Ispirato alla storia vera di una coppia islamica non sposata del nord del Mali. Il loro crimine? Non erano ufficialmente sposati e quindi criminali per la legge divina. Furono lapidati nel 2012 davanti a centinaia di persone.
Commento critico (a cura di FRANCESCO ADAMI)
Timbuktu è un lungometraggio diretto da Abderrahmane Sissako, noto regista mauritano, che propone una visione particolare della realtà del Mali e della confinante Mauritania. La sceneggiatura scritta da Sissako insieme a Kessen Tall presenta una struttura classica con tratti documentaristici sulle usanze e sul terrore vissuto dalle popolazioni viventi a Timbuctù. Filo conduttore della narrazione è il personaggio di Kidane (Ibrahim Ahmed), un uomo umile e sorridente che cerca di vivere in tranquillità con sua moglie Satima (Toulou Kiki) e la loro figlia Toya (Layla Walet Mohamed). Proseguendo la visione del lungometraggio, l'attenzione si sposta
in modo efficace verso altri personaggi che trovano spazio in una caratterizzazione dai lati superficiali ma utili alla comprensione della storia di Kidane e del loro microcosmo narrativo. Veri antagonisti della popolazione, che vive nelle territori in cui si sviluppa la storia, sono un gruppo di commilitoni jihadisti, che impone delle regole crudeli ma viste in
modo positivo per coloro che credono in quel tipo di jihad. Si sviluppa così un interessante dialogo tra uno degli esponenti maggiori dei jihadisti e un religioso islamico, attraverso il quale si notano in chiave pacifica e colta, molte delle duplici visioni ed interpretazioni dei testi sacri.
L'evento che fa progredire la ritmica degli avvenimenti narrati avviene quando GPS la mucca appartenente a Kidane, viene uccisa accidentalmente da Amadou, il pescatore, creando un ribaltamento nella vita di Kidane, che si ritrova coinvolto in una situazione tra la vita e la morte. Questo evento diventa il pretesto principale per mostrare le atrocità delle torture, le condizioni costrittive e le discriminazioni attuate da parte degli oppressori di popoli e di tutte le forme di tirannia. La scelta di raffigurare questa realtà è
avvincente, anche se non è sviluppata in modo efficace: dal punto di vista della storia non c'è un vero e proprio
fattore innovativo. Diventa coinvolgente nel momento in cui si nota la sofferenza personale di Kidane, come uomo libero e padre, attraverso il rapporto con la famiglia e il destino, strettamente connesso alle sue consenzienti azioni. Vi sono punti di partenza per una approfondita analisi della vita vissuta da questo popolo sofferente e soffocato dalla realtà , ma si limitano ad immagini circoscritte connesse solo in parte con una linea guida principale.
Dando uno sguardo alla linea generale della storia esposta, questa poteva anche essere rapportata ad epoche e ambientazioni diverse, dove sono o sono state presenti dittature, che reprimono ogni azione attraverso la totale denigrazione dell'essere umano. Un grande elogio va a Ibrahim Ahmed che mostra una capacità espressiva e interpretativa notevolmente elaborata, rendendo vivo il personaggio di Kidane in tutte le sfumature caratteriali e sentimentali. Dal punto di vista tecnico, l'elaborazione visiva offerta è ottima e molto curata: in molte
sequenze sembra di osservare fotografie in movimento di reportage
come quelli del Nation Geographic, attraverso un'attenzione particolare alla paesaggistica raffigurata sempre in chiave molto realista. Lo stile delle riprese è ben elaborato riportando una predominante accentuazione al linguaggio cinematografico pur mantenendo una linea visiva fotograficamente vicina al naturalismo
documentaristico.
Un film la cui tematica sensibilizza gli animi, mostrando le atrocità che vivono i popoli africani ed una realtà che sicuramente deve essere conosciuta nel mondo. Condizione che poteva essere resa stilisticamente più accattivante e meno
radicata nelle caratteristiche della classica dicotomia tra buoni e cattivi tipici di un certo stile di cinema.