GRAND BUDAPEST HOTEL: RALPH FIENNES PROTAGONISTA DELLA NUOVA PELLICOLA CORALE DI WES ANDERSON ('MOONRISE KINGDOM'). LO AFFIANCANO, PER UN CAST ALL-STAR, SAOIRSE RONAN, TILDA SWINTON, LÉA SEYDOUX, OWEN WILSON, JUDE LAW, BILL MURRAY, EDWARD NORTON, ADRIEN BRODY, WILLEN DAFOE, JEFF GOLDBLUM E TOM WILKINSON
VINCITORE di 1 GOLDEN GLOBE 2015 per il 'MIGLIOR FILM COMMEDIA O MUSICALE' - Seconde visioni - Cinema sotto le stelle: 'Summer 2014' - ORSO D'ARGENTO GRAN PREMIO DELLA GIURIA alla 64. BERLINALE - RECENSIONE ITALIANA e PREVIEW in ENGLISH by JUSTIN CHANG (www.variety.com) - Dal 10 APRILE
(The Grand Budapest Hotel; USA/GERMANIA 2014; Dramedy; 100'; Produz.: American Empirical Pictures/Indian Paintbrush/Scott Rudin Productions/Studio Babelsberg; Distribuz.: 20th Century Fox)
Un affresco dell'Europa a cavallo tra le due guerre mondiali.
GRAND BUDAPEST HOTEL narra le avventure di Gustave H (Ralph Fiennes), leggendario concierge di un lussuoso e famoso albergo europeo e di Zero Moustafà (F. Murray Abraham), un fattorino che diviene il suo più fidato amico. Sullo sfondo, il furto e il recupero di un celebre dipinto rinascimentale, la violenta battaglia per un'enorme fortuna di famiglia, ed una dolce storia d'amore. Il tutto tra le due guerre, mentre il continente è in rapida e radicale trasformazione.
IN DETTAGLIO:
Il Grand Budapest Hotel è un'incantevole vecchia rovina, che è stata testimone di alcune delle più grandi e miserevoli vicende umane che la storia abbia mai conosciuto. E quando un fantomatico personaggio dietro cui si cela un noto romanziere, inizia a raccontarcene qualcuna, siamo nel 1985. Con un passo indietro arriviamo al 1968. Il giovane narratore è un uomo curioso di tutto e in particolare di quel mondo favoloso che è stato il Grand Budapest Hotel e che più non è; interroga il portiere per capire qualcosa in più del luogo che ha scelto per trascorrere parte della sua solitaria esistenza. Incontra così Zero Moustafa, proprietario dell'albergo e custode dei suoi segreti. Nel momento in cui Zero inizia a svelarli, finalmente si può aprire il sipario su Gustave F. concierge nel 1932 e su quell'umile fattorino (Zero appunto) che l'uomo ha messo subito sotto la sua ala protettiva. Elegante, raffinato, profumatissimo, Gustave ama donne di una certa età (tutte le avventrici dell'albergo, ad essere sinceri). Una di loro, Madame D., sarebbe disposta a tutto pur di averlo sempre al suo fianco. Alla morte violenta della donna, Gustave riceve in eredità un quadro di grande valore, Il ragazzo con la mela, scatenando l'ira funesta del figlio di Madame, Dmitri, e del suo violento scagnozzo Jopling, affiliato da tempo ad un gruppo militare chiamato Zig Zag (ZZ). Iniziano così una serie di peripezie per il povero Gustave, accusato ingiustamente dell'omicidio e finito in carcere per questo. Supportato dal fedele Zero e dalla dolce fidanzata del ragazzo, la pasticcera Agatha, Gustave riesce a dimostrare la propria innocenza. Ma il suo mondo perfetto è destinato a durare molto poco.
SYNOPSIS:
The adventures of Gustave H, a legendary concierge at a famous European hotel between the wars, and Zero Moustafa, the lobby boy who becomes his most trusted friend.
Grand Budapest Hotel recounts the adventures of Gustave H, a legendary concierge at a famous European hotel between the wars, and Zero Moustafa, the lobby boy who becomes his most trusted friend. The story involves the theft and recovery of a priceless Renaissance painting and the battle for an enormous family fortune -- all against the back-drop of a suddenly and dramatically changing Continent.
Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)
RACCONTARE E' UN'ARTE E WES ANDERSON NE CELEBRA MODI E MANIERE IN QUESTA PICCOLA PERLA DI UN CINEMA RILUCENTE DEL BRITISH HUMOUR PIU' IRRESISTIBILE QUANTO TRASLUCIDO DELLE PIU' TRISTI PAGINE DI STORIA NELL'EUROPA A CAVALLO DELLE DUE GUERRE. UN CINEMA CHE AMMICCA ALLE SUE ORIGINI (IL MUTO) TRAMITE UN GENEROSO INTERCALARE DI DIDASCALICHE LOCANDINE VARIAMENTE DECORATE IN SENO AD UNA NARRAZIONE SCANDITA PER CAPITOLI, COSI' COME DI GIOCHI DI INQUADRATURA NELL'INQUADRATURA, TRA CUI L'OMBRA CIRCOLARE IN SOVRAIMPRESSIONE SUL FOTOGRAMMA DI BASE. IL PROTAGONISMO DI UN CAST A DIR POCO STELLARE, DAVVERO 'ALL-STAR', SI AVVICENDA, DI EPISODIO IN EPISODIO, INTERSECANDO, FINO A CONFONDERE I LIMITI DEL RACCONTO PILOTA, I PERSONAGGI RIEVOCATI CON QUELLI REALI, PRIMA CHE IL TUTTO POSSA ESSERE RICONDOTTO, CON ESTREMA ELEGANZA E PRECISIONE, AL PUNTO DI PARTENZA. VIRTUOSISMO ARTISTICO VUOLE CHE, SUI TITOLI DI CODA, SIA IL SIPARIETTO DI UNA GUSTOSISSIMA ANIMAZIONE, UNA SORTA DI POST SCRIPTUM, DI
POSTILLA, A PRENDERE COMMIATO DA QUESTO INCONSUETO OMAGGIO AL RACCONTO DEI RACCONTI IN CUI NEI PANNI DEL 'CONCIERGE' GUSTAVE H. NEGLI ANNI TRENTA, RALPH FIENNES TOCCA L'APICE DELLE SUE CORDE PIU' COMICHE
Quando il racconto corre sul filo della memoria, e dell'omaggio, la rievocazione diventa la realtà del momento e i personaggi vivono nella nostra mente come se veramente dicessero le cose che dicono rivolgendosi direttamente a chi ascolta, mentre di fatto ne stiamo solo leggendo le vicende. Non è raro che l'autore di un racconto parli in prima persona ma è ben più singolare il fatto che un personaggio di quel medesimo racconto arrivi ad interromperlo per prendere lui stesso la parola, proseguendo per qualche tratto, quasi a rimarcarne in modo assolutamente personale alcune sfumature o dettagli, per poi magari passare la mano, o, per meglio dire, la parola, a qualche suo compagno di avventura, prima di poter di
ad un giovane scrittore (Jude Law) avventore al fatidico Grand Budapest Hotel, ci ha ormai completamente risucchiati all'interno di uno sgargiante mosaico composto da tante miserie umane: quelle miserie di cui proprio il Grand Budapest Hotel è stato testimone elettivo per decenni e decenni, fino al suo decadente disfacimento, speculare all'imbarbarimento umano cresciuto in misura esponenziale.
Raccontare è un'arte e si direbbe proprio che il regista Wes Anderson (I Tenenbaums, The Darjeeling Limited, Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore) con Grand Budapest Hotel ne abbia voluto fare una vera e propria celebrazione, entrando, per l'appunto ad arte, nelle pieghe più nascoste e meno conformiste della narrazione, regalando ai personaggi protagonisti, primari e comprimari, mai così tanto numerosi e mai rivestiti da star tanto illustri riunite insieme sotto lo stesso tetto, analogo cono d'ombra e di luce. Un caleidoscopio di cornici nella cornice, di personaggio nel personaggio, per arrivare a comprendere per
quale miracolo del destino un 'garzoncello' di nome Zero (Tony Revolori) sia mai potuto approdare alla legittima proprietà del Grand Budapest Hotel (F. Murray Abraham da anziano e primo narratore), condotta all'altezza del 1932 da un profumatissimo e inappuntabile concierge come Gustave H. (Ralph Fiennes), con un debole per le anziane signore, assolutamente ricche e alquanto passionali a dispetto dell'età . Una storia, sul cui sfondo campeggia, tra una sequenza più esilarante dell'altra, il furto e il recupero di un celebre dipinto rinascimentale, la conseguente a violenta battaglia per un'enorme fortuna di famiglia e una dolce storia d'amore. Storia che sa farsi poliedrica, frizzante ed umoralmente grottesca anche grazie ai suoi bizzarri personaggi: uno di questi è incarnato, per quanto in un cameo allargato, d'altra parte molto incisivo, dalla Madame D. di Tilda Swinton, che da un pò di tempo si direbbe sempre più incline ai trasformismi più estremi declinati in
parodia. Storia altresì inequivocabilmente tetra dal basso delle più bieche declinazioni di avidità (vedi le dinamiche di accaparramento dell'eredità della fatidica Madame D. deceduta per morte violenta) e di insensata follìa (vedi le regolamentazioni di fermo da parte del regime fascista sempre animato dalle peggiori intenzioni e dai più insani pregiudizi).
Ma per tessere la sua ode celebrativa alla narrazione come si deve, lasciandone intendere gli umori dominanti da commedia, Wes Anderson sceglie il disegno pastellato tipico della favola per gli inizi (vedi i tratti figurativi e cromatici del Grand Budapest Hotel ritratti anche nella stessa locandina del film) mentre per la fine, sullo scorrere dei titoli di coda in bianco su fondo nero - anticipata da disegni monocromi di strumenti musicali tipo mandolino variamente decorati, nel probabile sofisticato simbolismo iconico di strumento elettivo del cantastorie - si libera il siparietto animato di un danzatore cosacco che appare e scompare dal
fondo scuro del grande schermo come fosse il tendaggio di un palcoscenico teatrale. Siparietto animato che tanto ricorda lo spirito che ebbe ad animare Mario Monicelli per introdurre L'armata Brancaleone (1966). Nei versi di mezzo di quest'ode al racconto innalzata da Wes Anderson con Grand Budapest Hotel, ci sta poi il corpo del film, trattato a capitoli, con tanto di locandine variopinte che rimandano al cinema muto, così come pure il vezzo dell'ombra con l'obiettivo circolare aperto al centro, che in certi particolari momenti Anderson staglia in sovraimpressione sul fotogramma di base. E ancora al cinema muto rimanda il montaggio accelerato di certe sequenze, assolutamente umoristiche, tra cui l'inseguimento sulla neve tra il buffissimo Jopling di Willem Dafoe sugli sci - scagnozzo di Dimitri (il figlio avido di Madame D. vestito da Adrien Brody) - e Gustave H./Fiennes con Zero/Revolori su slitta. Del resto è lo stesso Anderson a dichiarare
che il suo ottavo film nasce da un mix di ispirazioni, tra cui le commedie degli anni Trenta e le storie e memorie dello scrittore viennese Stefan Zweig. E il fatto che Gustave H./Fiennes fosse concierge per l'appunto nel 1932, quando Zero Mustafa era ancora un umile fattorino al suo servizio, prima di diventare intimo confidente e suo amico, rende il tutto estremamente coerente.
Il resto, cornice nella cornice - che sia una piccola finestra aperta sull'interno o sull'esterno, tonda o rettangolare, o la botola di uno scavo per una fuga dal carcere, da cui sotto in su, o sotto in giù, si affacciano taluni protagonisti in un certo episodio - passa per la tramatura di un racconto frammentato, in cui la parentesi apre su un'altra parentesi, là dove l'ardito montaggio di questo racconto dei racconti ci tiene a far combaciare diversi momenti sull'onda di volontà e intenti, là dove lo
sguardo dritto in macchina da presa, rivolto allo spettatore diventa una sorta di leit motiv del film: è il caso della lettera inviata da Gustave H. dal carcere alla direzione supplente del Grand Budapest Hotel, in cui si alterna chi ha scritto quelle parole a chi le riceve e le sta leggendo agli altri. Miracolo della celluloide e del talento di chi la sa gestire ad arte, facendosi largo tra scenografiche ambientazioni od oggetti in grado di caratterizzare al meglio l'anima dei personaggi, del resto mai lasciati sconditi in alcun modo, anzi, diremmo piuttosto, generosamente accompagnati, da quella salsa piccante agrodolce atta ad insaporire, parola dopo parola, battuta dopo battuta, l'effervescente sceneggiatura, shakerata a dovere dalle musiche di Alexandre Desplat. Un'opera che ha ben meritato l'Orso d'Argento 'Gran Premio della Giuria' alla 64. Berlinale dove è stata presentata in anteprima e che forse si aggiudica lo scettro in seno all'originale
iter cinematografico di Wes Anderson.
Secondo commento critico (a cura di JUSTIN CHANG, www.variety.com)
WES ANDERSON'S CAPTIVATING 1930S-SET CAPER OFFERS A VIBRANT AND IMAGINATIVE EVOCATION OF A BYGONE ERA.
One of the more frequent accusations leveled at Wes Anderson ¡ª that he¡¯s a filmmaker who favors style over substance ¡ª will ring even hollower than usual after ¡°The Grand Budapest Hotel,¡± a captivating 1930s-set caper whose innumerable surface pleasures might just seduce you into overlooking its sly intelligence and depth of feeling. As intricately layered as a Dobos torte and nearly as rich, this twisty tale of murder, theft, conspiracy and unlikely friendship finds its maker in an unusually ambitious and expansive mood ¡ª still arranging his characters in detail-perfect dioramas, to be sure, but with a bracing awareness of the fascism, war and decay about to encroach upon their lovingly hand-crafted world. The result is no musty nostalgia trip but rather a vibrant and imaginative evocation of a bygone era, with
a brilliant lead performance from Ralph Fiennes that lends Anderson¡¯s latest exercise in artifice a genuine soul.
From a creative standpoint, ¡°The Grand Budapest Hotel¡± sees Anderson continuing in the strong mid-career groove that began with his 2009 stop-motion toon, ¡°Fantastic Mr. Fox,¡± and continued with 2012¡äs ¡°Moonrise Kingdom,¡± a poignant return to live-action form that surpassed $68 million in worldwide B.O. to become his biggest hit in years. It remains to be seen whether the writer-director¡¯s eighth feature can cross that commercial threshold, though its robust narrative, starry international cast and exotic period setting promise good specialty returns and a strong embrace from Anderson¡¯s fanbase. After making its world premiere as the Berlin Film Festival¡¯s opening-night attraction, the Fox Searchlight release opens Stateside on March 7.
Although set in another droll storybook universe of Anderson¡¯s own obsessive making ¡ª in this case, the fictitious Eastern European republic of Zubrowka ¡ª ¡°The
Grand Budapest Hotel¡± somehow proves the opposite of distancing. The director¡¯s well-worn formal and tonal strategies ¡ª the exquisite visual ornamentation, the novelistic chapter headings, the pervasive sense of yearning for the past ¡ª have rarely felt as fittingly applied as they do here, bringing a lost, antiquated world to vivid cinematic life. And while Anderson¡¯s script (based on a story conceived with Hugh Guinness) deploys an elaborate tale-within-a-tale-within-a-tale framework, the playfully convoluted saga unfolds with remarkable lucidity.
It¡¯s 1985 when a distinguished, middle-aged writer (Tom Wilkinson) recalls how, in 1968, he came to stay at the Grand Budapest Hotel ¡ª or rather, what was left of it following the ravages of postwar communism. In this vast, moldering ruin, long abandoned but fondly remembered by a few, the author (Jude Law) finds himself dining with the hotel¡¯s friendly but mysterious owner, Zero Moustafa (F. Murray Abraham, excellent), who relates the curious
story of how he came to possess it. And so the film retreats even further into the past, back to when the Grand Budapest was a thriving Alpine spa resort, its gaudy pink facade suggesting a mittel-European spin on Sleeping Beauty¡¯s Castle. Amid the chandeliers and staircases of this plush, red-carpeted ¡¯30s paradise (looking grand indeed, courtesy of Adam Stockhausen¡¯s production design), Zero (Tony Revolori), a shy, unassuming young immigrant who fled his Middle Eastern homeland, works as a junior lobby boy under the strict but dynamic tutelage of the hotel concierge, Monsieur Gustave H. (Fiennes).
Sporting a mustache, dressed in a purple tuxedo and reeking of cologne, Gustave is at once a demanding taskmaster and a reckless bon vivant, upholding a lofty tradition of first-class service while happily seducing the ancient dowagers who constitute most of the Grand Budapest¡¯s clientele. (Describing his appreciation of life¡¯s finer, wrinklier pleasures, he notes
that he likes them ¡°rich, old, insecure, vain, superficial and blonde.¡±) When one of his regular lovers, the 84-year-old Madame Celine Villeneuve Desgoffe und Taxis, aka Madame D. (Tilda Swinton, buried under a mountain of old-age pancake), dies mysteriously at her nearby estate, Gustave rushes to her bedside with Zero in tow. They promptly stumble upon a den of vipers and thieves, all of them incensed to learn that the deceased has left Gustave a priceless painting.
Showing a fluid, quicksilver command of genre, Anderson spins this preposterous scenario in any number of directions: We get a country-house whodunit, complete with suspicious butler (Mathieu Amalric) and a steadily rising body count that will soon include Madame D.¡¯s guileless executor (Jeff Goldblum); a brass-knuckles mob thriller fronted by the dead woman¡¯s devious son (Adrien Brody) and his leather-clad henchman (Willem Dafoe, scary); and a prison-break caper in which Gustave must find a
way to clear his name after being framed for murder. In this he is aided by the ever-loyal Zero and his equally devoted fiancee, Agatha (Saoirse Ronan), one of a few apt references here to the Golden Age of detective fiction. (The characters¡¯ occasional train journeys, recalling the transcontinental intrigue of ¡°Murder on the Orient Express¡± and ¡°The Lady Vanishes,¡± are another.)
There are other influences, some more obvious than others: Despite its titular allusion to 1932¡äs Oscar-winning ¡°Grand Hotel,¡± the comedy reveals a deeper affinity for Ernst Lubitsch (including, but not limited to, his Nazi-skewering ¡°To Be or Not to Be¡± and his Budapest-set ¡°Shop Around the Corner¡±). But Anderson¡¯s chief inspiration was the work of the Viennese novelist and playwright Stefan Zweig, a contemporary of Arthur Schnitzler and Freud who enjoyed great international renown in the 1920s and ¡¯30s (his books include ¡°Letter From an Unknown Woman,¡± memorably filmed
by Max Ophuls in 1948), but who has since fallen into obscurity in the U.S. In conjuring not just Zweig¡¯s fiction but also his storied life of travel and luxury, ¡°The Grand Budapest Hotel¡± feels like nothing less than an act of cultural excavation, a proudly analog tribute to the joys of old movies, forgotten literature, vintage decor and outmoded technology.
That extends to d.p. Robert Yeoman¡¯s lustrous 35mm lensing in three different aspect ratios, one for each of the story¡¯s timeframes. In a touch that will delight cinephiles in particular, the extended ¡¯30s flashback was shot entirely in the almost-Academy 1.33:1 format, an era-appropriate decision that has a marvelously capacious effect on Anderson¡¯s typically fussy compositions and camera moves. With their striking depth of focus and taller frame, the boxy images feel looser, less hermetic and more spontaneous than usual, which suits the narrative¡¯s heightened level of incident.
Indeed, if ¡°Saturday
Night Live¡¯s¡± recent parody trailer for ¡°The Midnight Coterie of Sinister Intruders¡± offered a hilarious suggestion of what a Wes Anderson slasher thriller might look like, then ¡°The Grand Budapest Hotel¡± is as close as the director is likely to come to making an out-and-out action movie ¡ª albeit one where secret assignations occur between two cable cars passing in midair, and a neatly diagrammed chase sequence finds Gustave and Zero sledding downhill in cold pursuit of a villain on skis. While these setpieces may elicit as many groans as gasps, there are nonetheless a few real frissons of suspense, giving full expression to the latent violence that has occasionally punctured the filmmaker¡¯s pristine surfaces; it¡¯s not every Anderson twee-fest that features a strangulation, a beheading and a few severed digits. The startling impact of these moments underscores the essential seriousness of the director¡¯s approach, and those who mistake the
picture for an over-decorated confection might be surprised by its unusually sharp, acrid flavor.
It¡¯s no coincidence that Zweig was an Austrian Jew who watched his country fall to Hitler from afar: From an early scene in which Gustave and Zero are harassed by the Zubrowkan equivalent of the SS (commanded by Edward Norton), the film never loses sight of the sobering reality that the life of Old World leisure it depicts will soon pass away as history marches inexorably forward. Nor does it fail to empathize with those innocent outsiders who, like Zero Moustafa, were singled out for persecution (that the character¡¯s name brings to mind one of Hollywood¡¯s most famously blacklisted actors is hardly accidental). How seriously we¡¯re supposed to take any of this will of course vary among the film¡¯s admirers and detractors, but on balance, Anderson has stretched himself admirably here, pushing his talents in a direction
that, while open to the usual charges of coyness and self-indulgence, can hardly be dismissed as complacent.
Nowhere is that more apparent than in Fiennes¡¯ performance, easily the most vital and energetic piece of Anderson-directed acting since Gene Hackman lit up ¡°The Royal Tenenbaums.¡± Madly articulate and full of spirit, a disciplinarian and a dandy for whom hedonism and principle go hand-in-hand, the rascally concierge is a singular creation, and Fiennes¡¯ turn is a marvel of high-flown diction, physical gusto and quiet gravitas. On paper, the actor couldn¡¯t seem more oddly paired than with Revolori, an Anaheim, Calif.-born newcomer of Guatemalan descent, but the two achieve a charming rapport, Gustave¡¯s unfailingly eloquent outbursts playing beautifully off Zero¡¯s sweet, soft-spoken demeanor.
Fittingly enough for a film set in a nonexistent country, the actors, some of them sporting all manner of eccentric facial hair, have been directed to speak English in their native accents,
yielding a sort of deliberate Europudding effect. (The British-German co-production was filmed entirely inside an empty, cavernous department store in Goerlitz, a German town located near the country¡¯s borders with Poland and the Czech Republic). The mammoth ensemble includes such familiar Anderson repertory players as Bill Murray, Owen Wilson, Bob Balaban, Jason Schwartzman, Waris Ahluwalia and Wally Wolodarsky, most but not all of them squeezed into a single, cleverly timed sequence involving the hotel concierges of the world.
Among the director¡¯s other regular collaborators, costume designer Milena Canonero and hair-makeup-prosthetics designer Frances Hannon make especially eye-popping contributions. In the first Anderson movie to feature no pop songs, Alexandre Desplat has concocted an unusually inventive score that combines a wide range of Central and Eastern European instruments (balalaikas, cimbaloms, Alpine horns), reaching a delirious crescendo toward the end of the closing credits.
Bibliografia:
Nota: Si ringraziano 20th Century Fox e Orazio Bernardi (QuattroZeroQuattro)