Cast: Colin Farrell (Peter Lake) Jessica Brown Findlay (Beverly Penn) Jennifer Connelly (Virginia Gamely) William Hurt (Isaac Penn) Eva Marie Saint (Willa da adulta) Russell Crowe (Pearly Soames) Mckayla Twiggs (Willa da bambina) Ripley Sobo (Abby) Will Smith (Giudice) Matt Bomer (Il padre di Peter) Kevin Durand (Cesar Tan) Lucy Griffiths (Mrs. Lake) Kevin Corrigan (Romeo Tan) Graham Greene (Humpstone John) Brenda Wehle (Governante)
Musica: Hans Zimmer
Costumi: Michael Kaplan
Scenografia: Naomi Shohan
Fotografia: Caleb Deschanel
Effetti Speciali: Jeff Brink (supervisore)
Makeup: Francesca Buccellato e Craig Lindberg
Casting: Lora Kennedy e Cindy Tolan
Scheda film aggiornata al:
04 Gennaio 2015
Sinossi:
IN BREVE:
New York tra il diciannovesimo secolo e i giorni nostri. Un ladro entra nell'appartamento dove si trova una donna che sta morendo: questa la trama principale di una storia che comprende mafiosi, demoni ed altri elementi soprannaturali.
IN DETTAGLIO:
Storia d'inverno è l’attesissima trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Mark Helprin e racconta una romantica storia d’amore in cui i destini dei protagonisti s’incrociano, tra passato e presente, sullo sfondo della New York del 1916 e di quella dei giorni nostri. Tutto ha inizio quanto Peter Lake, ladro di professione, durante un tentativo di rapina in una villa, si imbatte nella bellissima Beverly Penn, figlia del ricco proprietario dell’abitazione. Per entrambi è un colpo di fulmine, ma Beverly è afflitta da una malattia incurabile e come se ciò non bastasse, a contrastare il loro amore ci si mette anche un pericoloso gangster che ha un conto in sospeso con Peter ed è deciso a liberarsi di lui una volta per tutte.
IN ALTRE PAROLE:
Ambientato in una meravigliosa New York, nell’arco di oltre un secolo, “Storia d’inverno†è un racconto che parla di miracoli, destini incrociati e dell’antica battaglia tra il bene e il male.
Peter Lake (Farrell) è un abilissimo ladro che non avrebbe mai immaginato di incontrare una donna come la bella Beverly Penn (Brown Findlay) e di innamorarsi perdutamente di lei. Ma il loro amore è un amore sfortunato: lei soffre di una forma mortale di tubercolosi e Peter è minacciato di morte molto più violenta da colui che un tempo era il suo mentore, il demoniaco Pearly Soames (Crowe). Mentre Peter cerca disperatamente di salvare il suo unico vero amore, combattendo contro il tempo e contro le forze del male, Pearly fa tutto ciò che è in suo potere per ucciderlo. Peter ha bisogno di un miracolo, ma solo il tempo dirà se ne accadrà uno…
SYNOPSIS:
A fantasy story set in 19th Century and present-day Manhattan and revolves around a thief, a dying girl, and a flying white horse.
New York City is subsumed in arctic winds, dark nights, and white lights, its life unfolds, for it is an extraordinary hive of the imagination, the greatest house ever built, and nothing exists that can check its vitality. One night in winter, Peter Lake (Colin Farrell), orphan and master-mechanic, attempts to rob a fortress-like mansion on the Upper West Side. Though he thinks the house is empty, the daughter of the house is home. Thus begins the love between Peter, a middle-aged Irish burglar, and Beverly Penn (Jessica Brown Findlay), a young girl, who is dying.
Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)
QUESTA VOLTA E' UNA FAVOLA - CHE DALLE PAGINE DI MARK HELPRIN RAGGIUNGE LA CELLULOIDE CON L'ESORDIO ALLA REGIA DELLO SCENEGGIATORE AKIVA GOLDSMITH ('A BEAUTIFUL MIND', 'CINDERELLA MAN') - A PORTARCI SULLE SPONDE DEL SOGNO E DEL FANTASTICO PER RINNOVARE I GRANDI INTERROGATIVI ESISTENZIALI DI SEMPRE, TRA SPIRITUALITA' E MAGIA. ED ECCO I NUOVI 'ANGELI E DEMONI': IL REDENTO COLIN FARRELL ARSO DA UN GRANDE AMORE PERDUTO PRECOCEMENTE, IL DEMONE RUSSELL CROWE E IL LUCIFERINO WILL SMITH, ATTRAVERSERANNO UNA SECOLARE PARABOLA TEMPORALE PER LASCIARCI SCOPRIRE, RIMIRANDO LE STELLE, UNA LUCE NUOVA E PUR FAMILIARE
Sono state usate le dialettiche più disparate, gli stili più diversi. Ma non si rinuncia a parlarne, anzi, direi che se ne parla sempre più spesso. Soprattutto quando si vivono sulla propria pelle, direttamente o indirettamente, e comunque alla distanza ravvicinata degli affetti più cari, lutti improvvisi o annunciati che siano. Si parla, come rapiti da un
impulso incontrollabile, del significato della perdita, del desiderio di conoscere il destino post-mortem delle persone che ci lasciano, per malattia, per accidente o che altro. Della mortalità e dell'immortalità , della percezione o della vaga sensazione che ci sia un filo conduttore, un legame invisibile fra le varie parti, fra i vari esseri che popolano l'universo. C'è chi immagina un approdo del tipo binario parallelo in terra, magari tradotto in una spiaggia immensa, una marina sconfinata come il mistico visionario Terrence Malick in The Tree of Life, da intendersi anche come proiezione mentale di uno stato d'animo di varie forze individuali poste su un'unica, stessa, lunghezza d'onda collettiva. E c'è chi invece preferisce prefigurarsi un'area non ben definita in sospensione, là dove la materia è solo un lontano ricordo, sostituito da ombre di pura luce fluttuanti, come Clint Eastwood in Hereafter. E c'è chi, come Darren Aronofsky nel suo The Fontain-L'albero
della vita, intesse in modo tanto originale da rischiare di essere frainteso e rifiutato, i destini di due persone, attraversando vita reale e storia di un romanzo d'epoca, toccando tre (il numero è tutt'altro che casuale) spaccati temporali molto distanti tra loro, al fine di scoprirne il sottile legame interconnettivo.
Helprin) nasconde i grandi interrogativi esistenziali di sempre, conditi di ansia e di speranza, se non proprio di Fede, per la comprensione del nostro destino in e fuori dal mondo. Se guardassimo Winter's Tale solo nella sua veste apparente, potremmo sentire il bisogno di disintossicarci da un'improvvisa impennata di zuccheri, pur provando l'amara sensazione di esser rimasti con la fame. Un grande cono di zucchero filato montato sull'aria fresca. E' d'obbligo, in Storia d'inverno, farsi largo tra le righe di una sceneggiatura fin troppo elementare e tra la fitta selva di immagini oltremodo definite, per raggiungere il cuore di un messaggio che, mischiando fede religiosa e magia, prende corpo e anima sulle umbratili ali di luce di un cavallo bianco-spirito guida di Colin Farrell (neo Mosè salvato dalle acque) per seguirne il percorso attraverso il tempo, inseguito e perseguitato da un implacabile demone che ha le inedite sembianze di
Russell Crowe - stranamente carico di tic ammiccanti alla precedente performance del matematico John Forbes Nash jr. nello stesso A Beautiful Mind - e del suo malefico superiore Will Smith, per una alquanto interessante rivisitazione di Lucifero e dei suoi metodi di maligna persuasione.
A far riflettere sui grandi temi di sempre, sul ruolo di ognuno di noi su questa terra, sul modo di affrontare ognuno il proprio destino - quale destino? - sulle inspiegabili e inaccettabili morti precoci, sul genere di amore che attraversa il tempo nei secoli, su cosa sopravvive di noi, del nostro vissuto, sull'influenza di scelte personali sul nostro e sull'altrui cammino esistenziale anche ultra terreno, ci invita ora, in un sottobosco di simboli non troppo intricato, nel pieno di una foresta dove la metafora regna sovrana, Akiva Goldsmith, questa volta servendosi del registro fabulistico-fantastico, la chiave di lettura con cui, 'rimirando le stelle', potremmo ritrovarci
a scorgerne per la prima volta luccichii inediti e familiari ad un tempo. Un registro, a quanto pare, ad effetto calamita anche per le star più accreditate, sia che il ruolo conceda loro ampio respiro, come Russell Crowe, Colin Farrell e Will Smith, sia che si tratti di una sorta di cameo allargato come è il caso di Jennifer Connelly e di William Hurt.
Secondo commento critico (a cura di JUSTIN CHANG, www.variety.com)
Akiva Goldsman's feature-directing debut is a cloying, sledgehammer-subtle adaptation of Mark Helprin's vastly richer novel.
Angels and demons. A man who doesn’t age. A snow-white pegasus. Colin Farrell’s hair. In every respect, “Winter’s Tale†is a movie rife with mysterious and unexplainable phenomena — elusive supernatural occurrences that its characters insist on describing as miracles. But the real miracle will be if audiences manage to suppress their giggles during this enormously cloying, sledgehammer-subtle feature directing debut by longtime writer-producer Akiva Goldsman, whittled down from Mark Helprin’s vastly richer, century-spanning novel of the same title. Agreeably daft at times, but more often painfully trite in its attempts to impose some grand narrative design on the story of two grievously ill young women and the man who may hold the key to their salvation, Warner Bros.’ Valentine’s Day release could nonetheless seduce viewers willing to go along with its offbeat romantic-fantasy elements,
provided they don’t wander in expecting Shakespeare.
“Magic is everywhere around us,†a female voiceover whispers over the opening scenes. “You just have to look.†As if to prove its point, the film proceeds from a brazenly illogical premise, opening in present-day New York with a man moving through the upper rafters of Grand Central Terminal. He may be played by Colin Farrell, but he’s a lot older than he looks, as becomes clear (sort of) during an extended flashback to 1895, when he was just an infant arriving at Ellis Island with his immigrant parents. Mom and Dad are deported due to illness, but not before they succeed in setting the child adrift near shore, like Moses among the reeds, abandoning him to a lonely Lower Manhattan upbringing.
“We are all connected,†the voiceover continues helpfully. “Each baby born carries a miracle inside.†This baby more than most, for he will
grow up to be the strapping, handsome Peter Lake (Farrell), a wily thief and professional charmer who, when we catch up with him in 1916, has run afoul of crime boss Pearly Soames (Russell Crowe). Pearly, it turns out, is no ordinary crook but rather an ill-tempered demon quite literally hellbent on destroying Peter before he can fulfill his miraculous destiny. That destiny is somehow entangled with the fate of Beverly Penn (Jessica Brown Findlay), a lovely, consumption-ridden pianist who is charmed rather than creeped out beyond belief when she catches Peter burglarizing her father’s Central Park estate.
“The sicker I become, the more I can see that everything is connected by light,†Beverly coughs — spelling out, for the benefit of anyone not paying attention, that “Winter’s Tale†means to concern itself with the deepest mysteries of human existence. In a world where morality is governed by some strict combination
of karmic laws and screenwriting manuals, a star appearing in the heavens means an angel has received his wings (Clarence, is that you?), and a magnificent flying horse named Athansor periodically swoops down out of the heavens to snatch Peter away from Pearly’s infernal clutches. According to this great cosmic blueprint, nothing happens by coincidence, and love is a force that can defeat death itself — as becomes apparent when Peter, having given himself body and soul to the dying Beverly, is suddenly whisked forward in time to the year 2014, where his divine purpose will be revealed.
Goldsman, who dealt with twinkly visions of an ostensibly more concrete nature in his Oscar-winning screenplay for “A Beautiful Mind,†doesn’t exactly shy away from the overweening grandiosity of his material. That extravagance was built right into Helprin’s massive (and massively successful) 1983 novel, a dazzlingly ambitious epic set in a fairy-tale New
York replete with magical-realist inventions, pre-millennial portents and richly Dickensian characters — most of which, unfortunately, have been left by the wayside during the saga’s reductive journey to the bigscreen.
In “distilling from it what resonated with me the most,†per press notes, Goldsman appears to have plucked key moments and images from the book and twisted them into a familiar iconography of spiritual/sentimental kitsch — hey look, a little girl with cancer — with no regard for the delicacy with which Helprin eased the reader into his fanciful universe. The best miracles are those that creep up on you unexpectedly rather than endlessly announcing themselves, and the ones in “Winter’s Tale†are fatally obvious and self-congratulatory; it’s the sort of film that insists on taking you by the hand and steering you through a dark labyrinth for two hours, instructing you to watch your step every five minutes, only to
switch on the lights and reveal you’ve been in a circular room with an exit in plain sight.
As an adapter, Goldsman is out of his depth. As a director, he is at least fortunate in his choice of actors, including Farrell, watchable enough to prevail past what appears to be a bird’s nest atop a buzz cut; Findlay, as luminous and intelligent a presence as she was in “Downton Abbeyâ€; Jennifer Connelly as the somber mother of the aforementioned little girl with cancer (Ripley Sobo); and the always welcome Eva Marie Saint, making her first screen appearance in the eight years since “Superman Returns.†Appealing as these performers are, they all seem to be emoting in a sort of fog, as though too busy trying to parse the story’s metaphysics to connect with each other onscreen.
Certainly none of them seems to be working as strenuously as Crowe, who previously collaborated
with Goldsman on “A Beautiful Mind†and “Cinderella Manâ€; adopting a facial scar and a rough Irish brogue, he hulks and growls his way through the picture like Mad Dog Coll with a bad head cold. It’s one of the more joyless performances of the actor’s career, and Pearly’s sudden blasts of CG-augmented rage seem to belong to another film entirely. Ditto the “Screwtape Lettersâ€-style dialogues he carries on with his master Lucifer himself, played in an unbilled cameo by a grizzled Will Smith (he’s the Fresh Prince of Hell Air).
Production designer Naomi Shohan achieves a vivid enough approximation of turn-of-the-century New York in the film’s first half, making resourceful use of historic sites in each of the five boroughs — from Brooklyn’s cobblestone-paved streets and Queens’ Calvary Cemetery, to the docks of South Street Seaport and Surrogate’s Courthouse in Lower Manhattan. This is hardly the grand, teeming vision of
the city set forth in Helprin’s novel. But as shot in moody, muted tones by Caleb Deschanel, it does make a suitably romantic, snow-dappled backdrop for a picture that attempts to merge the swooning passion of “Somewhere in Time†with the cozy uplift of “Touched by an Angel†— a subgenre in which the natural and the supernatural are invisibly and, for the most part, benevolently intertwined.
“What if we are all part of a great pattern that we may one day understand?†that voiceover pipes up again near film’s end. It’s a nice enough thought, and it may well leave the charitable viewer with a peculiar form of consolation: Rest assured, your efforts will bear fruit. Suffering today means rejoicing tomorrow. The next movie will be a better one.