"I film che ci portano in zone ben specifiche hanno sempre il potere di trasmetterci molto, e questa è una storia fortemente legata alla zona del nord ovest degli Stati Uniti. Potevamo visualizzare fin dall’inizio un’ambientazione, una location e un viaggio che sarebbero stati molto fotogenici, e una storia che sarebbe stata piacevole da raccontare... I protagonisti di questa storia si proteggono l’uno con l’altra e si influenzano con le proprie idee. In questa relazione padre-figlia, Tom ha imparato a essere più matura e saggia in alcune circostanze, per poter aiutare il padre vittima delle proprie vulnerabilità. Lui, in cambio, prova a insegnarle ogni cosa utile che conosce"
La regista e co-sceneggiatrice Debra Granik
(Leave No Trace; USA 2018; Drammatico; 108'; Produz.: Bron Studios, First Look Media, Harrison Productions; Distribuz.: Adler Entertainment)
Soggetto: Tratto dal libro My Abandonment di Peter Rock ed è ispirato alla storia vera di un padre e una figlia che vivono lontani dalla società, nascosti in un parco ai margini di Portland, in Oregon negli Stati Uniti. Lui, reduce di guerra, vuole scappare dalle regole e dalla conformità che una comunità impone, lei si trova a fare i conti con la naturale voglia di farne parte.
Preliminaria - Riconoscimenti/Premi:
2018 - Cleveland International Film Festival
Candidatura per il miglior film indipendente
Candidatura per la miglior regista a Debra Granik
2018 - Heartland Film Miglior film
2018 - Independent Film Festival of Boston Miglior film
2018 - Seattle International Film Festival
Candidatura per il miglior film
Candidatura per il miglior attore a Ben Foster
Candidatura per la miglior attrice a Thomasin McKenzie
Candidatura per la miglior regista a Debra Granik
2018 - Sydney Film Festival Candidatura per il miglior film
Cast: Ben Foster (Will) Thomasin McKenzie (Tom) Jeff Kober (Signor Walters) Dale Dickey (Dale) Jeffery Rifflard (Veterinario a VA) Derek John Drescher (Larry) Michael Draper (Corridore) Peter Simpson (Poliziotto) Erik McGlothlin (Ufficiale del K-9) Dana Millican (Jean) Alyssa McKay (Valerie) Ryan Joiner (Tiffany) Michael J. Prosser (James) Spencer S. Hanley (Pastore) Tamera Westlake (Danzatrice) Cast completo
Bob Werfelman (Bob)
Musica: Dickon Hinchliffe
Costumi: Erin Aldridge Orr
Scenografia: Chad Keith
Fotografia: Michael McDonough
Montaggio: Jane Rizzo
Effetti Speciali: Ken Erck
Makeup: Anne Sellery (capo dipartimento makeup); Stuart Gordon Tribble (capo dipartimento acconciature)
Casting: Kerry Barden e Simon Max Hill
Scheda film aggiornata al:
28 Novembre 2018
Sinossi:
Una ragazza adolescente (l’esordio prorompente di Thomasin McKenzie) e suo padre (Ben Foster) hanno vissuto di nascosto per anni in Forest Park, un grande bosco situato alle porte di Portland, in Oregon. Un incontro casuale li poterà allo scoperto, ed entrambi saranno costretti a lasciare il parco per essere affidati agli agenti dei servizi sociali. Proveranno ad adattarsi alla nuova situazione, fino a che una decisione improvvisa li porterà ad affrontare un pericoloso viaggio in mezzo alla natura più selvaggia, alla ricerca dell’indipendenza assoluta, costringendoli a confrontarsi con il loro conflittuale desiderio di essere parte di una comunità e allo stesso tempo il forte bisogno di starne fuori.
Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)
Non poteva che essere il primissimo piano di uno scorcio di bosco l'apertura di Senza lasciare traccia, terzo lungometraggio della scrittrice e regista Debra Granik - già vincitrice con il suo Down to the Bone proprio al Sundance Film Festival, dove è passato pure questo film (oltre che nella sezione Quinzaine des Réalisateurs a Cannes) - pochi istanti prima di scorgere tra arbusti e rami boschivi la prima protagonista, una ragazzina adolescente e di lì a poco un uomo. L'intimità dei due protagonisti tra loro e con quel bosco, i primi gesti di un quotidiano essenziale, minimalista, radicato nelle regole fondamentali di una sopravvivenza all'aperto, lascia intuire i tratti di due esistenze ai margini di una società integrata e comunemente riconoscibile. Sarebbe da non credere se non fosse documentato. E stupisce sempre comunque che si tratti di una storia vera, lambita dalla leggenda e narrata nel romanzo My Abandonment di
Peter Rock: un padre e una figlia che vivono per scelta nascosti in un parco ai margini di Portland, in Oregon, negli Stati Uniti. Ci devono essere forti motivazioni per una scelta del genere e queste occhieggiano gradualmente tra le righe di un pentagramma inespresso, né scritto né detto, solo vissuto da una vita che ha escluso deliberatamente le regole della conformità che una comunità organizzata naturalmente impone. La prima motivazione che trapela è la morte di una moglie e madre che ovviamente ha lasciato il segno, con l'aggravante - ma questo lo si capisce più tardi - che il protagonista reca le ferite interiori, prima che fisiche, più profonde da reduce di guerra, un militare - per questo ben addestrato alla sopravvivenza in situazioni d'emergenza - veterano della guerra in Iraq affetto da PTSD (disturbo da stress post-traumatico). Argomento che sembra stare particolarmente a cuore alla regista, se solo
si pensa al suo precedente Stray Dog su un veterano del Vietnam.
Se già per il plurinominato agli Oscar Un gelido inverno la Granik aveva fatto scelte ottimali per i suoi interpreti (con Jennifer Lawrence e John Hawkes), qui in Senza lasciare traccia, sembra addirittura superare se stessa, offrendo il primo piano di questa inusitata coppia padre-figlia a Ben Foster (The Messenger, Hell or High Water) per il suo introverso ed evidentemente disturbato Will e alla diciottenne neozelandese Thomasin McKenzie (la Astrid di Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate) - un debutto come prima protagonista sensazionale il suo! - per la figlia Tom, ben più matura della sua età, alla luce di quel genere di esperienza e della cura premurosa, e a suo modo amorevolmente responsabile, del padre. Regia ed interpretazioni dipingono uno tra più intensi e viscerali ritratti, carico di tutto il misterioso magnetismo di quella particolare esistenza
vissuta ai margini. Ma non esattamente alla maniera di Into the Wild-Nelle terre selvagge di Sean Penn, per quanto ce lo ricordi il genere di vita declinata in sopravvivenza a contatto diretto con una natura più o meno ostile. Quello di Will/Foster e di Tom/McKenzie non è un percorso 'on the road', è più un viaggio dentro di loro, in un stato di isolamento stanziale. Almeno fin quando non verranno casualmente scoperti ed affidati ad agenti sociali amanti dei test all'insegna del 'vero o falso', sia pure con le migliori intenzioni di comprendere ed aiutare. Ma il tentativo di una vita preconfezionata, con una casa e un lavoro - dove paradossalmente Will, anziché preservare la natura boschiva, deve contribuire al disboscamento per preparare gli alberi di natale alla vendita - stride profondamente con l'anima in fuga di quel padre che sa chiudersi a riccio in criptici silenzi quanto essere premuroso
e ansiosamente amorevole con la figlia.
In questo cammino, riescono ad essere a modo loro magnetiche anche le poche figure in campo che i due incrociano strada facendo, dopo impervie difficoltà, in coda ad una seconda fuga nello Stato 'vegetativo' di Washington. E' comunque l'America altra, al di fuori di città e di società preconfezionate, quella 'invisibile' che compare protagonista, senza lasciare traccia, appunto. E' quella più propria di altre persone 'ferite' nel profondo, che pure vive ai margini nel bosco, o tutt'al più nei camper sopra la collina, dove tra una manciata di baite sparse, sopravvive quel genere di vita e di generosa solidarietà di cui il mondo sembra davvero aver perso traccia e memoria. Un mondo imbibito di una cultura 'contadina' che insegna ai ragazzi come familiarizzare con i conigli o con le api. E' questo che piace alla figlia Tom/McKenzie e che inizia a far breccia dentro
di lei, di contro al perseverare in una vita da eremita. Il problema di suo padre non è il suo, e per quanto indissolubile possa restare quel legame affettivo, indistruttibile, comincia a farsi strada, all'orizzonte, l'idea che quel percorso congiunto debba ad un certo punto diramarsi in un doppio binario.
Una certa spiritualità di marca 'animista' sembra poi pervadere l'intera pellicola: la dicono lunga in proposito, la delicata metafora del ragno intrappolato al centro della sua stessa tela, il dono a tempo di quel cane speciale in grado di percepire e di aiutare chi si trova in difficoltà. Motivi straordinari che culminano in un finale da Oscar, con primissimi piani spesso traditi per scelta, mentre ci si affida alla semplice essenza di un sentimento compresso e sospeso in un volto risucchiato dall'ombra, o in un gesto minimalista di solidarietà condivisa come il sacco di viveri lasciati appesi nel bosco per
un qualcuno che non si è mai visto ma che ha dato prova di gradire per anni e che sappiamo continuerà a gradire. E' questa la miglior sceneggiatura scritta tutta in sottrazione per questa perla cinematografica senza pari: riuscire ad incidere solchi profondi senza sforzarsi di lasciarne traccia.