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    EFFETTO 'AVATAR'

    L'immaginario iconografico di JAMES CAMERON ha un retrogusto antico.


    11/01/2010 - L’effetto ‘Avatar’ è al culmine della sua inesorabile inondazione - mai così tanto attesa dagli assetati di fantasy ‘sci-fi’ dai tempi di bibliche siccità - e si prosegue l’inno intonato, non senza qualche meritata stecca, a rimarcare l’imperfezione dell’opera, a James Cameron quale rivoluzionario cineasta, l’unico in grado di varcare frontiere impensabili per la cinematografia del più vicino ieri. Oggi, difatti, il suo AVATAR segna senz’altro l’avvio di un altro giorno, ma solo per quel che attiene alla risoluzione tecnica. Il cinema, si sa, è fatto di molti ingredienti e la fragranza di un’ottima ricetta dipende dal loro grado di lievitazione ed emulsionatura mirata ad un unico, armonico impasto che sappia fondere tra loro i vari gusti senza che alcuno possa sortirne in alcun modo mortificato.

    L’eco della grancassa critica di tutto il mondo è da tempo giunto fin qui, giacchè l’Italia è stata eletta fanalino di coda per l’uscita dell’evento AVATAR: ed è tutto un rincorrersi di lodi obbligate sul piano tecnico e di contro canti sul piano della storia, elementare fino al banale e messaggera di verità storiche - o di riletture mitologico-fantastiche non certo inedite - ormai risapute, dette tra le righe di una metafora neppure troppo sofisticata, in quanto affidate più volentieri al comune abbecedario della favola fantasy. Favola rivisitata e abbeverata alla sorgente dell’innovazione tecnologica, spettacolare e persino vestita di una rara bellezza poetica, quanto spesso, ahimé, stridente, sulla carenza di collante con la sfera del reale che pure fa parte della storia. Un puzzle esasperatamente vasto e talora scollegato dall’alto di una superba autoreferenzialità: qui James Cameron ha veramente messo tutto se stesso, anche sul piano delle numerose citazioni dei suoi trascorsi cinematografici di maggior successo con Aliens: scontro finale e Terminator 2: il giorno del giudizio in testa.

    Eppure, dal fitto delle sue avveniristiche cortine, James Cameron sembra aver voluto mantenere sotteso il tipo di umore atavico, antico, che si respira dalla leggenda o dal mito. Il tipo di umore che aleggia intorno all’avatar del protagonista Jake Sully (Sam Worthington) - quello che funziona meglio rispetto all’avatar di Sigourney Weaver, lei è di gran lunga preferibile in carne ed ossa - sembra difatti un respiro atavico, primitivo: a cominciare dalla sua stessa fisionomia, prima ancora che degli altri Na’vi. Fisionomie che se trovano un 'trait d’union' ideale con il prototipo di umano preistorico, incontrano familiarità anche maggiore con certe figurazioni artistiche, in pittura così come in scultura, di epoca altomedievale, paradossalmente quando l’espressività ambientale e umana veniva rigorosamente riprodotta su binari bidimensionali, secondo la moda iconografica dell’epoca. E, trattandosi per lo più di produzione artistica sacra, pitture su tavola o sculture a bassorilievio, la premura si appuntava allora con priorità assoluta sul risvolto didattico e sulla riuscita dell’impronta ieratica più che realistica della propria creazione artistica. Non a caso i manuali di storia dell’arte con gran parte della letteratura critica specializzata internazionale, indicizzano gli artisti dell’epoca come ‘Primitivi’. Era l’epoca, compresa tra XII e prima metà del XIII secolo, in cui i ‘rivoluzionari’ Giotto, Nicola e Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio e Tino di Camaino - che per primi hanno piantato i semi di una realtà a tutto tondo germinati con gli albori del Rinascimento - erano ancora di là da venire e l’Oriente bizantino faceva ancora scuola all’Occidente.

    E’ dunque curioso che questo retrogusto antico si riscopra proprio in un film come AVATAR, giocato su tale spettacolare profondità di sguardo. E a guardar bene ciò che tradiscono i profili di Avatar e Na’vi (un mix indigeno tra i feroci felini della foresta, i nativi australiani e i pellerossa) è ribadito in qualche modo dall’ambientazione circostante, soprattutto per quanto riguarda la fantasiosa flora, in gran parte carpita ai fondali marini (e dall’Abyss di Cameron stesso?) e spesso coniugata sul registro della ‘fluorescenza’: là dove spuntano anche tipi di infiorescenze e vegetazione che rimandano, in un modo o nell’altro, all’iconografia religiosa antica (tra l’altro compare più volte anche una sorta di arbusto marrone quasi interscambiabile con il canonico pastorale, il bastone ricurvo all’estremità superiore fino a formare una voluta, simbolo dell’autorità vescovile e usato nelle cerimonie solenni). Anche se, al di là dell’iconografia, il tipo di spiritualità che profonde da AVATAR sul piano del messaggio contenutistico è, senza alcun dubbio, di marca ‘panteista’, non cristiana: la natura ‘divinizzata’ di Cameron, del resto, sembra coerente con un plausibile credo da parte di ‘primitivi’ Na’vi, ‘primitivi’ nel senso buono del termine, e con il loro stile di vita: il loro albero delle anime con quei filamenti illuminati che interagiscono con l’uomo e la malattia, la ferita, pare tra l’altro memore del genere di spiritualità professato da Darren Aronosfky con il suo The Fontain (L’albero della vita). Sinergia con la natura vegetale e pure animale, proliferante di creazioni mitologico-preistoriche incrociate con dinosauri, draghi, cavallucci marini, aquile e chi più ne ha più ne metta, là dove l’intesa e il controllo sul fantasmagorico tipo di volatile in AVATAR, con cui l’uomo stabilisce un legame elettivo - tra gli altri Eragon docet - sembra affondare le radici nell’ormai remoto quanto intramontabile Il pianeta proibito.

    In molti se la prendono per questo filo-panteismo ma proprio non se ne vede la ragione. Del resto, se ogni parte del creato è opera divina, la natura è senz’altro una parte elettiva del creato di Dio, di qualunque Dio si parli: persino il primo uomo è nato lì, in mezzo alla natura, frutto della natura stessa - Antico Testamento docet - e allora, dove sta il problema? E torna dunque anche sul piano del messaggio il retrogusto antico che Cameron sposa perfettamente con le sue fantasiose creazioni giocando al suo meglio a fare il Dio della tecnologia d’avanguardia. Il problema nasce quando l’invidiabile sposalizio tra antico e super tecnologico al servizio di quest’aura selvaggiamente poetico-spirituale si incontra e scontra ripetutamente con la freddezza e la noia che emana la sfera del reale. Entrare nel dettaglio porterebbe molto lontano. Ma questa non voleva essere una recensione, solo un appunto sul fatto che l’indiscussa unicità del 3D di AVATAR tradisce anche un diffuso umore antico come ingrediente tutt’altro che secondario. Ed è certo che un collante più solido tra le varie parti di questo debordante contenitore lo avrebbe reso indubbiamente più stabile e meno fragile.

    (A cura di PATRIZIA FERRETTI)

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