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    ALICE IN WONDERLAND. UN MONDO, ANZI, UN ‘SOTTOMONDO’, DEL TUTTO SPECIALE, SENZA TEMPO, FANTASMAGORICO EPPUR REALE, ANZI, ‘REAL 3D’

    Oltre i confini dell’immaginazione, la prismatica visionarietà dei sogni filtrata da TIM BURTON diventa l'unica, sovrana realtà, irrimediabilmente e irrinunciabilmente goticheggiante ma... non solo.


    27/02/2010 - Il tratto gotico era scritto nei suoi geni e nel suo destino futuro di ineguagliabile artista. Quale bambino avrebbe mai potuto pensare di recarsi al cimitero per giocare, affascinato dall’atmosfera di un luogo dal quale normalmente la tendenza dominante è quella di tenersi alla larga? Beh, nessun bambino, ma TIM BURTON si, e oggi possiamo dire, per nostra fortuna. L’incontro tra queste sinistre frequentazioni infantili e il geniale embrione creativo già pronto a decollare non appena sviluppatosi a sufficienza, ha prodotto capitoli di un’arte cinematografica indimenticabili e saturi di irresistibile fascino. Ma, com’è ovvio, non è tutto merito del cimitero. L’ispirazione nasce, cresce, matura e si amalgama con la sua linfa di artista in erba anche grazie alla celluloide, visitata spesso e volentieri dal giovane Burton sulle corsie preferenziali horror dei vecchi B-movie, prodotti dalla Hammer Film in particolare, dei monster-movie alla Godzilla, dell’animazione in stop motion di Ray Harryhausen (Gli argonauti 2 1963) ma anche - udite, udite! - del made in Italy orgogliosamente doc come i film di Federico Fellini (e perché no, anche di Mario Bava). Certo è che Fellini e i racconti di Edgar Allan Poe (in particolare quelli nella lunga lista di adattamenti in gran parte interpretati dall’attore inglese Vincent Price) come fonti di ispirazione la dicono lunga sul ‘touch’ delle creazioni artistiche burtoniane odierne.

    Il classico è sempre il motore di ispirazione ma, consapevoli della responsabilità di cui ci si carica nel momento in cui ci si accinge ad una rivisitazione che immancabilmente si vestirà di inedite connotazioni, la preoccupazione principale di un nuovo autore normalmente è quella di non tradirne lo spirito di fondo, vale a dire l’anima del soggetto. Così, oggi TIM BURTON è tornato a sfogliare le pagine dell’intramontabile classico, il libro Alice nel Paese delle meraviglie scritto da Lewis Carroll (alias Reverendo Charles Lutwidge Dodgson) nel 1885, per scoprire e far riscoprire un’espressività amplificata di segno e non soltanto per gli effetti speciali, quanto per un’importante variazione sul tema, incentrata sul motivo del ritorno con occhi diversi: a cominciare dalla stessa Alice qui ormai diciannovenne (Mia Wasikowska) e addirittura in procinto di sposarsi che torna sullo stesso posto visitato da bambina. Un ritorno che ha tutto il sapore di un S. O. S. da parte del ‘sottomondo’ e che, ormai dominato dall’unica tirannica autorità della Regina Rossa, tanto Paese delle meraviglie non è, anzi, si direbbe piuttosto l’esatto contrario. E se i protagonisti di questa popolazione potranno apparire un pò assurdi, ancorché divertenti, non possono evitarsi di tradire anche qualcosa di molto terreno, e dunque familiare, in cui è possibile in qualche modo specchiarsi. Vi potrà sembrare strano ma in ognuno di noi c’è qualcosa di loro: dagli scatti d’ira della Regina Rossa, alla tragedia del Cappellaio Matto, fino alla capacità di meravigliarsi anche da grande di Alice (e questo suona più come un invito a recuperare un atteggiamento di fatto andato pressoché perduto nella stagione adulta della dimensione umana). Così, come tutti i viaggi ‘letterari’ trasposti o meno sulla celluloide, dall’epica, alla mitologia, alla favolistica, anche quello di Alice - personaggio che nella rivisitazione di Tim Burton scarta da un passivo saltare da un’avventura all’altra - diventa metafora di un viatico di interiorizzazione per la riscoperta di se stessi, ritrovando il legame originario al fine di rispondere al meglio alle scelte personali che la vita ci chiede.

    Ma seguiamo la nuova Alice e addentriamoci in questo fantasmagorico microcosmo burtoniano: imperano atmosfere ‘grigiagne’ (‘grigio-grifagne’) fortemente chiaroscurate e virate su ogni gradazione possibile di fumo di Londra esistente, se non in natura, negli orizzonti immaginifici goticheggianti di TIM BURTON che, amante dichiarato di scheletri con annessi e connessi (La sposa cadavere e Nightmare Before Christmas docent), non rinuncia ad accarezzarne il ricordo ammiccando ad atmosfere ad esse familiari, con cimiteriali cancelli o rami essiccati ritorti, tetri ricami di una natura appassita o foscamente notturna - quasi al punto da far credere la primavera una stagione dismessa - da cui può spuntare ora uno Stregatto dallo sguardo sinistramente fluorescente, talaltra uno sfregiato e imponente Fante di cuori, ammantato nel freddo metallo di un’armatura cavalleresca. Ma in questa sua ALICE IN WONDERLAND TIM BURTON gioca sui contrasti e spiazza con fotogrammi screziati di inaspettate luminescenze a cominciare dal candore ‘rifrangente’ della Regina Bianca (Anne Hathaway). Ma il fantasmagorico e il variopinto carosello in cui non è bandito neppure il bianco solare accecante non poteva dominare la fondamentale ‘oppressione’ che si respira nel ‘sottomondo’. Ci basti pensare che la chiave dell’aspetto opprimente di ‘Sottomondo’ è stata una fotografia scattata durante la Seconda Guerra Mondiale che vedeva protagonista una famiglia britannica intenta a prendere il te nel giardino della propria residenza, dove sullo sfondo troneggiava il cielo di Londra decisamente e ovviamente grigio. Quando dicevamo fumo di Londra non era dunque un richiamo gratuito ma del tutto pertinente e sicuramente ideale a ricreare un’atmosfera triste e appunto, opprimente: il fotogramma che inquadra protagonista in primo piano il leprotto marzolino, derelitto e stropicciato di fronte ad una teiera con annessi e connessi, non nasconde uno sfondo profondamente polveroso e decadente abbastanza da far attecchire appariscenti ragnatele. Ma del resto, lo spirito malinconico affiliato ad un indiscutibile ‘british touch’ era esattamente quel che Tim Burton andava cercando, perciò si è portato ben oltre le teiere, i cieli grigi e i picchi ‘down’ nella giostra di umori che ad esempio contraddistinguono il Cappellaio Matto (Johnny Depp protagonista elettivo della ‘famiglia lavorativa’ di Tim Burton). Burton è andato alla ricerca dell’anima di quella cornice e l’ha trovata nelle voci degne di un vero spirito britannico: Alan Rickman per il Brucaliffo, Michael Sheen per il Bianconiglio, Stephen Fry per lo Stregato, Timothy Spall per Bayard il Mastino Sanguinario, Barbara Windsor per il topolino, Christopher Lee per Jabberwocky, Michael Gough per Dodo e Paul White House per il Leprotto marzolino o bisestile che dir si voglia. Naturalmente parliamo del ‘Tim Burton Touch’ originale (non me ne voglia per questo l’eccellenza del doppiaggio italiano).

    Così, se l’effetto d’insieme di Alice in Wonderland non suona falso, o totalmente immaginifico, bensì in qualche modo anche realmente tangibile e profondo, non si deve solo al misto di tecniche e di effetti visivi impiegati in questo caso - dal green screen ai personaggi in CGI e 3D - grazie anche al concorso operativo da supervisore di una leggenda nel settore del valore di cinque Oscar come Ken Ralston (uno dei membri fondatori della ‘Industrial Light & Magic’ di George Lucas, effetti visivi del I° Guerre stellari - forse non è un caso che il saggio Brucaliffo/Absolem rievochi in qualche modo le sembianze del mitico Yoda - Chi ha incastrato Roger Rabbit?, Ritorno al futuro, Forrest Gump, Polar Express, La leggenda di Beowlf). Il 3D si direbbe persino un’ultima istanza piuttosto che il cuore del problema. Nightmare Before Christmas dello stesso Tim Burton ha fatto strada. Prima il film in 2D poi la confezione in 3D: questo è stato ed è il processo operativo burtoniano. Per questo abbiamo l’impressione che la trasognata visionarietà da sogno sia reale, perché con questo procedimento Tim Burton scarta volutamente dalla sorpresa ad effetto che normalmente con il 3D prorompe davanti allo spettatore, e preferisce affidarsi ad un impatto diciamo più ‘discrezionale’, a tutto vantaggio di un risultato d’insieme meno artificioso, più semplice e dunque più naturale. E questo anche se lo Stregatto non mancherà di fluttuare sopra la folla di spettatori chiamati all’appello per l’evento. Contateci!

    (A cura di PATRIZIA FERRETTI)

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