IN UN MONDO MIGLIORE: LA INCONSUETA 'PARABOLA ETICA' DELLA REGISTA DANESE SUSANNE BIER SCAVA NELLE PROFONDITA' DELL'UMANA NATURA, IN UN CORAGGIOSO AFFONDO NELLA VIOLENZA E NEL DOLORE CHE, D'ALTRA PARTE, NON SBARRA LA STRADA AD UNA RICONCILIAZIONE, LA' DOVE E' POSSIBILE
Dopo Il PREMIO OSCAR 2011 per il 'MIGLIOR FILM STRANIERO' il 2 MARZOIN UN MONDO MIGLIORE torna di nuovo al cinema.
CELLULOIDPORTRAITS AWARDS 2010 - 'MENZIONE SPECIALE' - RECENSIONE
Dal TORONTO FILM FESTIVAL; GRAN PREMIO DELLA GIURIA (*) e PREMIO DEL PUBBLICO al V. Festival Internazionale del Film di Roma (28 Ottobre-5 Novembre 2010) - PREMIO OSCAR 2011 per il 'MIGLIOR FILM STRANIERO'
"'In un mondo migliore' vuole esplorare i limiti che incontriamo nel tentativo di controllare la società allo stesso modo in cui controlliamo le nostre vite private. Il film si chiede se la nostra cultura ‘avanzata’ sia il modello per un mondo migliore o se piuttosto il caos sia in agguato sotto la superficie della civilizzazione. Siamo immuni a questo caos o viviamo nel rischio perenne di precipitarvi?".
La regista e co-sceneggiatrice Susanne Bier
(In a Better World DANIMARCA/SVEZIA 2010; drammatico; 119'; Produz.: Production Companies/Danmarks Radio (DR)/Det Danske Filminstitut/Film Fyn/Film i Väst/MEDIA/Memfis Film/Nordisk Film- & TV-Fond/Sveriges Television (SVT)/Swedish Film Institute/Trollhättan Film AB/Zentropa International/Zentropa Productions; Teodora Film)
(*) Motivazione espressa da Sergio Castellitto, presidente della giuria del Festival Internazionale del Film di Roma, nell’assegnazione al film del Gran Premio della Giuria:
"'In un mondo migliore' ha la necessità e l’incanto di una parabola etica. Una storia di lacerazioni e incontri che ci spinge a capire quanto siamo soli e quanto non vorremmo esserlo. L’affondo nella violenza e nel dolore del mondo, diventa un luminoso viaggio di riconciliazione. Attraverso un cast di attori indimenticabili che incarnano l’intimità e l’estensione dei sentimenti umani, Susanne Bier indaga la nostra epoca con passione, forza visionaria e coraggio civile".
Cast: Mikael Persbrandt (Anton) Trine Dyrholm (Marianne) Ulrich Thomsen (Claus) Markus Rygaard (Elias) William Jøhnk Nielsen (Christian) Bodil Jørgensen (Preside) Elsebeth Steentoft (Signe) Martin Buch (Niels) Anette Støvlebæk (Hanne)
Musica: Johan Søderqvist
Costumi: Manon Rasmussen
Scenografia: Peter Grant
Fotografia: Morten Søborg DDF
Montaggio: Pernille Bech Christensen
Makeup: Charlotte Laustsen
Scheda film aggiornata al:
25 Novembre 2012
Sinossi:
IN BREVE:
I destini di due famiglie danesi si incrociano e ne nasce una straordinaria amicizia non priva dei suoi rischi. Ma la solitudine, la fragilità e il dolore sono in agguato. Ben presto, l'amicizia si trasforma in un'alleanza pericolosa e un inseguimento mozzafiato in cui è in gioco la vita.
The lives of two Danish families cross each other, and an extraordinary but risky friendship comes into bud. But loneliness, frailty and sorrow lie in wait. Soon, friendship transforms into a dangerous alliance and a breathtaking pursuit in which life is at stake
IN ALTRE PAROLE:
La vicenda del film ha per protagonisti Anton e Marianne, due medici in crisi matrimoniale, ed Elias, il figlio adolescente, vittima dei bulli della scuola. L’unico capace di difendere quest’ultimo è Christian, un compagno di classe che trascina Elias in un mondo a lui sconosciuto. Christian vive col padre Claus, da poco rimasto vedovo…
Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)
MOSTRANDO DIVERSI CONTESTI FAVOREVOLI ALLA GERMINAZIONE DI VARI TIPI DI ’HAEVNEN’ (VENDETTA), SUSANNE BIER CI INOLTRA ‘IN UN MONDO MIGLIORE’, DOVE PORGERE ‘L’ALTRA GUANCIA’ SUPERA IL DOGMA PER FARSI REALTA’ POSSIBILE, ANTIDOTO A SOLITUDINI ED ISOLAMENTO, OLTRE CHE PRIVILEGIATA STRADA DI PERCORRENZA DA MOSTRARE ALLE NUOVE GENERAZIONI, PER FARSI LARGO NEL CAOS DELLA CONTEMPORANEITA’
Mentre scorrono i magnetici fotogrammi di In un mondo migliore, ultima e già iperpremiata fatica cinematografica di Susanne Bier (Noi due sconosciuti) - il film è candidato all’Oscar come 'Miglior Film Straniero' per la Danimarca e per fortuna sta ampliando il circuito di distribuzione italiana almeno in seconda visione - ci torna in mente la dichiarata predilezione della regista per due capisaldi della cinematografia mondiale: Ingmar Bergman e Clint Eastwood. Con il primo la Bier deve aver stabilito un legame, per così dire di consanguineità per la celluloide, con il secondo, un feeling speciale nel saper
‘pizzicare’ con rara sensibilità le più profonde corde dell’animo umano, quelle che ci restituiscono le scomode melodie di una contemporaneità sempre più ‘malandata’, con i suoi disagi, le sue distorsioni individuali, e di conseguenza socio-morali, fino ai suoi orrori. E come Clint Eastwood, sia pure con uno stile ancor più - ‘nordicamente’ - asciutto, Susanne Bier si rifiuta di abbandonare quegli orrori a se stessi per consentire, in un modo o nell’altro, che una qualche parvenza di riscatto o riconciliazione sopraggiunga a purgare, almeno in parte, quel lato oscuro sempre in agguato. Se solo si pensa a Gran Torino, con cui Hævnen - il titolo originale danese che significa ‘vendetta’ suona quasi come trabocchetto provocatorio dissipato dalla liberatoria della traduzione italiana In un mondo migliore - mostra qualche focale punto di contatto, la Bier straccia Eastwood sull’onda di uno sguardo senz’altro più ottimista che, con indomito coraggio, rivolge a contesti
e circostanze passibili di epiloghi ben peggiori, con prezzi da pagare normalmente ben più alti. E non stiamo certo parlando di thriller ma di tutto il nero di cui parabole evolutive della vita di individui comuni della nostra società possono essere in grado di assorbire fino a restituirlo nell’intorno con gli interessi.
Susanne Bier non poteva scegliere interpreti migliori per illustrare i terreni piu’ fertili per la generazione di violenze e dolori in odore di effetto eco ad oltranza (è ben nota, e qui rimarcata da padre a figlio, la concatenazione effetto boomerang sul filo della vendetta). La lezione, o meglio, le lezioni qui impartite, appaiono piuttosto chiare, aperte ad un idealismo non certo facile e scontato ma pur sempre possibile, il bene difatti esiste ma è tutt’altro che perfetto: il medico da campo in Africa Anton, personaggio stupendamente ritratto da Mikael Persbrandt, ha responsabilità personali con il naufragio del
suo matrimonio e con i problemi del figlio a scuola - così come la regia, senza cedere a superflue inflessioni, ci lascia intendere - e il suo incrollabile senso del dovere, l’etica professionale, non gli consentono sempre e comunque di porgere l’altra guancia allo stesso modo, non gratuitamente, almeno: al climax idealista con la sequenza del confronto ‘esemplare’ con il meccanico di fronte ai suoi figli e al ‘vendicativo’ amico Christian, segue difatti più tardi quella, sconcertante, in cui deve misurarsi in un confronto diretto con la personificazione del male (Big Man). Ma quel che più incanta è il modo assolutamente privo di inflessioni melodrammatiche o edulcorate con cui Susanne Bier riesce a spingersi con generoso affondo, nelle lacerazioni interiori dei protagonisti, alle prese con diversi profili di isolamento e solitudine, concedendo un certo margine di vantaggio all’anello più debole della scala sociale, quello per l’appunto incarnato dai due ragazzi
Elias e Christian, interpretati rispettivamente dai bravissimi Markus Rygaard e William Jøhnk Nielsen.
La sceneggiatura poi, tocca momenti di altissimo lirismo drammatico, mai vacuo, e costantemente aderente all’amaro sapore del realmente vissuto pienamente condivisibile da chi, come il giovane protagonista Christian, ha subito gravi e irreparabili perdite di siffatta portata: il suo discorso in chiesa, e ancor più quello sul silos di fronte ad Anton, tocca corde che pochi trovano il coraggio di esprimere a parole per timore di disperderne tutto l’immenso che si portano dentro.
C’è dunque tutto un universo in quel manipolo di destini incrociati che abita questa inconsueta ‘parabola etica’, rivisitazione contemporanea a suo modo imbibita di una ‘spiritualità ’ che va oltre lo specifico di una professione di fede, ma che comunque si muove all’insegna del ‘porgere l’altra guancia’ indicando senza troppi preamboli, freni inibitori o compromessi, la strada o, per meglio dire, le strade, nel recupero di valori
autentici come l’amicizia, l’amore coniugale e verso il prossimo, il senso del dovere, dell’etica professionale, della giustizia non disgiunta dalla compassione ma neppure dalla gratuita condiscendenza, della paziente e autocontrollata attesa che le lacerazioni inizino il loro naturale processo di rimarginazione.
Così un prisma di disagi germinati per le ragioni più diverse, sbocciati in luoghi diversi, affrontati e digeriti in modi diversi, ci restituiscono una un’arma di difesa a doppio taglio da maneggiare con cura. E quella semplice e pur splendida sequenza che apre e chiude il film con il medico (Anton) sulla camionetta che lo conduce al campo ospedaliero seguito da ragazzi africani cantilenanti “How Are You†sembra fungere da monito-metafora per un’autoanalisi sullo stato di salute socio-morale, oltre che fisico, della nostra società in cancrena (come la gamba di Big Man) che nel film, in modo quasi austero quanto la natura ambientale in equilibrio sui suoi stessi contrasti -
come meravigliosamente espresso da Sergio Castellitto nella motivazione allegata al Premio della Critica conferito al film in occasione della sua presentazione al V. Festival internazionale del film di Roma - “diventa un luminoso viaggio di riconciliazioneâ€. Mai prima d’ora l’ambientazione naturale, colta ai suoi opposti del globo terrestre - Africa e Danimarca - e nei suoi contrasti più intimi dello stesso contesto - si era espressa più chiaramente, facendosi testimone silenziosa di violenze e dolori ma anche persino palla di vetro per un futuro che si lascia leggere negli aridi anfratti delle rughe terrestri, dove alacri, caotici binari di formiche si incalzano l’un l’altra, nelle corse polverose della fauna africana o nei cieli stellati del profondo nord di una luminosità così magneticamente unica. La cifra asciutta ed essenziale della Bier non esclude la palese metafora del difficile ma possibile equilibrio di opposte tendenze nel perenne ciclo naturale della morte della
notte, sulla rinascita all’albeggiare di un nuovo giorno, così come sulle calde cromìe della terra incombe un cielo minaccioso di nubi sature di pioggia torrenziale che d’altra parte qui non avrà mai modo di scaricare il suo pesante fardello.