazione, forse una rivoluzione", andato in scena al mitico Old Vic dove in seguito avrebbe diretto sir Laurence Olivier e Joan Plowright nell’eduardiano Sabato domenica e lunedì. Sul grande schermo, frequentato accanto a maestri come De Sica, Rossellini, Pietrangeli, dopo l’esordio fuori sincrono del 1957 con Camping (una rarità e una curiosità poterlo vedere in questa occasione), il vero debutto scatta dieci anni dopo con due esemplari riduzioni scespiriane (terreno fertilissimo di caccia a lui più congeniale): La bisbetica domata, con la premiata coppia Burton/Taylor e Romeo e Giulietta, maggior incasso di sempre di un film italiano negli Stati Uniti. Da allora la carriera di Zeffirelli si è sviluppata con una singolare continuità, in una ininterrotta produzione di rilievo internazionale, che lo ha visto spesso lavorare al fianco dei più grandi nomi dello star system, direttori come Karajan o Bernstein, cantanti come Placido Domingo o Mirella Freni, attori di cinema come Liz Taylor, Faye Dunaway, Alec Guinnes, Ann Bancroft, Mel Gibson, Vanessa Redgrave, Fanny Ardant (solo per ricordarne alcuni). Una carriera e un itinerario all’inseguimento della maestria stilistica, il gusto figurativo, il fasto e la spettacolarità dell’allestimento come punto di partenza e di arrivo, “ragione creativa” per catturare l’emozione e l’attenzione del pubblico, anche quando la critica non lesinava rilievi e addebiti di formalismo fine a se stesso. Che fosse Otello, Toscanini, Filomena Marturano, Maria Callas o Gesù di Nazareth.

    BELLISSIMA

    Regia: Luchino Visconti. Sceneggiatura: L. Visconti. Suso Cecchi D’Amico, Francesco Rosi. Fotografi a:
    Piero Portaluppi e Paul Ronald. Scenografi a: Gianni Polidori. Costumi: Piero Tosi. Musica: Franco
    Mannino. Interpreti: Anna Magnani, Walter Chiari, Tina Apicella, Gastone Renzelli, Tecla Scarano,
    Nora Ricci, Arturo Bragaglia, Alessandro Blasetti. Italia 1951; b/n; 115 minuti.

    Il regista Alessandro Blasetti cerca una bambina per un suo film. La notizia attira a Cinecittà una folla di madri eccitate fra cui l’arrembante popolana “mamma core de Roma” Maddalena Cecconi (una sensazionale Magnani) disposta a tutto pur di far trionfare la figlia. Ci rimette la serenità domestica, i sudati risparmi, il rispetto, un po’ di dignità e quasi il matrimonio. Salvo ravvedersi quando non è ancora troppo tardi. Da un soggetto di Cesare Zavattini, Visconti ha tratto una sorta di melodramma satirico, disperante e grottesco, sui falsi miti del cinematografo fabbrica di sogni. Una Cinecittà che crea mostri e sciacalli, spaccia illusioni a buon mercato e rivende immagini andate male cui fa da controcampo il condominio popolare del Prenestino, vivo vivido vivace, dove Maddalena abita e condivide con gli altri, i vicini di casa più o meno solidali, più o meno invidiosi, più o meno sinceri, la sua storia come su un grande palcoscenico teatrale. Nel pessimismo tagliente del fi lm emerge una presa di coscienza fi nale come riscatto e ripensamento, messa in valore delle proprie risorse reali (e dei propri limiti) rispetto a quelle fi ttizie del successo mediatico e della finzione scenica. Ha scritto Alessandro Bencivenni nel Castoro dedicato a Visconti: “Bellissima nasce da uno spunto neorealista. Col neorealismo condivide certe caratteristiche di stile: l’uso austero della macchina da presa, il sonoro in presa diretta, la recitazione che lascia spazio all’improvvisazione degli attori. Ma non parte da una contrapposizione ideologica tra le virtù della realtà e i peccati dell’artificio; cerca piuttosto nelle carenze della realtà le ragioni dell’evasione nel sogno”.

    L’ONOREVOLE ANGELINA

    Regia: Luigi Zampa. Sceneggiatura: L. Zampa, Suso Cecchi D’Amico, Piero Tellini.
    Fotografi a: Mario Craveri. Musica: Enzo Masetti. Interpreti: Anna Magnani, Nando
    Bruno, Ave Ninchi, Ernesto Almirante, Marco Tulli, Armando Migliari, Maria Donati,
    Maria Grazia Francia, Franco Zeffirelli. Italia 1947; b/n; 95 minuti.
    Ediz. restaurata da Cineteca Nazionale - Centro Sperimentale di Cinematografia

    Il neorealismo e l’impegno politico strizzano l’occhio alla commedia. Come già aveva fatto nel resistenziale Vivere in pace, Zampa (1905-1991) racconta l’esperienza di una comunità di povera gente avvalendosi del peso “iconografico” di una presenza divistica: là Aldo Fabrizi qui Anna Magnani. Nei panni della pasionaria Angelina, moglie di un vicebrigadiere madre di cinque figli, che guida le donne della borgata di Pietralata all’assalto dei magazzini di pasta di un borsanerista e poi, dopo l’alluvione, a occupare gli alloggi vuoti di uno speculatore edilizio. Angelina diventa il simbolo e la bandiera di un nuovo partito che le sue “fan” vorrebbero far eleggere in parlamento. Arrestata per essersi opposta alla forza pubblica, esce dal carcere vittoriosa ma, ingannata e manipolata dagli stessi volponi che vorrebbe combattere, decide di abbandonare la politica per dedicarsi tutta casa e famiglia. Zampa manovra una materia narrativa che concede qualcosa al patetico e alla retorica di un clima conciliante all’ombra degli antichi valori e dei buoni sentimenti, ma che riesce a mescolare con sapienza da nuova commedia all’italiana dramma e comicità, realtà e fi nzione, cronaca e spettacolo. Una Magnani trepida e travolgente, insuperabile nel disegnare allerte e stati d’animo, tenerezze e rabbie, condita da alcune battute cult: il commento del fi glio maggiore alla foto della madre sul giornale (“Ti hanno messo grande come Piola”), la seriosa risposta della bambina al padre che vorrebbe mangiare (“Mamma adesso non può, sta per fondà un partito”). Allo spirito da commedia - scrive Aldo Vigano - rimanda la struttura circolare del racconto, il quale inizia e finisce con l’immagine a letto dei due coniugi che, di notte, parlano dei guai domestici, con in mezzo il fi glio più piccolo addormentato”. Il futuro regista Franco Zeffirelli interpreta la parte del figlio “riformista” dello speculatore edilizio che si innamora della figlia di Angelina.

    FRATELLO SOLE, SORELLA LUNA

    Regia: Franco Zeffirelli. Soggetto e sceneggiatura: F. Zeffirelli, Suso Cecchi D’Amico,
    Lina Wertmuller. Fotografia: Ennio Guarnieri. Scenografia: Lorenzo Mongiardino, Gianni
    Quaranta. Costumi: Danilo Donati. Musica: Donovan, Claudio Baglioni, Riz Ortolani.
    Interpreti: Graham Faulkner, Judi Bowker, Laigh Lawson, Kenneth Cranham, Michael
    Feast, John Sharp, Valentina Cortese, Alec Guinness, Adolfo Celi, Alfredo Bianchini.
    Italia/Gb 1972; colore; 140 minuti.

    Un ritratto di Francesco, il poverello d’Assisi, nel suo momento più cruciale, quello che va dalla guerra con Perugia (e la conseguente crisi mistica) e l’incontro con Chiara sino all’approvazione della regola francescana da parte di papa Innocenzo III. Siamo alle soglie del 1210. Un Francesco, se non proprio sovversivo (sarebbe chiedere troppo), certo contestatore che si batte contro una società basata sul profi tto e i piaceri terreni. Un Francesco in versione hippie, che predica la non violenza, il ritorno alla natura e la fratellanza universale. I tempi sono giusti e Zeffirelli (uomo di spettacolo vocato a una missione moralizzatrice) coglie al volo l’occasione per fare del santo una figura simbolo, un precursore di quelle anime, giovanili e ribelli, che si agitano nella società post68 e lottano nel nome di altre necessità e priorità. Scrive Giovanni Grazzini: “Il film congloba una serie di istanza morali (e nel sottofondo politiche) in cui si incontrano antichi slanci mistici e nuove stanchezze ideologiche, l’innocenza dei semplici, la nausea dei consumisti e la sotterranea polemica degli artisti contro chiunque, essendo al potere nello stato o nella chiesa, li tiene lontani dalla stanza dei bottoni”. Fra il troppo serafico di Rossellini e il troppo politico della Cavani, il Francesco di Zeffirelli cerca una terza via, che fra semplicità e purezza contemplativa, non esclude l’operosa presenza nel quotidiano a favore dei poveri, i derelitti, gli emarginati. Il tutto in una sapiente cornice ambientale, più misurata e meno estetizzante di tante altre prove zeffi relliane, illuminata dalla luce “miracolosa” dei paesaggi umbri e toscani grazie all’estro di Ennio Guarnieri, che rimanda a una tavolozza ora vivida e squillante, ora mansueta e pastello. Entrambi esordienti sullo schermo i protagonisti: Graham Faulkner (Francesco) che viene dal teatro e Judi Bowker (Chiara), ex fotomodella. Li doppiano, come già Romeo e Giulietta, Giancarlo Giannini e Anna Maria Guarnieri.

    UN TE’ CON MUSSOLINI

    Regia: Franco Zeffirelli. Sceneggiatura: F. Zeffirelli, John Mortimer. Fotografia: David Watkin. Interpreti:
    Maggie Smith, Massimo Ghini, Joan Plowright, Cher, Judi Dench, Baird Wallace, Charlie
    Lucas, Claudio Spadaro, Gianna Giachetti, Mino Bellei, Pino Colizzi, Massimo Salvianti, Anita
    Caprioli, Roberto Farnesi, Paolo Seganti, Michael Williams. Italia/Gb 1999; colore; 120 minuti.

    Dieci anni di fascismo visti con gli occhi di un ragazzo che si chiama Luca Innocenti ma che altri non è che lo stesso Zeffirelli. Siamo nel 1935 quando il dodicenne Luca, fi glio illegittimo di un fi orentino commerciante di stoffe, viene affi dato dal padre a Mary, romantica donna inglese con funzioni di traduttrice, che decide di portare il bambino (biondo e con gli occhi azzurri, così british insomma) nella spensierata (ancora per poco) comunità di attempate e agiate connazionali che oziano tra i pasticcini di Doney e un tè agli Uffizi. Della variopinta colonia fanno parte anche la vedova dell’ex ambasciatore inglese in Italia, la vispa Miss Arabella e due eccentriche (ancorchè scandalosette) americane, l’archeologa lesbica Georgie e Elsa, una ex ballerina ebrea assai ricca che sarà la fortuna del ragazzo. Con il Patto d’acciaio e la dichiarazione di guerra a fi anco della Germania, l’idillio fi loenglish svanisce e le nostre gentildonne finiscono internate a San Gimignano. Nel frattempo Luca viene mandato in Austria a studiare il tedesco e quando torna in patria nel 1940, ormai adolescente, collabora con Elsa che cerca di aiutare gli ebrei a lasciare l’Italia. Un cast di altissimo livello, come solo Zeffirelli riesce a comporre, per un film che sembra rivolgersi prima di tutto al pubblico di Sua Maestà, destinatario pure dell’autobiografia del regista, uscita in Inghilterra, da cui il fi lm è tratto. Le riprese, effettuate a Firenze, Roma, San Gimignano e nella principesca villa Aldobrandini di Frascati, rivelano il tipico gusto zeffirelliano per l’accurata ricostruzione d’epoca, la vividezza degli ambienti, la caraterizzazione dei personaggi, lo smalto della tavolozza, l’accattivante espressività dell’insieme, anche quando non riesce ad evitare il classico bozzettismo di maniera. Incuriosisce, ed è la forza del fi lm, il punto di vista sul fascismo da un’altra angolazione, quella inglese appunto che col Duce fu a lungo tenera e flirtante. Esemplifi cata e esaltata da questo campionario femminile, un manipolo e una passerella frusciante di vecchie glorie, petulanti e agguerrite, indomite lady di ferro non ancora pronte a farsi da parte e abdicare.

    LA BISBETICA DOMATA

    Regia: Franco Zeffirelli. Sceneggiatura: F. Zeffirelli, Paul Dehen, Suso cecchi D’Amico. Fotografia: Oswald
    Morris, Luciano Trasatti. Costumi: Irene Sharaff, Danilo Donati. Musica: Nino Rota. Interpreti: Richard
    Burton, Elisabeth Taylor, Natasha Payne, Michael York, Cyril Cusak, Michael Horden, Alfred Linch, Alan
    Webb, Bice Valori, Giancarlo Cobelli, Alberto Bonucci, Milena Vukotic, Lino Capolicchio. Usa/Italia
    1967; colore; 120 minuti.

    Siamo la coppia più bella del mondo. La più fanatica. La più squilibrata, scardinata, eccentrica, fuori di testa. Chi meglio di Burton alias Taylor e Liz alias Richard, all’epoca il duo hollywoodiano europeo più gettonato dai rotocalchi per follie bevute sbornie paparazzate scandali prese e abbandoni, avrebbe potuto indossare e calarsi nei panni di Petruccio e Caterina, scatenati protagonisti della più indiavolata e (anti)femminista commedia scespiriana! Richard e Liz ne approfi ttano e non esitano a riversare sullo schermo le schermaglie della loro vita privata. Zeffirelli azzecca la scelta. La coppia funziona, il film pure, il botteghino risponde. Sorretto da un dinamismo incendiario il film comunica la serpeggiante trama amorosa che attanaglia i due promessi sposi, disturbati, collerici, remissivi, nel classico campionario ti disprezzo e ti voglio, più mi brutalizzi più mi faccio docile, cedo e ti amo. Zeffirelli lascia da parte l’aspetto drammaturgico e punta sulla costellazione visiva, trapunta di colori smaglianti e da un estro fi gurativo sempre caro al maestro toscano, un vero punto di vista qui rinforzato dai riferimenti all’iconografia rinascimentale che la fotografi a di Morris pone in risalto. Il risultato è avvincente e convincente. Una commedia animata e giocosa che a volte sembra sfumare nel settecentesco melodramma giocoso o nel broadwayano musical in costume. Hanno scritto: “Preoccupata di equilibrare il racconto fra i protagonisti e i comprimari, tra storia e ricostruzione ambientale, la regia non riesce a fugare dalla messa in scena qualche sospetto di manierismo”.

    LA TERRA TREMA

    Regia: Luchino Visconti. Sceneggiatura: L. Visconti, Antonio Pietrangeli. Fotografia: G.R.
    Aldo. Interpreti: pescatori e abitanti di Aci Trezza: Maria Micale, Sebastiano Velastro, Antonino
    Micale, Antonio Arcidiacono, Giuseppe Arcidiacono, Giovanni Negro, Nelluccia Giammona,
    Nicola Castorina. Italia 1948; b/n; 160 minuti.

    Memorabile operazione cinematografica altamente sperimentale e arditamente consapevole, inquadrature lunghe, lente, spesso immobili, ideologicamente narrative. Opera singolare, diffi cilmente etichettabile, sia rispetto all’universo fi lmico del regista che al quadro di riferimento storico squisitamente neorealista. Lo stesso Visconti anni dopo dichiarava la propria incapacità a defi nirlo un fi lm o un documentario. Opera in bilico fra neorealismo (le location, la naturalezza descrittiva, la presa diretta, l’uso di attori non professionisti) e decadentismo (l’estrema rarefazione dei tempi visivi, l’esasperato rigore fi gurativo, il plot stesso della vicenda). O per dirla con Goffredo Fofi “divisa fra raffi nato decadentismo e marxismo programmatico”. Quando il film uscì Michelangelo Antonioni scrisse: “Per noi, per il cinema italiano (e non solo) è importante che Visconti si sia recato in Sicilia, abbia osservato, visto e inventato. Soprattutto questo: inventato. La terra trema va considerato come una complessa invenzione poetica”. Liberamente ispirato ai Malavoglia di Verga, romanzo di cui Visconti si era “invaghito” per quel suo carattere epico barbarico, titanico e misterioso da tragedia antica (ma tutta l’opera di Verga era considerata un esempio di “arte rivoluzionaria”, fonte di ispirazione per soggetti privi di falsità e di retorica) il fi lm doveva essere laprima parte di una trilogia sui lavoratori siciliani, che non ebbe seguito per l’insuccesso commerciale di questo primo capitolo. Che dava del racconto verghiano una lettura propriamente politica, la lotta sociale e la coscienza collettiva contro l’individualismo e lo sfruttamento padronale. In vista di una nuova coscienza di classe che sarebbe confluita nella vittoria finale dei contadini sui latifondisti, Visconti “rivede il pessimismo, il distacco analitico, l’amaro sarcasmo di Verga, alla luce di una nuova consapevolezza storica, in armonia con quella espressa nel frattempo da Antonio Gramsci” (Alessandro Bencivenni). Il film resta comunque una delle prove più belle del cinema mondiale in quel periodo di profondi mutamenti, memorabile per la plasticità delle immagini, per l’afflato corale, per la commozione lirica con cui seppe narrare il dramma di una famiglia di poveri pescatori sconfitta nella sua speranza di riscatto. Assistente alla regia con Franco Zeffirelli c’è Francesco Rosi.

    GESU’ DI NAZARETH

    Regia: Franco Zeffirelli. Sceneggiatura: F. Zeffirelli, Antonhy Burgess, Suso Cecchi D’Amico, Masolino
    D’Amico. Fotografia Armando Nannuzzi, David Watkin. Scenografia: Gianni Quaranta. Costumi: Marcel
    Escoffi er. Musica: Maurice Jarre. Interpreti: Robert Powell, Olivia Hussey, Yorgo Voyagis, Marina Berti, Maria
    Carta, Regina Bianchi, Anne Bancroft, Claudia Cardinale, Michael York, James Manson, Ernest Borgnine,
    Anthony Quinn, Laurence Olivier, Peter Ustinov, Valentina Cortese, Renato Rascel, Donald Pleasence,
    Christopher Plummer, Rod Steiger, Fernando Rey. Italia/Gb 1977; colore; 240 minuti.

    Versione per le sale da uno sceneggiato televisivo in due parti trasmesso dalla Rai nel marzo 1977. Kolossal di proporzioni bibliche nato da una coproduzione italo inglese che schiera un cast galattico. Zeffirelli, recita la Garzantina televisiva a cura di Aldo Grasso, ricostruisce i principali avvenimenti della vita del Messia in cinque episodi (La natività, L’avvento del figlio dell’uomo, La scelta degli apostoli, La predicazione, La passione e la morte) offrendo un affresco che vorrebbe distruggere “la mitologia del Cristo per fare di Gesù, invece, un vero uomo, non un personaggio di favola”. I costumi e le scene, che ostentano la cura del particolare e la raffinatezza del gusto, fanno da cornice e sfondo alle pennellate vivaci del regista. Per il Mereghetti, lento enfatico oleografico, quasi uno spot pubblicitario, le comparse famose finiscono per essere l’unico motivo di interesse, uno dei peggiori fi lm su Gesù, privo sia di poesia che di vera fede. Lo scenografo Gianni Quaranta, spesso al fi anco di Zeffirelli, così lo racconta: “Con Zeffirelli per prima cosa abbiamo fatto una interminabile serie di sopralluoghi in Palestina. Dell’architettura ebraica dell’epoca di Cristo restano oggi pochissime tracce e quasi nessuna documentazione visiva. Volevamo riscoprirne almeno il sapore. Siamo andati a Cafarnao, a Gerusalemme. Abbiamo girato tutto in Israele. Il famoso tempio di Gerusalemme abbiamo dovuto reinventarlo di sana pianta, sulla base di scarsissime testimonianze. Doveva essere girato dal vero in Egitto ma in quel periodo c’erano ancora gravi tensioni in seguito alla ‘guerra dei sei giorni’, e le assicurazioni ci dissero che non avrebbero offerto nessuna copertura alla troupe in territorio egiziano. Gesù è un film di trecento ambienti. Per fortuna avevamo un budget di un certo rilievo, perché alcune costruzioni sono state davvero imponenti. Le mura di Gerusalemme invece le abbiamo ricostruite attraverso un modellino appeso in aria, a poca distanza dalla macchina da presa. Comparse e attori passavano davanti a questo modellino sospeso a un ulivo. Sul momento sembrava una cosa ridicola. Ma per l’occhio della mdp che accentua la profondità della scena, il trucco risultava perfetto: la gente era in primo piano e le mura sembravano lontane, imponenti, sullo sfondo”. Un impianto scenografi co questo di Quaranta che opera una magica trasfi gurazione del mondo paleocristiano e che, pur nelle sue vaste proporzioni, conserva un sapore di favola, impreziosito dal gusto realistico per i materiali poveri (paglia, legno, tessuti ruvidi, canne, argilla).

    JANE EYRE

    Regia: Franco Zeffirelli. Sceneggiatura: F. Zeffirelli, Hugh Whitmore dal romanzo di
    Charlotte Bronte. Fotografi a: David Watkin. Scenografia: Roger Hall. Interpreti: Geraldine
    Chaplin, William Hurt, Charlotte Gainsbourg, Maria Schneider, Joan Plowright,
    Anna Paquin, Richard Warwick, Peter Woodthorpe, Billie Whitelaw, Fiona Shaw, Elle
    Macpherson, John Wood, Amanda Root, Samuel West, Leanne Rowe, Sheila Burrell.
    Italia/Gb/Usa/Francia 1995; colore; 120 minuti.

    Inghilterra fine Ottocento: Jane Eyre, figlia illegittima, vive affi data a una famiglia di cui è la vittima designata. La zia infatti non ci pensa due volte e la confina in un tetro istituto per orfani, una vera scuola di vita, dove Jane passa dieci anni terribili e durissimi, per uscirne a 23 cresciuta, indurita e con la qualifica di insegnante. Assunta come istitutrice presso una nobile dimora dello Yorkshire, ne diventa l’angelo del focolare. Tanto da indurre il padrone di casa, signore di Rochester, a chiederla in moglie, non fosse che lui è già sposato, con tanto di moglie fuori di testa che vive segregata in un’ala del castello. Alla fi ne il destino è benevolo. Jane eredita una fortuna e sposa il suo uomo nel frattempo rimasto vedovo. Avranno fi gli e vivranno felici. Un ottimo Zeffirelli alle prese con un altro “cult” letterario e al centro ancora una volta di una megaproduzione internazionale. Cromatico, sensibile, non ridondante, essenziale, fascinosamente espressivo. Senza alzare i toni dello scontro con le pagine della Bronte alle quali presta con entusiasmo e rispetto il suo colpo d’occhio, la sua ambizione visiva, la sua straordinaria capacità nella “messinscena” dell’allestimento, il suo elegante, impareggiabile decorativismo. E poi siamo nel “suo” paese, la campagna inglese, le dimore, i colori, i profi li, le architetture, i caratteri, le luci, i tramonti, i panorami. Tutto contribuisce a rendere fluido il racconto e filmicamente credibile questo romanzo di formazione al femminile, la donna che lotta per conquistare prima la dignità personale e poi il diritto all’amore. Come sempre un cast straripante di “primedonne”, dove accanto alla protagonista Charlotte Gainsbourg, primeggiano la governante di casa Rochester, l’ineguagliabile Joan Plowright, e il di lei padrone, un fascinosissimo William Hurt.

    CALLAS FOREVER

    Regia: Franco Zeffirelli. Sceneggiatura: F. Zeffirelli, Martin Sherman. Fotografia: Ennio Guarnieri.
    Interpreti: Fanny Ardant, Jeremy Irons, Joan Plowright, Angela Molina, Jean Dalric,
    Gabriel Garko, Jay Rodan, Anna Lelio, Ignacio Paurici, Tare Marie Anderson. Italia/Gb/Francia/
    Spagna/Romania 2002; colore; 110 minuti.

    Un sogno coltivato a lungo e finalmente coronato. Franco Zeffirelli, dopo molti anni e vari tentativi, riesce finalmente a realizzare un fi lm sulla Divina per antonomasia della scena operistica, protagonista Fanny Ardant. Una operazione produttiva di livello internazionale costata 18 milioni di euro (set in Franca, Romania, Spagna) culminata nell’anteprima mondiale a Parigi (dove Maria Kalogeropoulos, in arte Maria Callas, moriva 53enne in circostanze misteriose giusto 30 anni fa) e nella prima italiana davanti all’allora Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi. Mentre su giornali e riviste campeggia il manifesto del fi lm con la Ardant/Callas in occhialoni neri e turbante bianco che ricorda le dark ladies sul viale del tramonto di Billy Wilder, l’immaginario callasiano, pubblico e privato, si mobilita. Con la Emi, detentrice in esclusiva dei diritti della cantante, che tira fuori dagli archivi materiali inediti, con abiti gioielli foto cimeli costumi di scena in mostra un po’ ovunque e con il panfilo di Onassis, il Christina, che riappare nei porti vip jet set del Mediterraneo. Zeffirelli, che della Callas fu amico oltre che regista in varie occasioni, reinventa il mito del celebre soprano come spunto di rifl essione sull’unicità e irriproducibilità dell’arte. E mescolando cronaca vera e situazioni inventate, immagina una Callas che sola e abbandonata e senza voce nel suo appartamento parigino, fra pillole, alcol, antidepressivi e vecchi dischi, accetta la proposta di un impresario di tornare alla ribalta, interpretando in versione homevideo e in playback la Carmen di Bizet sulla base di una registrazione radiofonica dei suoi anni migliori. Ma alla fine delle riprese, presa da scrupoli di coscienza, decide che è meglio distruggere quel film, “falso triste e disperato”. Il Mereghetti, mai troppo tenero col Nostro, recita: “Se non il migliore,è il più sincero e rischioso dei 20 lungometraggi di Zeffirelli che la Callas la conosceva bene. Lo è, nonostante tutto: lo zeffirellismo patinato, i dialoghi didattici, l’inerzia dei personaggi di contorno, la bigiotteria, il provincialismo del jet set camuffato da grandeur d’autore, il troppo spazio alla messinscena di Carmen. Se questo canto d’amore, di dolore e di nostalgia per una diva - che è insieme un fi lm di fantasmi - ha più di un momento che vibra e soggioga, lo deve soprattutto a Fanny Ardant, ottimamente doppiata da Barbara Castrocani”. La voce di Irons è di Giancarlo Giannini.

    CAMPING
    Regia: Franco Zeffirelli. Sceneggiatura: F. Zeffirelli, Leonardo Benevenuti, Piero De Bernardi. Musica:
    Armando Trovajoli. Scenografi a: Nedo Azzini. Interpreti: Nino Manfredi, Paolo Ferrari, Lyla Rocco,
    Marisa Allasio, Giovanni Cimara, Francesco Mulè, Paolo Poli. Italia 1957; b/n; 110 minuti.

    Due intraprendenti giovani fidanzati, Tao lui Valeria lei (bella e procace), decidono di passare le vacanze in campeggio, da soli e in moto, meglio insidecar. La madre della ragazza ovviamente oppone resistenza. Così obbliga l’altro fi glio e fratello della ragazza, Nino, ad accompagnarli e fare la guardia. Figuriamoci. Comincia un gustoso on the road che prima di arrivare a destinanzione si tinge di imprevisti: la fuga precipitosa dal terreno dove avevano piantato la tenda perché trattasi di zona militare con manovre in corso; l’euforia (e le stravaganze) da condividere con la gente di un paese dove è in corso la tradizionale festa patronale. Infi ne il tanto sospirato international camping. Che diventa ring, spazio di confronto, complicità, crescita ma anche occasione di scontro, ripicche, gelosie, rivalse, equivoci, malintesi, sotterfugi. Valeria non disdegna la corte serrata e le lusinghe di un dongiovanni da strapazzo e da balera, mentre Nanni, la di lui cugina, s’innamora perdutamente di Nino. Alla fi ne, come vuole il buon senso e la logica del fi lm, Valeria e Tao, finita la burrasca, fanno la pace e tornano a Roma tutti contenti (ci voleva una verifica sul campo della tenuta del loro legame!) insieme al Nino, anche lui d’ottimo umore, sapendo che a Firenze c’è chi lo pensa, forse l’ama, certo l’aspetta: la Nanni. Esordio nella regia del giovane Zeffirelli che crea un’operina disinvolta e accattivante, vivace e garbata, una commedia divertente e sentimentale da nouvelle vague alla poveri ma belli, che esalta la verve comica di Manfredi e l’appeal mediterraneo maggiorato della mitica Allasio, attirandosi (incredibile col senno di poi) le ire cattoliche per le spregiudicatezze estive, sapore di sale sapore di mare con te sulla spiaggia legata a un granello di sabbia. Comparsata di Marino Barreto jr e il suo complesso, allora in grande augedi esotismo carioca, e un imperdibile Paolo Poli in una delle sue rare uscite sul grande schermo.

    IL CAMPIONE

    Regia: Franco Zeffirelli. Sceneggiatura: Walter Newman. Fotografia: Fred Koenekamp. Musica: Dave
    Grusin. Interpreti: Jon Voight, Faye Dunaway, Ricky Schroeder, Jack Warden, Joan Blondell, Arthur Hill,
    Elisha Cook. Usa 1979; colore; 120 minuti.

    Si piange molto in questo film (dodici scene di lacrime, una ogni dieci minuti) remake della pellicola diretta nel 1931 da King Vidor con Wallace Beery e il piccolo Jackie Cooper, supercampione d’incassi e varie nomination agli Oscar. Un vispo frugoletto vive col padre che adora nonostante non sia il massimo della rispettabilità: gioca e sbevazza. L’uomo, un ex campione di boxe, ora lavora in un ippodromo ma non dispera di tornare sul ring nonostante i suoi 37 anni. L’occasione si concretizza quando la madre del bambino (che lui crede morta) riappare, ricca, risposata e con molti sensi di colpa. Dopo una rissa il padre fi nisce al fresco e al bambino non resta a malincuore che accettare il dorato mondo materno come nuovo foyer. Ma scalpita, soffre, non sa darsi pace. Intanto il padre esce di galera e decide che è tempo di fare la cosa giusta, costi quel che costi, dal momento che la donna non vuol saperne di tornare a vivere con lui. Allora rimette i guantoni, si allena come un matto, si batte per il titolo con un avversario più giovane, vince sputando sangue, riacquista dignità agli occhi del figlio e coi soldi della borsa gli garantisce un futuro, ma paga il suo trionfo con la morte. Al bambino straziato non resta che trovare conforto nelle braccia della madre. Esempio fra i più alti di zeffirellismo sfrenato e galoppante. Melodrammatico, effettistico, smanceroso. Cinema popolare, romanzo d’appendice, ricatto sentimentale. Tutto sparso a piene mani e dosi industriali. Scrive Giovanni Grazzini: “Sta di fatto che, nonostante la convenzionalità della sua struttura e del suo stile, il fi lm è di un’abilità perversa nel dosaggio degli elementi: i piagnistei infatti sono alternati a scene spettacolari di smalto (sfi late di moda, corse al galoppo, tuffi nell’Atlantico) e culminano in un incontro di boxe che per la sua ferocia appaga il sadismo del pubblico”.

    ROMEO E GIULIETTA

    Regia: Franco Zeffirelli. Sceneggiatura: Franco Brusati, Masolino d’Amico. Musica: Nino Rota.
    Fotografia: Pasqualino De Santis. Costumi: Danilo Donati. Interpreti: Leonard Whiting, Olivia
    Hussey, John McEnery, Michael York, Milo O’Shea, Pat Hetwood, Robert Stephens. Italia/Gb
    1968; colore; 140 minuti.

    Chi l’ha visto sullo schermo (quello grande) il volto di Olivia Hussey non lo dimentica. E davvero mai Giulietta fu alla fi ne più Giulietta. Antica classica moderna senza tempo. Tenera gracile fragile bellissima come una Twiggy e sensuale come il tempo delle mele. Il film non è tutto lì ma lei ci mette una qualità espressiva diffi cilmente rintracciabile in altre colleghe (non sempre coetanee) delle tante trasposizioni per lo schermo della celeberrima tragedia scespiriana (se ne contano una trentina, fedeli infedeli rispettose aggiornate stravolte, a volerle elencare). Questa è una versione per il cinema di una regia teatrale che lo stesso Zeffirelli aveva realizzato nel 1960 a Londra all’Old Vic, un clamoroso successo salutato dalla stampa come “una rivelazione e forse una rivoluzione”. Lo stesso vale per la pellicola, che miete ovunque prestigiosi riconoscimenti, tra i quali spiccano le “nominations” agli Oscar, compresi miglior film e migliore regia, conquistate poi dai costumi di Donati e dalla fotografi a di De Santis (la prima statuettaquest’ultima a fi nire in mani italiane). Senza dimenticare la colonna sonora di un Nino Rota all’altezza della fama felliniana. La storia è nota e la regia la segue con incalzante e copioso senso del ritmo, la complicità della giovinezza che sgorga impetuosa, il desiderio, la voglia di cambiare, di mettere da parte i pregiudizi dei grandi e godersi gli anni migliori con scapigliato e romantico tormento. Fulcro della lettura zeffirelliana è il conflitto generazionale. Romeo e Giulietta sono due giovani che disperatamente cercano di imporre la ragione dei sentimenti contro la logica degli interessi di parte. La recitazione è spesso eccitata, un po’ sopra le righe, con un certo gusto per l’enfasi di marca teatrale più che cinematografi ca, ma il regista è in ogni momento consapevole delle sue scelte e padrone della situazione, sempre sobriamente tenuta sotto controllo. Così da ogni inquadratura, anche nella pagina più scaltra e patinata, sprizza quella sensibile arditezza e contagiosa sfrontatezza che in qualche modo duettava oltre lo schermo con le tempeste ormonali in corso in quell’anno fatidico di sessantotto, che dava spallate ai “poteri” e sconfi nava nelle utopie. Giostra cromatica, avvolgente senso del ritmo, elaborazione spettacolare nel segno della migliore tradizione elisabettiana rivista alla luce di Broadway. Il 17enne Whiting è doppiato da Giancarlo Giannini, la 15enne Hussey da Anna Maria Guarnieri.

    LO SCAPOLO

    Regia: Antonio Pietrangeli. Sceneggiatura: A. Pietrangeli, Alessandro Continenza, Ruggero
    Maccari, Ettore Scola. Fotografi a: Gianni Di Venanzo. Musica: Angelo Francesco Lavagnino.
    Interpreti: Alberto Sordi, Sandra Milo, Nino Manfredi, Madelein Fischer, Anna Maria
    Pancani, Fernando Fernan Gomez, Abbe Lane, Xavier Cugat, Lorella De Luca. Italia/Spagna
    1955; b/n; 90 minuti.

    Ribattezzato anche Alberto il conquistatore il film di Pietrangeli valse a Sordi (che nella sua carriera avrebbe coperto tutto l’arco costituzionale della condizione anagrafica maschile: Il seduttore di Franco Rossi, Il marito di Gianni Puccini, Il vedovo di Dino Risi) un meritato Nastro d’argento come miglior attore. L’Albertone nazionale è impareggiabile e strepitoso nel disegnare il profi lo del maschio italico latino, medio (mediocre) e vigliacco, uscito dalla guerra e avviato verso un irripetibile boom economico. Scapolo impenitente, cresciuto nel bar del paese, mammista di formazione, il ragioniere Paolo Anselmi, rappresentante di elettrodomestici, si trasferisce a Roma, viaggia in Seicento, frequenta i night pre dolce vita dove Abbe Lane balla il cha cha cha, seduce e convive con una hostess (la Milo all’esordio cinematografi co) dà lezioni di seduzione, passa da una donna all’altra (o almeno vorrebbe) e alla fi ne ritorna a casa dalla mamma e dalla fidanzatina d’un tempo che l’ha sempre amato e paziente l’ha atteso, sicura della resa e ripagata da un solenne “sì” sull’altare. Al secondo lungometraggio dopo Il sole negli occhi di due anni prima (sempre con Zeffirelli come aiuto regista) Pietrangeli costruisce una commedia elegante e scorrevole, precisa nello studio di un carattere e sapientemente percorsa da un sottile filo di malinconia. Ormai superata la struttura a episodi - scrive Aldo Viganò - il film si fa apprezzare per l’unità narrativa fatta di perfetti raccordi di montaggio e di raffi nata mobilità della cinepresa: un film quindi ben fatto e sotteso da notevole fi nezza psicologica”. Divertente e ironico, un brillante quadro di costume in una galleria di personaggi nitidi e consapevoli.

    SENSO

    Regia: Luchino Visconti. Sceneggiatura: L. Visconti, Suso Cecchi D’Amico dal racconto
    omonimo di Camillo Boito (con la collaborazione di Carlo Alianello, Giorgio Bassani,
    Giorgio Prosperi, Tennessee Williams, Paul Bowles). Fotografi a: G.R. Aldo, Robert Krasker,
    Giuseppe Rotunno. Scenografi a: Ottavio Scotti. Costumi: Marcel Escoffi er, Piero Tosi. Musica:
    Bruckner. Interpreti: Alida Valli, Farley Granger, Massimo Girotti, Heinz Moog, Rina
    Morelli, Marcella Mariani, Sergio Fantoni. Italia 1954; colore; 120 minuti.

    Racconta Zeffirelli che Visconti, assistendo nel ‘52 alla Scala a un’edizione del Trovatore interpretata dalla Callas, si trovò in un palco di proscenio, ossia in una prospettiva laterale prossima alle quinte che gli presentava l’azione teatrale sullo sfondo dei palchi e della platea. Quando il soprano avanzò alla ribalta per il canto di Leonora al quarto atto, Visconti esclamò: Ecco. Ora so come deve essere il mio fi lm”. Come un cambio di prospettiva, un ribaltamentofra la scena e la sala, la storia (la realtà) che irrompe in teatro e il teatro (la finzione) che rispecchia la storia. Come illustra magnificamente la sequenza iniziale con la mdp che dalla sala si inoltra sul palcoscenico, scorge le quinte, ruota, torna indietro, inquadra l’orchestra, i palchi e le varie classi che li popolano e sale in loggione, il punto di vista più alto e più estraneo che riesce ad abbracciare tutta la vicenda, contenuto e contenitore. Capolavoro di Visconti e caposaldo del cinema italiano, al centro di infi nite riletture critiche, dibattiti da cineclub e spossanti dispute ideologiche. La bellezza algida e passionale di Alida Valli, la battaglia di Custoza come un quadro di Fattori sul campo di Waterloo, il melodramma come ineludibile e sontuosa radice culturale, Verdi, Bruckner, Stendhal, Heine, Venezia moribonda e Verona vistata a lutto, un tradimento amoroso che ne nasconde uno ben più grave politico e quel “senso” della nostra storia risorgimentale come “rivoluzione incompiuta” (mancata o tradita) che provocò panico fra i democristiani di turno che imposero tagli, revisionismi e un finale diverso, oltre a premere sulla giuria veneziana perché non gli venisse accordato alcun premio. Resta lo splendore fi gurativo, di una magnifi cenza liquida e pastosa, esaltata dalla versione recentemente restaurata a cura della Cineteca Nazionale.

    AMORE SENZA FINE

    Regia: Franco Zeffirelli. Sceneggiatura: Judith Rascoe da un romanzo di Scott Spencer. Fotografi a: David
    Watkin. Musica: Lionel Richie. Interpreti: Brooke Shields, Martin Hewitt, Shirley Knight, Don Murray,
    Richard Kiely, James Spader, Tom Cruise, Robert Moore. Usa 1981; colore; 115 minuti.

    Uno Zeffirelli americano fa un film molto americano. Sempliciotto e remissivo. Amori e tragedie. Padri e fi gli, rapporti generazionali, contrasti familiari. Niente di nuovo. I ragazzi si amano i genitori non vogliono. Da quando Shakespeare si inventò Romeo e Giulietta, siamo sempre a rifl ettere sui due amanti veronesi. Gioventù e freschezza anche qui ma con vittoria fi nale del bene sul male. L’amore supera ogni ostacolo che si frappone fra David (Hewitt) e Jade (Shields), compreso il carcere cui lui è condannato per eccessiva irruenza. L’età dei protagonisti è dichiaratamente scespiriana: 17 anni lui, 15 lei. Che educata dal padre, facoltoso medico di Chicago, alla libertà di pensiero e di spinello, amoreggia col pari fi glio di un avvocato, lo ospita in camera da letto, trascura il sonno e gli studi. Ma il di lei genitore tornato burbero e ostile (tolleranza zero) butta fuori il ragazzo che non regge il colpo della separazione, si tormenta, dà fuoco alla casa dell’amata, finisce in clinica psichiatrica dove fra spasimi e singhiozzi, e lettere senza risposta, ci resta due anni. Uscito in libertà condizionata lo attendono nuove prove, esercizi di sopravvivenza, sofferenze senza fine, il carcere, due famiglie distrutte, altro che sull’orlo di una crisi di nervi, l’oggetto ossessivo del desiderio che sembra a portata di mano e di nuovo fugge. Un melodramma corn flakes con tutte le tessere al posto giusto. Sconfi nato e arruffato, stucchevole, macchinoso, paradigmatico, palpitante. Lacrime e rabbia. Violini e caminetto, latente incestuosità, velata omosessualità, caste nudità. Semplice e manicheo, schematico e fragile, un film sull’amore senza limiti e confini, fatto per le grandi platee giovanili, oggi tornato di moda sui nostri schermi in formato “mocciano mucciniano”. Non è quindi vano (ri)chiedersi quello che si chiedeva Giovanni Grazzini all’uscita del film: “Ciò che conta è sapere se un cinema come questo, culturalmente modesto, psicologicamente superfi ciale, narrativamente affrettato, stilisticamente cosmopolita, è omologo allo spettatore che si è scelto”. La canzone del titolo è cantata da Diana Ross e Lionel Richie. Cercate Tom Cruise al suo esordio cinematografico (un aiutino: si chiama Bill).

    La Redazione

    Nota: Si ringrazia l'Associazione Anemic per la cortese segnalazione.


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