THE WOLF OF WALL STREET: LE MEMORIE DEL MILIARDARIO JORDAN BELFORT RAGGIUNGONO LA CELLULOIDE GRAZIE ALL'ADATTAMENTO TARGATO MARTIN SCORSESE QUI ALLA SUA QUINTA COLLABORAZIONE CON LEONARDO DI CAPRIO
RECENSIONE ITALIANA IN ANTEPRIMA - PREVIEW in ENGLISH by SCOTT FOUNDAS (www.variety.com) - Dal 23 GENNAIO
"La storia di Jordan coglie perfettamente il fascino che provano gli americani verso le storie di ascesa e caduta, come dimostra la tradizione dei gangster. Tuttavia, Jordan ha preso la tradizione dei gangster e lâha rivoltata come un calzino. Piuttosto che sfuggire alla legge, lui ha cavalcato lâillegalitĂ in ogni modo immaginabile (e talvolta anche inimmaginabile), andandosi a cercare la punizione che ha posto fine al suo mini impero... Essendo una persona interessata alla storia, rimango meravigliato del fatto che accadano continuamente le stesse cose. Ci sono periodi di boom economico, grande euforia, tutti pensano che diventeranno ricchi e ogni cosa andrĂ bene. Poi avviene il crollo e si capisce che soltanto pochi si sono arricchiti e a spese degli altri. Eâ accaduto nellâetĂ dellâoro alla fine del XIX secolo. Eâ avvenuto nel 1929. Eâ capitato nel 1987, lâepoca in cui si svolge il nostro film. E cosĂŹ è successo nel passaggio tra questo e lo scorso secolo, quando è esplosa la bolla delle dot.com. Poi, è capitato nuovamente nel 2008. Magari accadrĂ ancora e presto".
Il regista Martin Scorsese
"Eâ un gangster moderno. Non è come i gangster violenti che abbiamo visto in altri film, ma uno che trova il modo di manipolare il sistema di Wall Street, soddisfare la sua aviditĂ e approfittarsi delle persone. Quei bravi ragazzi era la storia di una gang di quartiere, ma lo è anche questa, solo che il quartiere è quello di Wall Street. E le persone che vengono sfruttate non sono dei negozianti locali, ma milioni di tipi normali, nella privacy delle loro case".
Il produttore Joey McFarland
(The Wolf of Wall Street; USA 2013; Thriller finanziario; 165'; Produz.: Appian Way/EMJAG Productions/Red Granite Pictures/Sikelia Productions; Distribuz.: 01 Distribution)
Soggetto: Adattamento cinematografico delle memorie del miliardario JORDAN BELFORT, pubblicato in Italia da Rizzoli col titolo IL LUPO DI WALL STREET.
PRELIMINARIA:
JORDAN BELFORT è un impiegato che ha passato 22 mesi in carcere per crimini legati alla manipolazione di azioni di mercato e alla gestione di un centro dâattivitĂ : ha creato la societĂ di brokeraggio Stratton Oakmont negli anni â80 ed è finito in prigione per frode finanziaria. Durante il suo duro lavoro mirato a frodare denaro Belfort non si fa mancare niente, neppure la droga, verso la quale sviluppa una dipendenza alquanto seria...
Tutto questo ha spinto la rivista "Forbes" a definire Belfort âuna sorta di Robin Hood, che ruba ai ricchi per dare a se stessoâ.
Jake Hoffman (Steve Madden) Katarina Cas (Chantalle) P.J. Byrne (Nicky Koskoff)
Musica: Howard Shore
Costumi: Sandy Powell
Scenografia: Bob Shaw
Fotografia: Rodrigo Prieto
Montaggio: Thelma Schoonmaker
Effetti Speciali: R. Bruce Steinheimer (supervisore)
Makeup: Jill Astmann, Francesca Buccellato, Brenna McGuire, Donyale McRae e Rosemary Redlin; Sian Grigg (per Leonardo Di Caprio)
Casting: Ellen Lewis
Scheda film aggiornata al:
20 Febbraio 2014
Sinossi:
IN BREVE:
La storia si ispira alle memorie del miliardario Jordan Belfort che raccontano la sua ascesa e caduta nel mondo della finanza e la sua vita privata tumultuosa, segnata anche da droghe e alcool.
Jordan Belfort, un broker di Long Island, viene condannato a 20 mesi di carcere dopo aver rifiutato di collaborare alle indagini su di un massiccio caso di frode atto a svelare la diffusa corruzione vigente negli anni '90 a Wall Street e nel mondo bancario americano.
SYNOPSIS:
A New York stockbroker refuses to cooperate in a large securities fraud case involving corruption on Wall Street, corporate banking world and mob infiltration.
In The Wolf of Wall Street DiCaprio would play Belfort, a Long Island penny stockbroker who served 20 months in prison for refusing to cooperate in a massive 1990s securities fraud case that involved widespread corruption on Wall Street and in the corporate banking world, including mob infiltration.
Commento critico (a cura di ROSS DI GIOIA)
Tra un lunedĂŹâ nero e lâaltro, ben prima dei vari Maddof di contemporanea concezione che si succedono (orgogliosamente) al di lĂ e al di qua dellâOceano, e prima dei sub-prime e degli scatoloni della Lehman Brothers, câè stato un broker (Leonardo DiCaprio) che avrebbe attraversato la propria vita senza infamia e senza lode se non avesse maturato una tale aviditĂ da fargli dichiarare con somma soddisfazione: ÂŤMi chiamo Jordan Belfort. Lâanno in cui ho compiuto 26 anni, ho guadagnato 49 milioni di dollari, cosa che mi ha fatto incazzare, perchĂŠ ne mancavano solo tre e avrei ottenuto una media di un milione a settimanaÂť. Il colpo di cannone fu sparato a sei mesi dallâassunzione alla L. F. Rothschild sotto la supervisione di Mark Hanna (Matthew McConaughey). Era il 19 ottobre del 1987. Un giorno che passerĂ alla storia non per lâinizio della carriera di Belfort da broker, ma perchĂŠ, come
viene ancora ricordato, sarĂ il peggiore che la Borsa abbia mai vissuto dopo il crash del â29. Un collasso che convince Jordan, ambizioso squaletto, a fare âin proprioâ. Reclutato Donnie Azoff (Jonah Hill), un vicino di casa che si licenzia senza pensarci su due volte, Jordan fonda la Stratton Oakmont, agenzia di brokeraggio che gli porta, in rigoroso ordine di apparizione: droga, soldi, droga, donne (con relativa nuova moglie una volta piantata la parrucchiera senza verve che si era sposato poco piĂš che adolescente), droga, amici interessati, (ancora) droga e lâattenzione dellâFbi. Unâimpennata verso la stratosfera della gloria (finanziaria ed economica) che non può che avere un contraltare: una tale perdita di contatto con la Terra che la conseguente picchiata sarĂ tra le piĂš fragorose che si ricordino.
Basato su una storia vera, Martin Scorsese mette da parte il cinefilo omaggio di Hugo Cabret e in The Wolf of Wall Street
ci catapulta - senza paracadute - nellâinferno sinteticamente dopato di fine anni â80, dove il Caronte di turno è un Leonardo DiCaprio di monumentale fattura. Lâimpressionante ascesa e la rovinosa caduta del broker addicted Jordan Belfort di New York, che conquista una fortuna incredibile truffando milioni di investitori per poi spazzolarsela in Quaaludes, Adderall, Xanax, cocaina e morfina (questâultima perchè âè fantasticaâ), rimette i conti a posto con chi aveva storto il naso per le vicende dellâorfanello della stazione di Paris Montparnasse. Qui non ci sono orfanelli. Eccezion fatta per il senso della misura (di Belfort ma anche dello stesso Scorsese). Un personaggio senza redenzione quello del broker, che il regista manipola e incita come un pugile sul ring, invitandolo a picchiare ancora piĂš forte, a non mostrare alcuna pietĂ verso se stessa mentre vede la propria rovina che si avvicina e segue religiosamente la striscia bianca della cocaina per
raggiungerla. La furia di Scorsese fa sembrare come un Cabret cresciutello perfino il Gekko del Wall Street di Oliver Stone. Qui siamo infatti piĂš dalle parti di Quei bravi ragazzi, con una discriminante non da poco: da âfinanziereâ, la valanga di tre D a disposizione e di cui abusare (Denaro, Droghe e Donne), una volta che si è diventati âuno dei futuri padroni dellâUniversoâ, permette di mistificare i propri vizi - e coprire pietosamente lâassenza di virtĂš - con un manto di rispettabilitĂ . Da malavitoso, no. D'altronde ce lo raccontano anche le cronache nostrane: puoi essere Tanzi e andare a testa alta, ma se ti scoprono con uno spinelloâŚ
Quel che forse piĂš sorprende in questo The Wolf of Wall Street (DiCaprio a parte) è lâassenza di una valutazione e/o condanna morale. Scorsese si concentra sul suo cinema, libera qualsiasi inibizione (se mai ne avesse avute) e sbatte il mostro in
prima pagina. Applaudendolo. Il suo Wolf si bea, di fatto, della psicotropa bestialitĂ della vita che conduce e tramuta un Trainspotting del Dow Jones in una cavalcata il cui punto di rottura arriva in un confine lontano e sconosciuto ai piĂš, dove solo lâavidità è di casa. E se fino alla sua uscita in sala faceva sorridere il resoconto che proveniva da Hollywood del numero dei f*** che vengono pronuncianti (ma sĂŹ, la parola inglese che per noi ha la doppia zetaâŚ), che pare siano piĂš di cinquecentocinquanta, è solo guardando il Lupo negli occhi che si capisce la vertigine animale che il film endorfina a piĂš riprese, tra bluff continui in cui il denaro conta solo come misuratore dei grammi di coca o del numero di pasticche che puoi comprare, nani volanti, candele in posti indicibili e spogliarelliste suddivise in rigorose classi sociali da marchetta: dalle âprostituteâ (300 dollari
a botta e solo con condom) alle âputtaneâ (100 dollari a botta e fa un poâ come ti pare). Dove lâimpossibile non esiste, figuriamoci la legalitĂ .
Eâ senza rimedio quindi sia Jordan Belfort che la sua dipendenza dalle droghe. Uno slabbramento tale da quanto è socialmente accettabile - strappo che Wolf-DiCaprio fa suo con una compulsiva e seducente violenza - da far pensare che siamo noi quelli che stiamo sbagliando tutto. Ad un certo punto chi vi scrive ha avuto perfino la sensazione di vederli tutti insieme quei tipacci dei 'DiCaprioâs boys' (lâHoward de The Aviator, il Jay de Il grande Gatsby, lâEdward di Shutter Island, il Calvin di Django Unchained) che fanno bisboccia e si tagliano la roba sugli specchi, ingurgitano Quaaludes come tic-tac e si perdono facendo âciao-ciaoâ con la manina alla strada del ritorno. LâOscar per Leo stavolta è ad un passo (McConaughey di Dallas Buyers Club
permettendo). Ma alla fine delle quasi tre ore del film, alla retorica domanda non si sfugge: importa davvero?
Secondo commento critico (a cura di SCOTT FOUNDAS, www.variety.com)
Old-school Scorsese style and an unhinged Leonardo DiCaprio juice a cynical tale of Wall Street bad boys behaving badly.
Even Gordon Gekko looks like a veritable lap dog compared to Jordan Belfort, the self-proclaimed âWolf of Wall Streetâ whose coked-up, pill-popping, high-rolling shenanigans made him a multi-millionaire at age 26, a convicted felon a decade later, and a bestselling author and motivational speaker a decade after that. Now, Belfortâs riches-to-slightly-less-riches tale has been brought to the screen by no less a connoisseur of charismatic sociopaths than Martin Scorsese, and the result is a big, unruly bacchanal of a movie that huffs and puffs and nearly blows its own house down, but holds together by sheer virtue of its furious filmmaking energy and a Leonardo DiCaprio star turn so electric it could wake the dead.
Arriving six weeks past its original November release date and still showing signs of editing-room haste, âWolfâ should
ride a high want-to-see factor and generally admiring reviews to solid holiday B.O., though its length and extreme content may keep the reportedly $100 million production from reaching the rarefied aerie of âThe Departedâ ($289 million worldwide) and âShutter Islandâ ($294 million worldwide).
After going unexpectedly kid-friendly for 2011âs âHugoâ (his first PG movie in two decades), Scorsese could hardly have followed with a more dramatic about-face than âWolf,â which skirts the very outer limits of the R rating with its nonstop barrage of drug-fueled decadence, all put across with a sinister smile. In the first reel alone, which aptly sets the tone for whatâs to come, Belfort (DiCaprio) can be seen snorting coke off a prostituteâs backside, getting fellated while driving his white Ferrari, and nearly crashing his private helicopter while high on a homemade cocktail of Quaaludes, Xanax and morphine (the last one âbecause itâs awesomeâ). If some of
the advance hype suggested that âWolfâ was going to be a kind of âGoodfellasâ on Wall Street, in reality itâs more like the jittery, paranoid third act of that movie stretched out to three hours, starting at a fever pitch and heading toward the nuclear.
In the prologue to âWolf,â the first of two volumes of memoirs, Belfort wrote that he hoped his story would serve as âa cautionary tale to the rich and poor alike,â though there was little in the 500 pages that followed (or in the cover line, âI partied like a rock star, lived like a kingâ) that suggested contrition. Nor have Scorsese and screenwriter Terence Winter brought any retroactive moralizing to bear on the material. Rather, they take Belfort on his own questionable terms, seeking to reproduce the atmosphere of crazed, alpha-male intensity that engulfed the trading floor at Stratton Oakmont, the Belfort-founded brokerage house which,
in âWolf,â comes to resemble a Boschian Rome before the fall. It is the sort of office where a bathroom placard kindly reminds everyone not to engage in intercourse on the premises during office hours â right where the âEmployees Must Wash Handsâ sign usually goes.
The movie begins in medias res, with Belfort and his devoted minions blowing off steam in an office dwarf-tossing competition, before flashing back to give us a brief glimpse of the young and relatively innocent Jordan, who arrives on Wall Street in the fall of 1987 as a âconnectorâ â basically a glorified phone dialer â for the old-money trading firm of L.F. Rothschild. Itâs there that the eager rookie gets his first sense of the wild life to come when a mad-hatter senior broker (Matthew McConaughey) takes him out for a three-martini lunch that also includes enough white powder for a killer day at
Big Bear. And even though heâs no longer quite boyish enough to play someone in his early 20s, DiCaprio is convincingly green here, like a wide-eyed Candide lunching with McConaugheyâs debauched Dr. Pangloss.
But no sooner has Jordan settled in than Black Monday arrives and the bottom falls out, of the market and L.F. Rothschild, sending him back to the help-wanted ads at a time when nobody seems to be looking for stockbrokers. Nobody, that is, save for a storefront brokerage in a Long Island strip mall, where the slovenly staff unloads worthless penny stocks on cold-called clients for 50% commissions, and where Belfort sticks out like a Savile Row suit on a Kmart clearance rack. But the genial proprietor (an uncredited Spike Jonze) agrees to give him a shot, not quite realizing heâs just let a wolf in the door.
It isnât long before Belfort branches out on his own, starting
the tony-sounding Stratton Oakmont in a declasse former gas station, resolving to go from âselling garbage to garbagemenâ to targeting the deep-pocketed one percent. He assembles a merry band of brokers comprised of petty thugs, drug dealers and high-school dropouts who, when trained in Belfortâs precision-scripted tactics, prove to be remarkably effective salesmen. Riding herd on them all is Donnie Azoff (Jonah Hill), a buffoonish caricature of a Jew in WASP Land, decked out in garish bleached teeth, clear-lens horn-rims and a sweater tied ever so carefully around his neck. (Belfortâs own Jewishness and WASP aspirations, a running theme in the book, have been omitted from the film.) After offering his services to Belfort out of the blue in a local diner, Donnie becomes the Wolfâs most trusted associate, and itâs Hill who gives the movieâs most flamboyant (if slightly one-note) comic performance, unzipping his schlong, swallowing a live goldfish,
and otherwise boldly exploring the gray area between mankind and our nearest relatives on the evolutionary scale.
Clocking in at 179 minutes, âWolfâ sets a record as Scorseseâs longest fiction film (one minute longer than âCasinoâ), but that doesnât make it his most ambitious or deeply felt. It lacks the dynamic emotional range of a âMean Streetsâ or âGoodfellas,â or the intricate plotting of a âCasino,â and for all its amusing guest stars (Rob Reiner as Belfortâs combustible dad, Jean Dujardin as a pompous Swiss banker) and caper-like episodes, almost everything unfolds in the same manic register. Even when the movie is really cooking (which is often), thereâs a feeling that scenes are being held for a few beats too many, that Scorsese and his ace editor Thelma Schoonmaker simply didnât have enough time to do the elegant fine-tuning theyâre accustomed to (an impression reinforced by several conspicuous continuity gaffes and
badly matched cuts throughout the film).
Still, considering how familiar this milieu of fast-talking, hard-selling hucksters is from the likes of âWall Street,â âAmerican Psycho,â âBoiler Roomâ (which was also inspired by the Belfort case) and âGlengarry Glen Ross,â itâs surprising how lively Scorsese manages to keep things throughout. In terms of style, the movie is almost self-consciously Scorsesean â even more than âThe Departedâ â with d.p. Rodrigo Prietoâs camera tracking elaborately, freeze-framing, dollying in fast and whip-panning even faster, while a quadruple albumâs worth of classic rock and blues fill up the soundtrack (veteran Scorsese collaborator Robbie Robertson more than earns his âexecutive music producerâ credit) alongside DiCaprioâs running first-person narration. This is very much iconic, old-school Scorsese in full bloom, but whatâs missing is the marvelous empathy the filmmaker managed to conjure for even those filmsâ most reprehensible characters â the sense that this former seminarian could see
the good and ill in the souls of troubled men, even finding some kind of tormented nobility in the psychopath Travis Bickle.
In âWolf,â that empathy has been replaced by an overarching cynicism â cynicism for the swindlers who do the swindling and the schmucks who get snookered, cynicism for the empty allure of the good life, and cynicism for a system that allows for so many clean getaways. (Belfortâs nominal downfall notwithstanding, those wishing to see the character get his real comeuppance will still be waiting after the end credits have rolled and the lights have come back up.) Make no mistake: âWolfâ is as much a gangster movie as any Scorsese has made, with Belfort as a Bill the Butcher who slices and dices peopleâs bank accounts, a Nicky Santoro who puts your savings in a vise. But on some basic level, heâs a cipher whose drug-fueled binges regularly
put others (including, in one harrowing scene, his own young daughter) in harmâs way, and who thinks nothing of recruiting his wifeâs British aunt (an excellent Joanna Lumley) as a front â or, in the movieâs distinctive patois, âratholeâ â for his offshore accounts. As dramatis personae go, Belfort lacks a tragic dimension: This latter-day Gatsby stares out from his own extravagant Long Island enclave and sees only a blinking green dollar sign.
But a talented performer can do much to camouflage such shortcomings, and thatâs precisely what DiCaprio does here. A reliably good actor who too often shows you all the hard, technical work heâs put into creating a character, the DiCaprio of âWolfâ seems loose and uninhibited and freed of premeditated mannerisms. In his fifth collaboration with Scorsese, heâs a constant joy to watch, whether crawling across the floor like a baby while his bombshell second wife (appealing Australian
newcomer Margot Robbie, who deserves more screen time) engages in a particularly cruel form of cock-blocking, or rallying his disciples with an impassioned variation on Gekkoâs âGreed Is Goodâ speech. DiCaprio doesnât just play this part; he inhales it, along with everything else that goes up Belfortâs nose and into his bloodstream.
For anything resembling gravitas, though, one must instead look to the dogged FBI agent Patrick Denham (Kyle Chandler), who sets Belfort in his sights early on and gradually closes in. In one of the movieâs best scenes, a cocksure Jordan goes so far as to invite the G-man on to his yacht and comes within a hairsbreadth of bribing him. And Chandler, who projects the effortless, middle-class virtue of a 1950s leading man (a Robert Stack type), plays the scene with a wonderfully sly poker face, leading Belfort the egomaniac to believe heâs actually buying what heâs selling. But
the sting of âWolfâ comes in Denhamâs realization that, while he may have gotten his man, itâs Belfort who may well have the last laugh.
Moments like those keep âWolfâ buoyant and lithe in spite of its redundancies and excesses. But if thereâs one scene here that is sure to end up in future Scorsese career-achievement montages, itâs the epic drugged-out setpiece in which Jordan and Donnie experience a delayed reaction to decades-old Quaaludes, obliterating their motor skills and culminating in an explosively funny battle for control of a kitchen telephone. This live-action variation on the old Looney Tunes cartoon in which Bugs Bunny and the mad scientist get high on ether fumes reveals heretofore unknown reserves of physical comedy in DiCaprio. But more than being just a great gag, itâs a representative image: Call it infantile capitalism.
Despite its high price tag, the picâs physical production is more modestly scaled than
the likes of âThe Aviator,â âGangs of New Yorkâ and âHugo,â save for one elaborate, CG-intensive sequence in which Belfortâs yacht nearly capsizes in a violent Mediterranean storm. Otherwise, most of the movie is confined to trading floors, boardrooms and suburban McMansions, rendered by Prieto and production designer Bob Shaw (âBoardwalk Empire,â âThe Sopranosâ) with the bright, Windexed sheen of strip-mall, office-park America. The redoubtable costume designer Sandy Powell has everyone looking suitably snazzy, in keeping with Stratton Oakmontâs policy of inhouse custom tailoring for its employees.
Bibliografia:
Nota: Si ringraziano 01 Distribution, lo Studio Lucherini Pignatelli e Valentina Calabrese (Way to Blue)