FURY: BASTERANNO SOLO CINQUE UOMINI AL SERGENTE 'WARDADDY' (BRAD PITT) PER COLPIRE AL CUORE LA GERMANIA NAZISTA?
THE BEST OF 'CINEMA SOTTO LE STELLE' (Cinema all'aperto - Estate 2015) - Dal 2 GIUGNO - RECENSIONE ITALIANA e PREVIEW in ENGLISH by PETER DEBRUGE (www.variety.com)
(Fury; REGNO UNITO/CINA/USA 2014; Drammatico di guerra; 134'; Produz.: Columbia Pictures/QED International in associazione con LStar Capital/Le Grisbi Productions/Crave Films e Huayi Brothers Media ; Distribuz.: Lucky Red)
Cast: Brad Pitt (Don 'Wardaddy' Collier) Shia LaBeouf (Boyd 'Bible' Swan) Logan Lerman (Norman Ellison) Michael Peña (Trini 'Gordo' Garcia) Jon Bernthal (Grady 'Coon-Ass' Travis) Jim Parrack (Sergente Binkowski) Jason Isaacs (Capitano Waggoner) Xavier Samuel (Tenente Parker) Brad William Henke (Sergente Davis) Kevin Vance (Sergente Peterson) Scott Eastwood (Sergente Miles) Alicia von Rittberg (Emma) Anamaria Marinca (Irma) Eugenia Kuzmina (Hilda Meier) Laurence Spellman (Sergente Dillard)
Musica: Steven Price
Costumi: Anna B. Sheppard
Scenografia: Andrew Menzies
Fotografia: Roman Vasyanov
Montaggio: Jay Cassidy e Dody Dorn
Makeup: Alessandro Bertolazzi
Casting: Lindsay Graham e Mary Vernieu
Scheda film aggiornata al:
07 Maggio 2017
Sinossi:
IN BREVE:
Quasi alla fine della Seconda guerra mondiale, nell'aprile del 1945, mentre gli Alleati completano l'avanzata nel territorio europeo, un agguerrito sergente dell'esercito chiamato Wardaddy (Brad Pitt) è al comando di un carro armato Sherman e di un gruppo di cinque uomini per una pericolosa missione dietro le linee nemiche. In evidente inferiorità numerica e mal equipaggiati, Wardaddy e i suoi uomini devono affrontare ogni avversità nel tentativo di colpire al cuore della Germania nazista.
SYNOPSIS:
A crew of Americans in Nazi Germany toward the end of World War II embark on a brave mission.
April, 1945. As the Allies make their final push in the European Theatre, a battle-hardened army sergeant named Wardaddy commands a Sherman tank and her five-man crew on a deadly mission behind enemy lines. Out-numbered, out-gunned, and with a rookie soldier thrust into their platoon, Wardaddy and his men face overwhelming odds in their heroic attempts to strike at the heart of Nazi Germany
Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)
LA PSICOLOGIA DELLA GUERRA SECONDO DAVID AYER, BRAD PITT, SHIA LABEOUF, LOGAN LERMAN, MICHAEL PEÑA, JON BERNTHAL & CO.
Si fa presto a dire film bellico. Che con la strada lastricata di kilometri e kilometri di celluloide più o meno autoriale sul campo già fa tirare un sospiro di rassegnazione. Eppure questo Fury, creatura a tutto tondo di David Ayer che lo ha ideato, scritto, diretto e prodotto, dal titolo scarnificato, spolpato del superfluo per rendere protagonista assoluta la canna di mitraglia di un carro armato, con molto da condividere con altri film che lo hanno preceduto, non solo ha del suo da raccontare, ma lo ha pure incastonato in un impianto drammaturgico davvero singolare: il lurido ed oscuro ventre dello stesso carro armato, lordo di sangue di qualche compagno che non ce l'ha fatta. L'unica casa disponibile.
Non è tanto per sporcare la carta con due righe di stampo biografico
se vogliamo ricordare che David Ayer a 18 anni si è arruolato nella marina degli Stati Uniti prestando servizio a bordo di un sottomarino nucleare durante la guerra fredda. E' solo alla fine della carriera che Ayer si è dedicato alla letteratura diventando uno scrittore. Ha poi scritto e co-prodotto il suo ormai celebre Training Day diretto da Antoine Fuqua, che ha fatto vincere a Denzel Washington un Oscar come Migliore Attore. Sono sufficienti i primi fotogrammi a tradire l'anima profondamente intimista di Fury. Con quello scenario ambientale post apocalittico, nebulosamente polveroso e vagamente azzurrino, popolato da scheletrici resti di vegetazione affumicata, spettrale devastazione dalla cui profondità di ripresa di un campo lunghissimo avanza lentamente a cavallo uno dei tanti protagonisti di quell'ultimo 'sussulto nazista', per dirla con le parole dello stesso Ayer, rigurgitato dalle viscere dilaniate e purulente del secondo conflitto bellico. Una metaforica 'metafisica dell'orrore', si direbbe, alla
Malick, esaltata da una superba fotografia, in stretta sinergia operativa con la regia, prima di raggiungere le inevitabili schegge impazzite da mattatoio, già variamente mostrate anche da Steven Spielberg ad esempio in Salvate il soldato Ryan. Anche se lo stile di regia di Ayer e Spielberg per certi versi sembrano agli antipodi. Ayer scarta dall'iconismo di una narrativa esplicita servendosi ora dell'adombramento che per lo più nega il riconoscimento, talaltra dell'immediatezza dell'azione che uccide a tutta velocità .
scavo interiore dei suoi protagonisti, dominante il conglomerato d'obbligo di esplosioni, spari e lanci di granate sul campo di guerra. Un manipolo di uomini che mentre condivide l'angusto abitacolo di Fury, una nicchia di ferro come casa, sotto la guida del sergente Don 'Wardaddy' Collier di Brad Pitt, avanza, mirando al cuore della Germania nazista del 1945, col fermo proposito di sferrare il colpo mortale. Al suo fianco il Boyd, 'Bible', di un intenso Shia La Boeuf, il predicatore che imbraccia le armi per una 'giusta causa', il cinico e grottesco soldato Grady, 'Coon-Ass', di Jon Beranthal, e il Trini 'Gordo' di Michael Peña. Li raggiungerà un novizio sprovveduto e impreparato come il dattilografo Norman Ellison di Logan Lerman, che continua a convincersi di essere lì per errore, e che proverà a rinunciare, a reclamare il diritto di arrendersi, prima che 'Wardaddy'/Pitt, per il suo bene, non lo obblighi ad
un'iniziazione terrificante quanto necessaria alla sua sopravvivenza e a quella dei suoi compagni, almeno fino a quando sarà possibile. E la sequenza della sua iniziazione rientra nel manipolo di quelle ad alto impatto emotivo, che Ayer non si fa mancare in Fury.
Del resto, i conflitti interiori di questi uomini rappresentano il sale di questo familiare e ad un tempo inedito spaccato bellico. A cominciare dallo stesso Wardaddy di Pitt, che potrà richiamare quanto si vuole l'Aldo Reine da lui stesso interpretato in Bastardi Senza Gloria di Quentin Tarantino, ma che qui in Fury ci regala un ritratto tragicamente conflittuale di grande incisività . Sull'onda di un'umanità repressa di cui è pronto a spogliarsi in rari e preziosi scorci privati: quando lascia che la dura e implacabile scorza epidermica scivoli per qualche momento a terra, per concedersi qualche cenno ad inflessioni emotive. Inflessioni che in simili circostanze sono un lusso che
sa bene di non potersi permettere. Così come lo sapeva anche il suo Achille nel Troy di Wolfgang Petersen.
In Fury ritroviamo anche coordinate affini al Suite francese di Saul Dibb nella sequenza di incursione di Wardaddy/Pitt e del giovane Norman/Lerman nella casa tedesca abitata da una sola donna, almeno prima che faccia la sua comparsa la giovanissima Emma (Alicia von Rittberg). Ma in Fury c'è anche un'aria pericolosamente in sospensione appuntata alla parete del sospetto. Il sospetto che le cose possano precipitare da un momento all'altro, e su più fronti. Ma c'è un momento in cui ancora una volta l'arte della musica, per l'appunto di un pianoforte, la gioventù e il fatto di esser vivi, placa quell'alito di paura e di orrore che aleggia ovunque, nella casa e fuori di essa. Orrore fatto di imboscate, di soldati bambino o bambine in una Germania che non disdegna di reclutare chiunque pur
di non soccombere. Orrore fatto di donne o bambini impiccati, il cui peccato si legge su una targa appesa al loro collo e che li ricongiunge tutti sotto l'unico comun denominatore del rifiuto all'arruolamento per la guerra: 'Non volevo che i miei figli combattessero', 'Sono un vigliacco che non ha voluto combattere per il popolo tedesco', sono alcune tra le infamanti scritte.
Il che porta ad una semplice e logica conclusione: c'è sempre qualcosa in fondo al sanguinolento pozzo della guerra, qualunque esso sia, da pescare per un altro sguardo che, il più delle volte, finisce per rivelarsi necessario, senza il rischio di peccare di ridondanza. Uno sguardo che svergogna ancora una volta quella veste stracciata e logora della stupidità umana. E La guerra di Piero è qui viva più che mai anche se - grazie a Dio! - c'è qualcuno in Fury che ne celebra un'altra versione. Una versione
alternativa in cui è possibile 'gettare le armi', metaforicamente parlando, e lasciare in vita il nemico, magari giovane come te, piovuto sul campo di un insensato massacro non per scelta.
Secondo commento critico (a cura di PETER DEBRUGE, www.variety.com)
BRAD PITT PLAYS A WATERED-DOWN VERSION OF HIS 'INGLOURIOUS BASTERDS' CHARACTER IN THIS DISAPPOINTINGLY BLAND LOOK AT A WORLD WAR II TANK CREW.
Some feats are unforgettable: We remember the Alamo, along with the 300 Spartans who died at Thermopylae. But a five-man American tank crew (actually, four men and a baby, to be more accurate) overwhelmed by a platoon of German soldiers? Not only did the standoff depicted in “Fury†never happen, but it will likely be long gone from moviegoers’ memories six months from now, after Sony’s marketing blows over and people go back to watching “Inglourious Basterds†— the other, better pulp World War II movie featuring Brad Pitt as a heavily scarred, slow-drawling Nazi hunter. With a disappointing domestic reception ahead, David Ayer’s first big-studio foray as director will rely on a strong showing overseas, where its fantasy of American exceptionalism will seem all
the more egregious.
Until now, writer-director Ayer has largely focused his attention on gritty LAPD dramas, Tasering the genre back to life with such tell-it-like-it-is pics as “Training Day†and “End of Watch.†Set during the waning days of World War II, as the Allies advance on Berlin and the Nazis put up vicious resistance on their home turf, “Fury†shifts the director’s focus to military history. As such, the project marks a massive step forward in both ambition and scale for Ayer, but also brings disappointment. Though colorfully embellished with authentic detail and logistically complex to bring to the screen, Ayer’s script is bland at the most basic story level, undermined by cardboard characterizations and a stirring yet transparently silly climactic showdown.
Even so, the film benefits from the scribe’s usual research-based approach to capturing the tight, honor-bound dynamic of serving on the front lines, enriched by his ear for precise
(and period-appropriate) technical patter. The pressure-cooker atmosphere is enhanced by the fact that Pitt’s character, Sgt. Don Collier (a diluted version of his Lt. Aldo Raine from “Basterdsâ€), and his men are sardined into a Sherman tank in which they’ve been serving side by side since North Africa. They all have nicknames (Collier’s is “Wardaddyâ€), as does the tank itself: “FURY,†menacingly painted in all caps on its 76mm cannon barrel.
It’s a marvel of military service how men who might despise one another in civilian life can become like brothers in the field, and here, we get a sense of both the off-color squabbling and the deep-rooted camaraderie among these virtual siblings. Wardaddy’s team includes the Scripture-quoting “Bible†(Shia LaBeouf), Latino driver “Gordo†(Michael Pena, affecting an early-century Mexican accent) and barely evolved swamp-rat mechanic “Coon-Ass†(Jon Bernthal). Ayer introduces the team from within the tight confines of their tank,
a space that doesn’t yield many good angles, but allows for some nifty lighting tricks. D.p. Roman Vasyanov’s favorite is clearly to frame just the actors’ eyes through the narrow slits of the tank’s armor.
These guys look and sound like they’ve been to hell and back (even pretty-boy LaBeouf, who appears with his face scruffy and teeth blacked out for the role). But don’t let the constant stream of personal, off-color insults fool you. Their views may differ, but they can agree on one thing: “Best job I ever had!†they exclaim, and Ayer clearly believes it. That’s not necessarily the case for baby-faced newcomer Norman Ellison (Logan Lerman), a clean-shaven, wet-behind-the-ears Army typist assigned to join them at the outset — more for reasons of dramatic convenience than practical necessity.
Norman serves as the audience’s proxy, allowing Ayer to show us the ropes as the kid is forced into a
situation more intense than he’s ready to handle: Norman retches after discovering the scalp of a German soldier while scrubbing the blood from his seat in the tank. As war-movie cliches go, the onscreen spew is off-putting yet effective (Tom Hanks did it when he landed on Normandy Beach in “Saving Private Ryanâ€), the tough-guy equivalent of watching a neophyte take his first smoke onscreen. The poster boy for S.L.A. Marshall’s infamous statistic, estimated in his book “Men Against Fire,†that 75% of American troops in World War II never pulled the trigger for the purpose of killing, Norman has serious reservations about handling the machine gun he’s assigned. But he grows up fast as tough-love Wardaddy treats the kid like his own “war son.â€
It’s either that or risk letting the incompetent new team member get everyone in the crew killed, which is just the over-simplistic dynamic Ayer exploits for
the remainder of the film. There’s even a poignant if somewhat protracted interlude featuring “4 Months, 3 Weeks and 2 Days†star Anamaria Marinca and younger beauty Alicia von Rittberg (“Barbaraâ€), in which Pitt’s character enables the incredulous Norman to lose his virginity: “She’s a good, clean girl. If you don’t take her in that bedroom, I will.â€
It was cigar-chomping World War II vet Samuel Fuller who practiced the philosophy that the first shot and last shot of each of his films was the most important. The same could be true of “Fury,†which opens and closes with corpse-strewn battlefields, which bookend the film with haunting evidence of the aftermath of war. Generally speaking, “Fury†looks less like recent war movies — with their modern, handheld camerawork and overall emphasis on immersion — than the more classically framed studio pics of an earlier era, where careful attention has been paid
to meticulous compositions. The same goes for Steven Price’s score, which offers variations on a single three-note motif, poignant when appropriate, but also easily expandable into a full-blown military theme as needed.
Though it’s the action scenes that thrill, Ayer makes a point of balancing them with the quiet stretches between skirmishes, acknowledging that boredom — punctuated by a certain giddy tension — characterized much of the time soldiers spent at war. One could seldom anticipate when or where the enemy might strike, but when they did, the transformation from safety to survival mode was instant and entire. That makes for several heart-clutching sequences, including one that narrows Wardaddy’s tank column down to just one as they face off against a superior German Tiger tank, using the Fury’s speed and agility to defeat their armor-piercing rival. (The production shot with actual Sherman and Tiger tanks from World War II, along with
a reconstructed interior whose removable walls did little to diminish the claustrophobia of the tight space.)
In another standoff, the tank column advances on a treeline at dusk. The scene looks like something out of “Star Wars†as the opposing sides exchange what looks like green and red laser fire, though the appearance and sound are both true to Ayer’s research: The glowing bullet trails are tracers, which allowed gunners to see where they were shooting — or not, in the case of the trigger-shy Norman.
As in “End of Watch†(in which one character miraculously recovers from a near-fatal shooting), Ayer allows himself to play God here, deciding the fates of his characters for emotional and dramatic impact, even if none should logically survive the assault. Would a team of five men with a half-disabled tank really dig in their heels and fight a platoon of Germans nearly 300 strong? This
choice is the most “Hollywood†element in a film that is constantly shifting between disturbing, realistic details (a burning man who shoots himself to escape the pain, or the German “cowards†hanged by the SS from street poles) and the stilted, sometimes even hammy liberties needed to make its point.
Ayer’s seemingly contradictory approach can be heard in nearly every line: On one hand, he goes out of his way to capture authentic-sounding slang, encouraging the actors to use accents that aren’t always intelligible amid the hyper-attuned (and occasionally deafening) sound mix. On the other, there can be no mistake that this is dialogue, not natural speech, for they express themselves in terse, trailer-quotable soundbites that tend to remind us that we’re dealing with a collection of stereotypes, of which Bernthal’s redneck is the least convincing, though none ever seems more than skin-deep. If their sacrifice is meant to be memorable,
we must first believe them to be men: Ironically, it’s the baby of the group, Norman, who emerges “Fury’s†most full-fledged character.
Perle di sceneggiatura
Bibliografia:
Nota: Si ringraziano Lucky Red e Maria Rosaria Giampaglia (QuattroZeroQuattro)