“Posso chiederti una cosa?
“Non posso dirti che ti risponderò
L’avvio aperto su una prima disquisizione dialettica tra due interlocutori assenti sul campo - il dialogo si svolge a schermo nero - è un anticipo sull’effettivo decollo del film, ed è piuttosto accattivante, per non dire geniale. Formula stilistica cui Lars Von Trier ne La casa di Jack ricorre anche in qualche altro passaggio narrativo in corso d’opera.
Altro fattore estremamente azzeccato e funzionante è la voce fuori campo dell’interlocutore supremo, di cui, all’inizio, non è del tutto chiara - volutamente - neppure l’identità : ed è il personaggio, dietro le quinte per la maggior parte del tempo, di cui si fa carico il compianto Bruno Ganz. Personaggio che potrebbe essere scambiato per un prete, o persino direttamente per Dio, nell’aura privata di una confessione, a dir poco pruriginosa. La confessione di un criminale incallito (il Jack di un inquietante, eppur convinto e convincente,
Matt Dillon) nella folle convinzione di creare opere d’arte - con tanto di disquisizioni teorico-filosofiche corredate da disegni ed immagini di cattedrali gotiche per comparazione. Poi il registro matura fino a perdersi in un dedalo di vicoli paralleli in cui si prosegue a disquisire, tra un omicidio e l’altro.
Omicidi che nel film vengono chiamati ‘incidenti’, prima della conclusione appuntata sull’antichità greca e che esprime al meglio – dal punto di vista scenografico – la discesa agli inferi di Jack/Dillon. Discesa agli inferi preceduta dal momento della grande rivelazione dell’identità dell’interlocutore supremo di Jack, il Virgilio di Bruno Ganz. E qui ha inizio un altro film di matrice più ‘dantesca’, denominato per la precisione ‘Epilogo Kasabatis’ che, per l’appunto secondo la retorica greca, l’ultima parte dell’orazione (corrispondente alla ‘peroratio’ dei Latini), che mira a commuovere l’uditorio. Laddove riecheggia un ronzìo la cui intensità aumenta man mano che ci avviciniamo al
cospetto della sofferenza. Ma lo speciale accompagnatore Virgilio/Ganz, finalmente uscito allo scoperto, ha il preciso scopo di finire quel capolavoro iconico che è la casa ideale del malvagio protagonista (già ingegnere aspirante architetto), mai portata a termine per quanto più volte iniziata e poi demolita. Ed ecco un’altra idea geniale: al di là della costruzione surreale, basata su incontrovertibili dati di fatto - i crimini come mattoni, speculari ai sensi di colpa indotti, di fatto mai provati - è proprio quella stessa casa ad aprire verso ‘l’ultimo viaggio’, ossia verso quella dimensione ultraterrena in cui è dato di riavvolgere il nastro della propria vita.
Ed è semmai questo il registro figurativo su cui Lars Van Trier eccelle: il montaggio velocizzato sui climax di una vita perversa e votata al crimine, quel mix di immagini in corsa, avvolgente e terrificante, è l’esempio vivente di un indiscutibile autore che sa come fare
cinema, magari, in punta di provocazione, magari esagerando. Provocazione ed esagerazione sono per l’appunto gli ingredienti dominanti in corso d’opera, in cui non mancano occasioni che costringono lo spettatore più sensibile - ma a dire il vero anche quello più coriaceo - a volgere lo sguardo altrove per il disgusto. Al punto che se non si trattasse dell’autoritratto di un uomo malvagio, di uno psicopatico criminale, egregiamente ripreso nella sua indole trasversa da primi e primissimi piani all’insegna della quiete prima della tempesta, verrebbe da imputare di misoginia il povero Lars che in effetti, riversa sul primo protagonista proprio questo malsano sentimento.
Ma ad essere disturbanti non sono tanto le modalità di uccisione – e lo sono non c’è che dire! – quanto piuttosto quel compiacimento che può essere ammesso solo come soggettiva dello stesso psicopatico. Entrare nella sua mente e doverne vedere e assaporare in lungo e in largo
l’operato, non è propriamente una passeggiata. E’ comunque quell’insistito compiacimento che pervade i preparativi, meticolosi e sfiancanti, di Jack (Matt Dillon), a tracciare il solco narrativo fin nel suo nervo portante: quello che va a tornire e a definire, i contorni di questa personalità demoniaca, al di là di calma e controllo apparenti, in un costruttore di opere della morte ad arte: indicato, non senza ironia, come Mr. Sophistication. Macabramente sofisticato anche nei ragionamenti che paradossalmente, tentano di sovvertire i ruoli tra vittime e carnefice, ribadendo quel velo di misoginia che pervade il tutto.
Con La casa di Jack von Trier esibisce una cinematografia
multistrato e multilingue che accoglie anche la fotografia in bianco e nero, con particolare attenzione ai negativi - “Attraverso il negativo vedi il tuo effetto demoniaco insito nella luce†- così come la musica classica sopraggiunge ad enfatizzare i momenti più salienti dell’opera d’arte criminale. Ma non viene sottratta l’occasione di entrare in scena neppure alla pittura di svariate epoche.
Il cambio di formato poi, con il ricorso al bianco e nero per inserti di repertorio tratti dal reale, come l’intercalare del pianista, scorci della storia più truce di matrice nazista, con una fugace comparsa di Hitler in persona - di cui peraltro proprio Bruno Ganz aveva rivestito i panni ne La caduta (2004) di Oliver Hirschbiegel - va ad intersecarsi con il genere di disquisizione illustrata, tramite disegno animato, andando così a parafrasare l’ombra che segue e avanza con l’uomo che cammina nell’ipotetico tratto da un lampione ad un altro:
giusto il lasso di tempo che intercorre tra la bramosia di uccidere e la durata dell’appagamento dopo averlo fatto. E man mano che l’ombra si allunga cresce anche il dolore. Ad un certo punto si fa largo anche la filosofia di vita in natura con esempi tra agnelli e tigri, non dimenticando la poesia di Blake ma, come gli fa osservare Virgilio/Ganz: “Tu leggi Blake come il diavolo legge la Bibbiaâ€. E il diavolo come ben si sa, non vede certo di buon’occhio la religione che, come Jack considera, “ci trasforma in una massa di schiaviâ€.
D’altra parte, secondo la filosofia del criminale, “Lo scopo ultimo dell’essere umano si realizza solo dopo la morteâ€. Adesso non sto qui a raccontarvi tutto il capitolo comparativo tra la decomposizione dei corpi e quella degli acini di diversi tipi di uva, in diverse modalità di essiccazione, per arrivare, attraverso la ‘muffa nobile’, ai
Le incursioni nella sua infanzia poi, con le fughe tra campi con le canne, e con la rievocazione del taglio dell’erba con la falce percepito come il respiro del
Il corpo centrale de La casa di Jack muove tuttavia da quei cinque ‘incidenti’, scelti a caso in un periodo di dodici anni. E tra questi, quello più sconcertante e surreale, a tratti comico, è il primo, che vede protagonista la donna, insistente ed insopportabilmente invadente, di Uma Thurman, con l’auto in panne per una gomma forata, alle prese con un crick che non funziona. La sua richiesta d’aiuto snervante, e rinnovata ad oltranza, oltretutto condita da insinuazioni denigranti, a carico
di Jack/Dillon, avrà , ovviamente, risvolti tanto macabri quanto fulminei. Al contrario, nel secondo incidente, le cose vanno per le lunghe e l’approccio con la vittima è incredibilmente surreale, ma traccia al contempo il carattere maniacale del criminale tipo, ossessionato dalla pulizia, riscoprendolo efficacemente meticoloso, di contro alla carente pratica di strangolamento. L’intermezzo con il poliziotto sopraggiunto sul luogo del delitto si gioca poi sul binario della commedia dell’assurdo.
Tra gli altri casi di ‘incidente’, o per meglio dire, crimine, c’è la famiglia composta dalla madre con i due bambini, che, mentre tocca registri altri sempre declinati sul macabro-sadico - costringere una madre ad imboccare i figli appena uccisi penso abbia pochi eguali - nella finitura finale, diventa una sorta di quadro dell’orrore vero e proprio: con tanto di cornice fatta con l’erba verde; una sottocornice interna composta di uccelli neri morti messi in doppia fila; e al centro la ‘familia’
uccisa, non senza un senso del sadico nella folle ricerca dell’opera d’arte che tende all’icona, al capolavoro. Un “abbattimento selettivo che ricorda la pulizia etnicaâ€! Tragicamente! “La caccia è una metafora dell’amore, e questa è la tua debolezza, Jackâ€, considera Virgilio/Ganz.
Quando si arriva alla fatidica fidanzata Jacqueline (Riley Keough) che Jack chiama Simple, trovandola apertamente alquanto gallina, già ci siamo fatti l’idea dell’ingenuità delle vittime di Jack/Dillon, a parte la provocatoria donna/Thurman dell’inizio. Ma il climax dell’orrore lo si raggiunge con la lapidazione dei seni della sua ‘fidanzata’, pre-tracciata con il pennarello rosso indelebile, a cui viene pure richiesta la scelta del coltello da usare. Non osiamo immaginare come avrebbe risolto se a commettere i crimini di Jack ci fosse stata una donna, accanita sugli uomini. O forse riusciamo a immaginarlo fin troppo bene! Beh, dove non osano le aquile riesce Lars Von Trier!
Ma qui, dopo gli immancabili, interminabili preamboli,
arriva anche l’eccesso degli eccessi, con il trash come condimento che ha a che vedere con un portamonete: a voi il coraggio di scoprire di cosa si tratta, con la motivazione che nulla doveva andare sprecato.
La continua conversazione tra Jack/Dillon e il suo - misterioso per la maggior parte del tempo - interlocutore, annota nel frattempo considerazioni su equazioni filosofiche da porsi a piè di pagina dell’accaduto, come se il protagonista scrivesse il libro della sua vita e il suo interlocutore ne redigesse le note. Si tratta evidentemente di un ‘contenitore’ stracolmo, volto a vedere il tutto dalla diretta prospettiva dello psicopatico in campo, in un modo quanto meno desueto, per non dire del tutto inedito. Stracolmo da non porre abbastanza attenzione quando sta per traboccare fuori dai bordi. E qui capita in più occasioni, tra cui ad esempio all’altezza dell’esperimento del proiettile incamiciato in grado di permettere
l’omicidio di un gruppo di persone, posto in attesa nella cella frigorifera adibita al ricovero dei cadaveri. Che dire!? Alla lunga tutto diventa noioso e persino sfiancante, a meno che non si pretenda dallo spettatore lo stesso compiacimento del suo autore, il che si profila come una battaglia persa sul nascere.
Secondo commento critico (a cura di La parola al film)
trailer ufficiale:
clip 'Macabri esperimenti':
clip 'Un solo proiettile':
clip 'Creare arte':
clip 'Disturbo ossessivo-compulsivo':
clip 'Improvvisazione':
clip 'Mr Sophistication':
clip 'Una benedizione':
clip 'Io sono un ingegnere'
Perle di sceneggiatura
Virgilio (Bruno Ganz): “Quello che vedo è un paziente con una sindrome ossessivo-compulsiva in piena regolaâ€
Jack (Matt Dillon): “Ho avvertito la pioggia come una specie di benedizione e l’omicidio come una liberazioneâ€
Virgilio/Ganz: “In realtà tu eri un Satana orribilmente perverso, hai accettato il fatto di essere uno psicopatico… E’ piuttosto insolito. Lo psicopatico non accetterà mai di esserloâ€