Sceneggiatura:
Pedro Almodovar con la collaborazione di Augustìn Almodovar
Soggetto: Ispirato al romanzo Tarantola di Thierry Jonquet (Éditions Gallimard).
PRELIMINARIA:
Ci sono processi irreversibili, strade senza ritorno, viaggi di sola andata. La pelle che abito racconta una di queste storie. La protagonista percorre una di queste strade contro la sua volontà , obbligata con la violenza ad iniziare un viaggio da cui non potrà tornare. Una storia kafkiana la sua, risultato di una condanna pronunciata da una giuria composta da un’unica persona, il suo peggior nemico. Il verdetto, quindi, è una forma di vendetta estrema.
La pelle che abito racconta la storia di questa vendetta.
Da quando sua moglie è morta, bruciata in un incidente d’auto, Robert Ledgard (Antonio Banderas), eminente chirurgo plastico, si è concentrato sulle ricerche per ottenere una nuova pelle, quella che avrebbe potuto salvarla. Dopo dodici anni è riuscito a riprodurre nel suo laboratorio una pelle sensibile alle carezze ma resistente alle aggressioni, sia esterne sia interne, di cui è vittima il nostro organo più esteso. Per ottenerla ha sfruttato tutte le possibilità fornite dalla terapia cellulare. Oltre ad anni di studio e sperimentazione, Ledgard ha avuto bisogno di una cavia umana, un complice e nessuno scrupolo. Gli scrupoli non sono mai stati un problema, non fanno parte del suo carattere. Marilia, la donna che lo ha cresciuto fin dalla nascita, è la sua complice più fedele. E per quanto riguarda la cavia umana… Ogni anno scompaiono da casa decine di giovani di entrambi i sessi, in molti casi volontariamente. Uno di quei giovani si troverà a condividere la splendida residenza, El Cigarral, con Ledgard e Marilia, ma non di sua volontà .
Mentre toglie dal letto le lenzuola insanguinate e si macchia con il sangue che una volta era suo, il sangue del figlio Zeca, Marilia spiega a Vera che quando era giovane ha dato alla luce due figli di padri diversi, ma tutti e due folli. ("Ho la follia nelle viscere", confessa). Folli, mostruosi e feroci, alla fine della loro vita i due figli di Marilia avranno destini paralleli che li porteranno ad arenarsi e scontrarsi nell’oscuro vicolo cieco del nuovo organo sessuale di Vera. Una stessa fine per due vite così diverse come quelle del dr. Ledgard e di Zeca, il bandito con il costume da tigre. Anche se hanno avuto la stessa madre, Ledgard era il ragazzo ricco e Zeca quello povero. Zeca era ancora un bambino quando ha iniziato a vagabondare nel labirinto delle favelas, portando droga e armi. Invece Ledgard, in un angolo ombroso del giardino, faceva esperimenti sugli animali che gli capitavano a tiro: rospi, conigli, farfalle, larve, per passare poi rapidamente dagli animali agli esseri umani e diventare un eminente chirurgo plastico in Brasile, un paese all’avanguardia in questo campo. Marilia è sempre rimasta con Ledgard, Zeca apparteneva alla strada, lei lo aveva partorito, ma è stata la strada la sua famiglia. Dopo che Gal, la moglie di Ledgard, aveva avuto il corpo devastato dalle ustioni in un incidente di macchina (e si era gettata dalla finestra quando aveva visto riflesso in uno specchio il proprio corpo così ridotto), Marilia si era trasferita in Spagna con Ledgard e la figlia di lui, Norma. In Spagna Ledgard aveva continuato con successo la sua carriera, alternando la chirurgia con le ricerche su quella nuova pelle che avrebbe potuto salvare sua moglie...
SHORT SYNOPSIS:
Based on Thierry Jonquet's novel Mygale, this revenge tale tells the story of a plastic surgeon on the hunt for the men who raped his daughter.
Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)
IL 'TRU(WO)MAN SHOW' DI PEDRO ALMODOVAR VIRA SUL 'NOIR', CON IL NEO FRANKESTEIN-ANTONIO BANDERAS, MOSTRO DI SCIENZA INNAMORATO DELLA SUA OPERA. UNA LETTURA TRASVERSA, PASSANDO PER UN OCEANO DI CITAZIONI ARTISTICHE, MITI E VOYEURISTICI SGUARDI DI IDENTITA' TRASFIGURATE EPPURE INVIOLABILI, CON CUI PEDRO ALMODOVAR RACCONTA UN ALTRO EPISODIO DEL SUO LUNGO RACCONTO SU 'ABBRACCI' E 'LEGAMI SPEZZATI'
L'essere umano che visse due volte: una come uomo, l'altra come donna, ma non per scelta. Pedro Almodovar affronta secondo lo stile 'asettico' e frammentato di un'operazione chirurgica questioni legate all'identità passando per la bioetica. L'andamento scelto da Pedro Almodovar per La pelle che abito sembra quasi parafrasare il processo di 'cucire' i vari brandelli di pelle (e più tardi, in una sorta di 'quadro nel quadro', i vari brandelli di abiti femminili) che vanno a costituire la nuova identità del/della protagonista, incarnata alla perfezione dalla filiforme Elena Anaya (Parla con lei) -
per una volta Almodovar ha fatto a meno, in questo caso molto opportunamente, della sua attrice-feticcio e ben più formosa Penelope Cruz - sentendosi in dovere di inserire didascalie di orientamento, quasi nel timore che lo spettatore potesse perdere il bandolo del filo di Arianna - cosa che avrebbe fatto inorridire il messicano Alejandro Gonzales Inarritu, autoriale sull'incastro di frammenti narrativi detemporalizzati - dipanato tra amori e senni perduti, nuovi e conseguenti orrori, mostruose vendette, là dove il genio dell'artista sfuma i suoi contorni e si confonde con una programmata vena di criminale follìa. Inquietante crinale sul quale brilla di luce propria Antonio Banderas quale nuovo, contemporaneo Frankestein, dall'alto dell'algido e psicotico temperamento del suo personaggio, il dr. Robert Ledgard. E' difatti lui stesso ad osservare come ne La pelle che abito si possa riconoscere "Una riflessione sulla creazione, una metafora artistica, l'interessante linea sottile che separa un mostro psicopatico
da un artista. Il mio personaggio non si innamora della giovane ma dell'opera che ha creato. Cosa sarebbe successo se un Leonardo da Vinci fosse andato a letto con la Gioconda?". Bella domanda! Ma forse la Gioconda ha fatto solo da modella non da cavia umana come nel film. Qui difatti, il nuovo Frankestein - citato a piene mani anche con la lezione accademica d'inizio dove si appunta pure una scheggia di A. I. Intelligenza artificiale nel video che evidenzia la dissezione facciale - si avvale della sperimentazione scientifica per ottenere risultati sufficienti a salvare in vari modi la vita ma al contempo si lega inequivocabilmente anche all'estetica, al senso del bello, oltre che del funzionale e resistente oltre i normali parametri. E su questo registro Almodovar torna più volte a suo modo: ora irridendo all'estetica artificiale, ricostituita con la chirurgia plastica della paziente con cui il dr. Ledgard/Banderas parla
ad una festa, ora con il quadro della Venere di Tiziano alternato alle carezze che la macchina da presa prodiga generosamente sulle sinuosità del corpo di Vera (Anaya), attraverso i vari monitor istallati nella casa dove si trova prigioniera, potremmo dire in una sorta di Tru(wo)man Show. Ma Almodovar ricorre ancora all'arte e alla metafora per ritrarre il profilo di questo 'doppio', o per meglio dire 'sdoppiamento umano' che, d'altra parte, sembra inneggiare all'invulnerabilità identitaria: il disagio e la sofferenza interiore non impediscono a Vera di continuare a riconoscersi nel volto di quel ragazzo che un giornale quotidiano ritrae tra le persone scomparse così come il quotidiano 'diario-parete' della memoria ne rimarca l'unicità del respiro vitale e personale di 'sopravvissuto/a' ad una prigionia forzata, grazie anche alla pratica di yoga come unico rifugio possibile. Almodovar mette poi deliberatamente sotto gli occhi e nelle stesse mani di Vera la possibilitÃ
di poter a sua volta plasmare materia in grado di creare un'opera artistica, dopo averle/averci mostrato a più riprese le sculture bisessuate di Louise Bourgeois. Arte e mito: quello di Prometeo cui Almodovar ricorre con il ragazzo (prima della transgenesi) incatenato alle rocce dell'antro sotterraneo e quello di Galatea, cui indirettamente ha fatto riferimento Banderas e più precisamente Almodovar: 'Il dr. Frankenstein non poteva innamorarsi del mostro che aveva creato, il dr. Ledgard sì. E il mito di Galatea, dello scultore che si innamora della sua opera, prende il posto degli altri miti'.
Ed ecco che con La pelle che abito Almodovar di fatto finisce per lambire le questioni etiche legate all'uso/abuso e ai limiti e confini cui guardare e da cui guardarsi praticando la chirurgia plastica per avvantaggiare sulla realtà vissuta la suspense del noir hitchcockiano, a cominciare da La donna che visse due volte: del resto lo stesso Almodovar
si è prodigato a dovere nel rendere pubblica l'enorme teoria di nobili riferimenti in celluloide con cui dice di sentirsi in debito per questo film, incluso il cinema muto, per quanto senza poi necessariamente seguire il cinema di nessuno. E in effetti, in questa sua nuova parabola noir c'è 'l'abbraccio spezzato' dei 'Legami' impossibili dell'Almodovar doc.
Secondo commento critico (a cura di JUSTIN CHANG, www.variety.com)
Pedro Almodovar has spent a career finding the pleasure in perversity, a talent that works both for and against "The Skin I Live In." The creepily convoluted tale of a plastic surgeon and his beautiful captive patient, Thierry Jonquet's novel "Mygale" turns out to be a neatly accommodating vessel for the Spanish auteur's pet themes and stylistic proclivities, and after the underwhelming "Broken Embraces," this Antonio Banderas starrer demonstrates enough signs of renewed vigor to ensure robust specialized returns. But despite its scalpel-like precision, pic falls short of its titular promise, never quite getting under the skin as it should.
Due to be released Stateside in November by Sony Classics, the film will open Sept. 2 in Spain, marking the first time Cannes vet Almodovar has premiered a film at the festival in advance of its local release. Decision to unveil "Skin" early admittedly runs the risk of leaking a
crucial twist in this warped saga of rape, revenge, mental illness and superfluous surgery. Yet foreknowledge of what happens should, if anything, make the prospect of Almodovar's film that much more enticing for his fans, who are sure to embrace his signature Hitchcockian flourishes, byzantine plotting and mercurial view of sexual identity and desire.
A Toledo-based plastic surgeon working to devise a revolutionary human skin treatment, Dr. Robert Ledgard (Banderas) lives, like most Almodovar characters, in a house distinguished by richly colored interiors and impeccable furnishings (courtesy of art director Antxon Gomez). His manse, however, has the added bonus of an operating theater and a beautiful woman locked away in an upstairs bedroom.
Kept under continual surveillance by Robert and his housekeeper, Marilia (Marisa Paredes), Vera (Elena Anaya) dwells in luxurious isolation. When she's not attempting suicide, she's trying to seduce Robert, a proposition the doctor entertains with a telling
mixture of temptation and repulsion. Most of the time she's forced to wear a flesh-toned unitard that turns her body into a literal and figurative blank, allowing Robert -- and by extension, the viewer -- to project whatever fantasies they want onto her frequently supine figure.
An intrusion by an outsider initiates a turning point in Robert and Vera's none-too-healthy dynamic. It also kicks off the first of numerous flashbacks involving Robert's daughter (Blanca Suarez) and Vicente (Jan Cornet), a young man she met at a fateful party, establishing the devious circumstances under which Vera fell under the doctor's care.
Much as he did with Ruth Rendell's "Live Flesh," Almodovar has taken an ice-cold psychological thriller, penned by a novelist of far less humanistic temperament, and performed some stylistic surgery of his own, adding broad comic relief, overripe melodrama, outrageous asides and zesty girl-power uplift. The big reveal, when it
arrives, is pure catnip for the helmer, enabling another of his madcap paeans to the supremacy of women and the fluidity of relational boundaries, and decisively positioning Vera, not Robert, as the true protagonist of this twisted tale.
Indeed, one can't quite shake the feeling that the director, having found an ideal vehicle for his sensibility, was unwilling to return the favor by fully embracing the inherent darkness of the material. Revelations that induced shudders of terror on the page have been softened or excised altogether, and the many surgical scenes, though meticulously prepared and beautifully shot by d.p. Jose Luis Alcaine, have none of the lingering clinical horror of, say, Georges Franju's classic "Eyes Without a Face." This gentler approach might have worked had the film delivered a compensatory rush of feeling, but "The Skin I Live In" gives short shrift to some of the story's most emotionally rich
passages, particularly the long period in which Robert and his patient cement their unlikely bond.
Strong cast consists largely of Almodovar vets, led by Banderas (reteaming with the director for the first time in the 21 years since "Tie Me Up! Tie Me Down!"), who makes Robert a fascinatingly seductive figure even as one recoils from the sick ends to which he takes his special gifts. Anaya ("Talk to Her") has to do little more than bask in the camera's appreciative gaze, which she holds effortlessly. Elsewhere, Paredes delivers a sharp turn as the domestic whose tart wisdom goes unheeded, while Cornet registers sympathetically as a young man unwittingly caught up in horrors beyond his control.
Alberto Iglesias' arresting score, marked by cacophonous violins and frenzied, weblike repetitions, musically conjures the spider-and-fly metaphor more explicitly detailed in Jonquet's novel.
Commenti del regista
"Uno dei film che ho suggerito a Antonio Banderas di vedere prima dell’inizio delle
riprese era 'Le cercle rouge' di Jean-Pierre Melville. Il suo personaggio non ha alcun
rapporto con i gelidi ladri del film. Quello che mi interessava mostrare ad Antonio
era la loro ‘inespressività ’. Alain Delon non è mai stato migliore nella sua brillante
carriera di quanto lo sia stato nei tre film che ha girato con Melville, con espressioni
facciali minime. Ho chiesto ad Antonio, in particolare per le scene più brutali, di
privare il suo volto di ogni espressione e gli ho portato ad esempio i criminali crudeli
di 'Le circle rouge'. Doveva mostrare non la malvagità del dr. Ledgard, ma la sua
assoluta mancanza di sentimenti".