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    L'INTERVISTA

    INTERVISTA INEDITA AL REGISTA VITTORIO DE SETA (1°) (A cura di MARCELLO CELLA)

    05/08/2007 - PISA, Cineclub Arsenale 27 Marzo 1996:

    INTERVISTA al regista VITTORIO DE SETA:

    (A cura di MARCELLO CELLA)

    Volevo farle una domanda molto semplice. Lei è di famiglia nobile calabrese. Volevo sapere che cosa l'ha spinta a passare dalla parte degli umili, dei poveri.

    De Seta: "Il vero motivo è che nel 1943 sono stato fatto prigioniero, impacchettato e portato in Germania. Siccome eravamo degli allievi ufficiali dell'Accademia Navale i tedeschi ci hanno considerato come soldati e per fortuna mia mi hanno messo insieme ai soldati che erano contadini e operai meridionali e settentrionali. A quell'epoca non c'era così tanta differenza come adesso e così io ero un ragazzo abbastanza grossolano, privo di esperienze, in condizioni difficili e mi sono trovato un po' scoperto con questi operai e contadini. Credo che sia stato determinante perchè avevo una visione della vita completamente distorta e appunto in queste condizioni di vita quasi impossibili ho capito, ho avuto amicizie, frequentazioni e da allora è cominciata questa idea fondamentale dell'ingiustizia dal punto di vista culturale che poi con il tempo ho approfondito con l'esperienza. In poche parole, ripetendo quello che diceva don Milani, ho capito che una persona che conosce cinquecento parole non è inferiore a quella che ne conosce duemila. Non so se avete visto La Sicilia rivisitata. Non c'è mai un professore, ci sono solo contadini ed operai che magari non hanno le parole adatte però hanno il sentimento delle cose e mi ha sempre colpito questo stato della cultura, non dico italiana, ma proprio mondiale per cui la cultura è una cosa alla portata solo di una minoranza eletta che la gestisce, la monopolizza e poi c'è una base completamente esclusa, che fa poche scuole elementari, quando le fa, e poi viene completamente estromessa. Credo che sia stato questo l'impulso, per esempio, per cominciare a fare i documentari sugli operai e i contadini cercando di togliere la voce fuori campo, che è sempre un punto di vista dell'autore, e facendo in modo che questa cultura si vedesse e si manifestasse da sè. Questo poi è accaduto in fondo con Diario di un maestro, con In Calabria con La Sicilia rivisitata. Quindi gran parte del mio lavoro è stato dedicato a questo".

    A me sono piaciuti moltissimo i suoi documentari degli anni Cinquanta per questa forza dell'immagine. Ieri ho visto In Calabria in cui la voce del narratore è troppo presente e mi ha dato un po' fastidio. L'immagine sembrava un po' secondaria rispetto a questa voce. Mentre i documentari iniziali sono dei gioielli.

    De Seta: "Se è per questo dà fastidio pure a me. Se lo dovessi rifare non so cosa cambierei. Però non è che la voce descrive le cose che si vedono, è sempre inserita in modo, almeno nelle intenzioni, da integrare quello che si vede. Il motivo è molto semplice. Quando facevo questi documentari vivevo inconsapevolmente questa cultura ed ero anche intimamente rassegnato al fatto che questa cultura scomparisse per lasciare il posto al 'progresso' fra virgolette. Quindi nel giro di quarant'anni ho fatto tutto un percorso per cui ho capito, iperbolicamente ma neanche tanto, che questa cultura che, come la definiamo noi adesso, non è neanche una cultura, perchè usufruiamo di una quantità di cose, possiamo accedere anche troppo a libri, giornali, film, musica, e questo troppo impedisce che ci sia una visione della vita che invece in quel mondo popolare, con i suoi limiti, c'era. Io dico visione della vita, rapporto con la realtà, interpretazione della realtà perchè sento profondamente che l'arte e la religione sono i due strumenti con cui gli uomini si rapportavano alla realtà, non alla realtà oggettiva, ma ad una visione super-normale delle cose. Io credo che il fascino dei documentari derivi proprio da questo, perchè la gente che li vede scopre che quello era un mondo, non so come dire, in cui l'uomo, sia pure in condizioni di vita difficili, si rapportava con la realtà. E secondo me il problema è proprio questo. Noi oggi abbiamo infiniti mezzi di comunicazione, di trasmissione però l'intendimento della vita, l'intendimento della realtà non c'è più perchè quell'eccesso di informazione, quell'eccesso di fruizione di opere lo schiaccia…Non vorrei che questo discorso portasse un po' fuori tema. Perchè magari si pensa che un regista sia uno specialista e che anche lui parli solo del suo settore. Io dico che dovremmo cominciare a smetterla con queste conoscenze settoriali, specialistiche. Lo dico perchè il regista è una persona che postula su queste necessità. Non credo di andare fuori dalle righe rispondendo in questo modo. E' difficile da dire in poche parole. Sinceramente penso che la nostra arte oggi non solo esclude il novantotto per cento della popolazione perchè è un'arte elitaria, raffinata, fatta per pochi, con la necessità della mediazione dei critici, è qualcosa di complicato. Invece l'arte dovrebbe essere una cosa semplice e l'artista dovrebbe essere un canale che rivela le cose semplici, non le cose complicate, perchè mette gli uomini in comunione sulle cose semplici, sulle cose essenziali. Credo che abbiamo perso di vista questo dato di fatto. Quest'arte, secondo me, si può dire che non c'è più se non quella confessionale, e l'arte è quello che è. Siamo arrivati al punto estremo in cui l'artista fa una cosa e dice 'se la capisci bene, sennò peggio per te'. Non c'è l'idea della comunione, non trovo altro termine. Ma non vorrei andare fuori tema".

    Maria Teresa Mattei (una delle persone che hanno partecipato alla Costituente, attualmente impegnata nel sociale, ndr.): "Intanto vorrei ringraziarla molto di essere venuto e di averci permesso di vedere i suoi documentari. Io alcuni li avevo visti e li ricordavo come ho visto dei film, ma da tanti anni non potevamo più vederli e vedere tutta insieme questa produzione è stato molto importante. Volevo domandarle questo, ho un po' la stessa impressione che ha detto prima la signora di prima. Io ho visto solo un pezzo di In Calabria, sono arrivata tardi ieri sera, però ho notato una forza straordinaria nei documentari precedenti, quelli degli anni Cinquanta-Sessanta perchè secondo me il cinema ha una tale forza che le parole usate per spiegare gli tolgono forza. Io ho questa esperienza di cui volevo parlare con lei e con voi che siete interessati al linguaggio cinematografico. Io faccio parte di quel gruppo della cooperativa di Monte Olimpino che ha fatto fare negli anni Sessanta molti film nelle scuole ai bambini, tutte le operazioni di cinema, dalle idee al soggetto, alle riprese, al montaggio e alla proiezione finale. I bambini hanno fatto delle straordinarie scelte che assomigliano molto alle scelte fatte da De Seta nelle sue opere. Cioè, per esempio, hanno detto, 'questo film lo vogliamo fare così, senza parole. Se ci vogliono le parole le facciamo prima, diciamo prima 'in campo buio' le parole'. In un film sul vecchietto che è ancora efficacissimo dopo venticinque anni le parole dette dai bambini sono dette prima del film e il film è muto ed ha una efficacia enorme per questo. Un'altra decisione, direi sociale, dei bambini è questa. Hanno detto, 'noi siamo quattordici bambini e dobbiamo avere lo stesso tempo per ognuno di noi, per raccontare la propria parte' e questo ha dato un ritmo straordinario al film. Non solo. Hanno detto, 'le cose che noi pensiamo sono in bianco e nero e le cose che facciamo vedere sono colorate'. Ecco, queste due decisioni tecniche, di avere ognuno lo stesso tempo per esprimersi e di usare il bianco e nero, che allora costava meno, e poi il colore (perchè i bambini si occupavano anche dell'aspetto economico del film), ha dato un ritmo così straordinario al film che veramente abbiamo pensato che i bambini si dovrebbe ascoltarli di più come io ho sempre fatto dove posso perchè penso che loro sono più nuovi di noi e ci aiutano a capire delle cose che noi riteniamo già scontate e a volte non sono scontate. Ma quello che io penso sia molto importante è questo. Sul fiume della falsa informazione che i mass media ci rovesciano addosso, ma appunto, sottolineo, ci rovesciano addosso, ci sono tantissime occasioni di informazione ma non è mai comunicazione. Quello che è importante è di acquistare e riacquistare comunicazione, con tutti questi mezzi. E questo forse lo si può sollecitare. La mia proposta era di fare un tentativo, di comunicare ai ragazzi nelle scuole come è stata la storia recente dell'Italia attraverso quei bellissimi documentari, com'era l'Italia in quei tempi, com'era il lavoro della gente. I ragazzi di oggi non sanno nemmeno cos'era una zolfatara o cosa sono i pastori sardi o come sono ancora adesso, o come è la pesca ecc.. Sono cose che in parte abbiamo perso nel cosiddetto 'progresso'. Per insegnare la storia del nostro paese, che poi gli ultimi cinquant'anni nessuno li ha insegnati tranne lodevoli eccezioni, sarebbe molto importante fare un manuale visivo nelle scuole e fare tutti una battaglia perchè entri questo cinema nelle scuole in un modo pertinente. Perchè a parlare sia veramente l'immagine del nostro paese, di quello che è successo, per esempio, fra i contadini, gli operai, i pescatori, ecc., che oggi nessuno dei ragazzi conosce. E' una cosa importantissima e quindi io propongo che da stasera si studi la maniera di raccogliere un consenso da parte degli insegnanti più motivati, da parte delle famiglie perchè si chieda che questo bellissimo lavoro entri di diritto nelle scuole. Perchè io vado in giro continuamente, e, avendo partecipato alla Costituente mi chiamano da tutte le parti per spiegare ai ragazzi cos'era la Costituente, cos'è la Costituzione, come ci siamo arrivati, ecc., e credo che senza l'apporto di quei film particolari non si può spiegare ai ragazzi i nostri tempi. I ragazzi capiscono di più nel racconto di un episodio come facevamo noi la guerra partigiana o come eravamo malridotti alla fine della guerra e come si strutturava questa modesta democrazia che abbiamo saputo conservare, forse male, malamente. I ragazzi danno importanza ai singoli episodi e senza questo non capiscono niente perchè non abbiamo la forza di fargli capire. Credo che sarebbe un vantaggio per tutti i giovani".

    De Seta: "La ringrazio per le cose molto belle che ha detto e credo che non siano rivolte ai valori in sè, quanto a questa istanza di rappresentarsi la vita. Perchè la nostra vita quando andiamo a scuola è proiettata sul passato. Ci mettono davanti a Dante, a Leopardi che sono il passato, che sono difficilissimi, e tanto viene elaborato il passato, o dovrebbe essere elaborato, che poi il più delle volte non si capisce perchè uno dovrebbe calarsi in quella che era la mentalità del Duecento, del Trecento per capire Dante. Io mi ricordo quanto ho sofferto a scuola perchè non capivo. E quanto poco si elabori il presente. Perchè in fondo questi documentari sono dei documenti sui reperti di un'epoca che non c'era più. Non so quanto il cinema nell'insieme serva a inventariare, a descrivere il passato. Per rispondere al signore di prima, può darsi che con In Calabria abbia sbagliato, è molto difficile fare lo speaker, però su ottantadue minuti sono dodici minuti di speaker e non mi parevano tanto invadenti. C'era una necessità di informazione, di dire che certi paesi erano albanesi. Ad un certo punto è intervenuto anche il bisogno di parlare. Però nell'insieme vorrei dire questo. Sento che anche la poesia forse è un lusso che non ci possiamo più permettere, cioè non si può andare avanti con la poesia allusiva, con questo avvicinarsi metaforico perchè siamo arrivati ad un punto che le cose bisogna gridarle forte. Rischio di ripetere sempre le stesse cose però ha ragione la signora, noi non siamo rapportati. Pensavo l'altro giorno che l'Italia dal 1896 al 1945, circa cinquant'anni, ha fatto sei guerre. C'è stata la conquista dell'Abissinia per cercare un posto al sole come se il sole mancasse in Italia. Quando in Italia nel 1959 c'era ancora un paese come Alessandria del Greto senza strada, c'erano i paesi in Sicilia con i tetti di paglia e noi siamo andati in Libia, siamo andati in Abissinia, siamo andati in Spagna, siamo andati in Albania, siamo andati in Grecia, settecentomila persone morte nella Prima Guerra Mondiale per avere l'Alto Adige, una regione di austriaci scontenti che non vogliono stare con noi perchè parlano il tedesco, e questo è costato settecentomila morti. Io dico che gli intellettuali queste cose devono cominciare a dirle. Basta con queste bugie perchè sui libri c'è l'inganno, c'è sempre scritto che l'Italia, non si sa perchè, ha fatto queste cose ma che comunque c'è stato questo eroismo dei soldati italiani. La dobbiamo piantare. Nella Repubblica di Platone o in Confucio gli artisti sono banditi. Io comincio a pensare che avessero ragione perchè siamo di fronte ad un mutamento così immenso che non stiamo metabolizzando, che non stiamo elaborando e continuiamo con quest'arte che ci porta un po' a spasso. Io penso che gli intellettuali, quelli che capiscono le cose le devono dire. Magari non hanno fatto bene il documentario, non è venuto bene ma non è questo il punto. Qui credo che bisogna decidere se gli intellettuali, quelli che hanno avuto la fortuna di studiare, devono continuare ad ingannarsi con queste storie oppure devono cambiare radicalmente e pensare che queste cose vanno semplicemente dette. Siamo convinti sempre, e lo leggiamo, ci abbiamo i libri di storia, ci abbiamo dei monumenti a questi grandi statisti che ci sono stati, del nostro giusto eroismo e della immensa intelligenza di questi statisti. Ma cosa hanno prodotto? Delle città intasate, delle macchine che possono fare 160 chilometri all'ora. E' una rovina. Tutti i centri storici sono buttati allo sfacelo. Questo è successo in trent'anni. E abbiamo avuto tutti questi grandi uomini che ci hanno illuminato. Ma dove sono? Cosa hanno fatto? Siamo colpevoli anche noi, anche la mia generazione. Forse è un po' fuori dalle righe, un po' radicale, però è quello che io sento. E' proprio un bisogno di verità e penso sempre che l'arte come avvenimento, come consolazione, come allusione è un lusso che non ci possiamo più permettere".

    Io sono calabrese. Il mio impatto con la cultura del progresso l'ho avuto con un'esperienza a tredici anni. Eravamo al mare, un gruppo di amici, venne un fotografo di una grossa impresa immobiliare di Roma per fare delle fotografie che gli sarebbero servite per costruire un villaggio turistico, uno dei primi in Calabria. E mi ricordo una scena: c'era un pastorello con le pecore e questo fotografo che fotografava la zona, il pastorello che si dilettava a farsi riprendere e il fotografo che dice una cosa bella, dice "goditelo ora questo mare perchè fra un paio d'anni non te lo godi più". E si è verificato esattamente questo. Tanto è vero che sotto Soverato fino a Cariati ogni paese ci ha due o tre villaggi turistici. Però, bisogna dirlo, non voluti dai calabresi ma dalle grosse imprese immobiliari del nord. Come una nuova terra di conquista i nuovi barbari sono venuti e senza nessuna legge urbanistica hanno cominciato a costruire immensi orrori dal Tirreno allo Ionio. E ora stanno continuando con la Sila. Io l'ho visto In Calabria. Da calabrese non mi è piaciuto tanto. E sa per quale motivo? Perchè una cosa che è mancata, per me, e forse non era nelle sue intenzioni, è che non c'era nessun riferimento alla causa dell'emigrazione. Lei ha esposto bene l'effetto dell'emigrazione, ma la causa per me non l'ha evidenziata. Cioè, la riforma agraria, la famosa riforma dell'Opera Sila, che aveva costruito tutte le case dando poca terra alle persone e ai contadini che non potevano vivere senza acqua, addirittura senza luce…La gente è stata costretta ad emigrare, è stata costretta a imbattersi nel progresso. Lei ha fatto vedere le famose cattedrali nel deserto, ma della costa ha fatto vedere pochi tratti. Però non c'è stato nessun riferimento al fatto che la gente è stata costretta, il povero calabrese è stato costretto ad andarsene. Io mi ricordo una frase che, quando ci fu il famoso incidente del treno che deragliò a Isola Capo Rizzuto, l'ex presidente delle Ferrovie disse, ed era l'ex presidente della Montedison, Schimberni, che poi diventò commissario delle Ferrovie dello Stato. Disse: "Non è colpa mia se hanno progettato la linea ferroviaria per portare più velocemente la manodopera dalla Calabria al nord". Rispetto alla mancanza di collegamenti seri, il calabrese è stato costretto, è dovuto emigrare perchè questa famosa riforma agraria non ha soddisfatto le richieste dei contadini. Io lo vedo, vado poco ora in Calabria, due o tre volte all'anno, però lo vedo, è cambiata la gente. Mentre prima l'ospite era veramente riverito, ora c'è il turista. Sono d'accordo con lei, però questa mancanza…non so come dire, questo sradicamento sembra che sia stato voluto dal popolo calabrese per la conquista di qualcosa. Invece no, è stato costretto. Ecco, nel documentario In Calabria questo riferimento mi sembra che sia mancato.

    De Seta: "Veramente dovreste fare un censimento perchè in Italia una volta si producevano trecento film all'anno, mentre ora se ne fanno ottanta. Io vorrei contare i film che sono stati dedicati al'emigrazione, un fenomeno incredibile sia per numero, sia per sofferenze, perchè bisogna capire cosa significa stare in un paese siciliano, conoscere solo il dialetto perchè la scuola non ti ha insegnato l'italiano, non ti ha preso per com'eri, io so di tanti casi di bambini calabresi handicappati perchè conoscevano soltanto il dialetto. Allora abbiamo avuto un'infinità di commedie all'italiana, di belle infermiere in ospedali militari e quanti film sono stati dedicati, che so, al fenomeno della droga. Se facessimo una ricerca ci accorgeremmo che l'informazione è pochissima. La gente continua a rivedere Sordi, ma non ha gli strumenti per interpretare queste cose. Dobbiamo capire cos'è un ragazzo calabrese che si ammala di AIDS e non ha sostegno, non ha riferimenti, non sa vivere questa emarginazione, o che è omosessuale, o che deve emigrare. Dico, alla luce di queste cose, rivediamola un po' questa idea dell'arte".

    Maria Teresa Mattei: "La vita degli studenti calabresi e meridionali in una città come Pisa qual'è? E' terribile…".

    De Seta: "Per queste cose i soldi non ci sono, ma per gli stadi di calcio ci sono sempre. Per il Giro d'Italia si trovano gli sponsor, per altre cose no. Ora dette così queste cose possono sembrare un po' moralistiche ma è così".

    In Calabria sono rimaste persone che bene o male si sono adagiate al sistema, mentre le persone che potevano cambiare, erano disposte a ribellarsi ad un certo tipo di sistema sono dovute andare via. Ci sono quindi persone che hanno creato un apparato sommerso mentre è mancato un punto di riferimento politico per questa forza calabrese di ribellione che non riusciamo a tirare fuori, e oramai siamo arrivati ad una stagnazione tale che ormai è proprio così. Sembra proprio una combinazione divina. Non c'è lavoro e non c'è una piccola e media industria che produce. Io mi ricordo che quando ero studente fuori sede a Pisa gli studenti cosiddetti 'compagni' dicevano che in Calabria si stava male perchè c'era la Democrazia Cristiana. In Calabria si stava male perchè non c'era la piccola e media industria, oltre al fatto che c'era la Democrazia Cristiana. Perchè la gente è costretta ad avere un solo riferimento imprenditoriale che è in odore di mafia. E una cosa che bisogna dire della Calabria è che la Sicilia è stata fortunata rispetto ai calabresi perchè nel 1970 ha avuto l'autonomia regionale. In Calabria invece, e lei vi ha fatto riferimento nel suo documentario, la mafia è cambiata ed è diventata imprenditrice, questa è la realtà. Io mi ricordo che la famosa legge Calabria, per cui veniva dato il dieci per cento in più su ogni appalto, era per la mafia. Per la legge se l'appalto era di cento miliardi all'imprenditore che investiva in Calabria gliene davano centodieci e quel dieci per cento era per le mazzette. Di conseguenza la gente ha dovuto piegarsi alla mafia perchè c'era si la famosa 'ndrangheta però era tutto il sistema ad essere strutturato in questo modo. Tutto per merito di Andreotti, Colombo e compagnia bella.

    Interviene un altro spettatore.

    Mi sento costretto a parlare anch'io dopo gli interventi degli amici sul film In Calabria. Per me è stata invece una scoperta molto bella. Io non ho la televisione perciò non sapevo dell'esistenza di questo documentario, l'ho scoperto grazie alla rassegna dell'Arsenale e l'ho letto come un forte documento politico nel quale mi sono riconosciuto. Lei diceva che era un documento più etico che politico. Io credo invece che la politica richieda invece una visione etica e religiosa. In passato mi sono sempre rammaricato su come gli intellettuali meridionali del dopoguerra fino ad oggi non avessero preso una posizione di opposizione ai progetti, a questo modello di sviluppo industriale, anzi l'avevano enfatizzato e in qualche modo avevano preparato il terreno alla devastazione. Forse l'unico interprete della cultura contadina fu Rocco Scotellaro, ma morì troppo presto. Gli altri, i partiti, sia quelli di destra che quelli di sinistra vivevano nel mito della industrializzazione e su questo hanno segnato la morte del meridione. E allora io con gioia ho riconosciuto in lei invece un autore che conoscevo poco, che conoscevo solo per Diario di un maestro che avevo apprezzato all'epoca. Ora invece riconosco invece un regista che nel film è stato come un Tolstoj, se mi permette questo paragone, perchè Tolstoj è per me quello che in Russia andò incontro al popolo, cioè si immerse nella cultura contadina e ne fu l'interprete con un messaggio salvifico, e quindi in qualche modo etico e religioso. Questo io l'ho sentito in modo molto forte nel film In Calabria. Quelle parole che lei ha pronunciato mi sono sembrate appunto quelle di un profeta come un Gioacchino Da Fiore, o un Tommaso Campanella, di una terra che richiama questo senso più alto e più vero della vita. Ed è un ritorno in cui bisogna imporci di scegliere fra due situazioni contrastanti. Non è possibile volere tutte e due le cose, cioè il cosiddetto benessere delle macchine e dei consumi, e conservare l'identità culturale individuale e personale.

    De Seta: "La ringrazio per questo riferimento a Tolstoj perchè io negli ultimi anni non ho fatto altro che leggere e rileggere Tolstoj. Non il romanziere, il narratore ma il saggista. Ci sono delle opere bellissime di cui non si parla mai perchè poi, ripeto, in un certo senso è stato il primo scrittore a negarsi come scrittore ed è intervenuto con i saggi, intravvedendo che la funzione dello scrittore, dell'uomo di cultura, dell'intellettuale doveva essere soprattutto questa. Quindi lei ha avuto buon orecchio a riconoscerlo".

    Io stamani ero all'incontro alla Facoltà di Lettere in cui lei ha parlato della sua esperienza in Guinea Bissau a fianco del movimento di liberazione e mi ha colpito una sua osservazione a proposito della sua presenza lì come cineasta e quindi come autore intenzionato a trarre da questa esperienza un'opera cinematografica, un documentario. E lei ha parlato di un certo disagio da parte sua perchè si sentiva come uno 'sciacallo' di fronte a questa realtà, come compiere un'opera di aggressione nei confronti di questa realtà, voler trarre delle immagini, voler fissare una realtà in immagini, e quindi voler quasi fare un'opera di aggressione, un furto. Allora mi sono venute in mente delle riflessioni su cose di cui recentemente mi sono occupata, cioè l'idea che la fotografia e la macchina fotografica si possano vedere come degli strumenti di aggressione nei confronti dell'oggetto che viene fotografato, un voler appropriarsi di questo oggetto e quindi della realtà. E allora ho pensato che si potrebbe vedere la macchina da presa come una macchina fotografica che opera un furto nei confronti della realtà. E volevo sapere se lei veramente nei suoi documentari, nel suo rapportarsi a queste realtà contadine, di pescatori, di pastori, quindi realtà molto, fra virgolette, 'arretrate', culture 'primitive' rispetto ai nostri canoni, se lei si è mai sentito in un rapporto di aggressione, cioè di esterno che con l'azione di girare un film compie un'intrusione in questi mondi, e se i soggetti protagonisti dei suoi film hanno percepito questa intrusione o se c'è stata sempre un'intesa.

    De Seta: "No, sinceramente non c'è stato. Quando noi siamo andati da Roma in Guinea eravamo tre persone, io, mia moglie ed un assistente operatore che fra l'altro è toscano e si chiama Luciano Tovoli. Ora fa il direttore della fotografia, ma allora cominciava a lavorare, aveva ventiquattr'anni, aveva appena fatto il servizio militare. Non abbiamo però portato con noi le nostre idee. Questo è successo anche per il film Banditi a Orgosolo. La sceneggiatura del film l'abbiamo elaborata con la gente del posto. Questo non ha nulla della figura dell'autore, secondo me, però fa vivere la cultura locale, permette alla cultura locale di esprimersi. Noi non abbiamo fatto mai niente su cui loro non fossero d'accordo. Fra l'altro gli interpreti, che erano tutti orgolesi anche quando facevano i carabinieri, però li facevano bene i carabinieri perchè conoscevano il loro comportamento, dovevano essere consenzienti altrimenti avrebbero recitato male, che non è neanche il termine esatto perchè in realtà venivano messi nelle condizioni di verosimiglianza assoluta, di partecipazione assoluta, ma erano anche bravi attori. Se io gli avessi chiesto delle cose che non sentivano, non sarebbero stati bravi, ma siccome gli chiedevamo soltanto le cose su cui loro erano consenzienti, su cui erano d'accordo, allora andavano bene. Questo è un caso che mi sembra interessante sul piano culturale perchè non è centralizzato, non è metropolitano, non viene da Milano, da Firenze o da Roma. Un autore va sul posto e attiva, fa precipitare una cultura locale che c'è già sul posto, che ha bisogno soltanto di questo catalizzatore che è l'autore, la macchina da presa che viene da fuori per esprimersi. Così si è dato una voce anche a loro. Infatti mi ha sempre fatto piacere il fatto che i sardi considerino questo film come quello che a tutti i livelli è più vicino a loro. In Africa forse era più delicato. Poi tutto sommato è giusto che se li facciano loro i film perchè uno che viene da fuori si sente sempre un po' colonialista, per quanto, con tutta la buona volontà, se uno fa partecipare il più possibile anche loro, può realizzare un film abbastanza vero".

    Gli attori di Banditi a Orgosolo erano doppiati?

    De Seta: "Si, erano doppiati per diversi motivi. Primo perchè eravamo così pochi che non è stato possibile fare una presa diretta. La presa diretta l'abbiamo fatta per Diario di un maestro. Ma non c'erano neanche le attrezzature oppure erano troppo costose. Poi c'era stato il precedente de La terra trema di Visconti che però nelle sale era passato in una versione doppiata. Ancora oggi si doppiano tutti i film, non si sottotitolano. Quindi se avessimo presentato un film non doppiato non l'avrebbero preso, e se l'avessero preso nessuno lo sarebbe andato a vedere, perchè purtroppo viviamo ancora in questa cultura terribile per cui i film sono tutti doppiati. Anche quando perdono il 50% del significato. Forse poi in Italia ci sono dei doppiatori molto bravi".

    I doppiatori erano sardi?

    De Seta: "No, il protagonista lo faceva Gian Maria Volontè che ancora non era famoso, e poi non si poteva neanche farlo doppiare a degli attori sardi perchè diventava comico. I dialetti purtroppo spesso sono motivo di comicità. Un altro doppiatore era un attore di origine jugoslava che aveva questi toni di voce non italiani perchè il sardo è una parlata non un dialetto".

    Io volevo chiederle qual'è l'origine del progetto di Diario di un maestro. Poi so che lei sei anni dopo ha fatto Quando la scuola cambia. Volevo quindi sapere com'era cambiata la prospettiva sul mondo della scuola fra i due lavori.

    De Seta: "La scelta del progetto è stata del tutto casuale, perchè mi era capitata l'occasione di fare una proposta di film alla RAI. Io non avevo le idee molto precise e un amico mi ha consigliato questo libretto, Un anno a Pietralata. E poi anche lì praticamente non abbiamo fatto una sceneggiatura. La sceneggiatura di riferimento non l'abbiamo quasi guardata. C'erano delle linee sui temi che si sarebbero affrontati e si è lavorato in condizioni di massima estemporaneità. Nel senso che il tema era dato, però i ragazzini si esprimevano liberamente quindi portavano la loro cultura e credo che il film abbia avuto successo proprio per questo. Per prima cosa sono riuscito ad entrare in un'aula, cosa che non si può mai fare, e poi ho trovato espressa nei ragazzini una cultura popolare che purtroppo circola poco perchè le sceneggiature le fanno sempre degli autori borghesi. Questo film ha avuto molti riconoscimenti. Purtroppo non da parte di molti insegnanti che hanno detto 'ma questo è finto, è recitato'. Allora per dimostrare che non era finto ho fatto Quando la scuola cambia, cioè quattro storie di insegnanti veri che facevano questo tipo di scuola normalmente, per dimostrare che si può fare, che non era un gioco cinematografico, ma una realtà che purtroppo ancora non è molto diffusa neanche oggi sebbene questa scuola attiva abbia dei precedenti, sessanta-settanta anni di storia e volendo si può fare. Però io credo che lo Stato, la classe al potere non voglia che si faccia questa scuola perchè non vuole gente libera, capace di avere delle opinioni, dei ragazzi formati in questo senso, vuole la scuola nozionistica con cui si conculca la gente fin da bambina in modo che poi magari saranno dei buoni consumatori, dei buoni elettori, tutto meno che gente che pensa con la propria testa".

    Io volevo sottolineare una cosa che aveva detto lei prima e che fra l'altro si riallaccia a ciò che stava dicendo ora, cioè il discorso sull'arte. Lei diceva che l'arte si sta allontanando dalla gente. Io volevo chiederle se secondo lei non è una cosa anche biunivoca, cioè non è un po' anche un contesto sociale, politico che favorisce questa situazione in cui gli artisti si rinchiudono in una élite, di gallerie o che altro? Per esempio, anche lei parlava del fatto che sperava ci fosse una distribuzione maggiore delle sue opere, dei documentari e che invece spesso, sebbene durassero magari solo dieci minuti, non venivano proiettati neanche per i tempi della pubblicità. E quindi mi domandavo se non fosse stato un po' troppo duro con questa sua affermazione dell'arte che si allontana dalla gente, come se l'arte e gli artisti in generale volessero coscientemente allontanarsi dalla gente. Purtroppo ci sono anche molti artisti che cercano di proporsi ma non trovano spazi, o non hanno abbastanza forza per riuscire a proporsi alla gente.

    De Seta: "E' sempre un discorso complesso. A me viene sempre da pensare all'ultimo secolo, l'Ottocento, quando l'arte viene considerata un fiore all'occhiello, un'eccezione, una cosa a cui si può avvicinare soltanto una élite. Poi c'è la bizzarria, l'eccentricità, la bohème, tutto un contesto di sregolatezza che dovrebbe essere proprio lontano dall'arte. Perchè se gli artisti stanno lì per interpretare i sentimenti della gente l'ultima cosa che possono fare è essere eccentrici, vestirsi, atteggiarsi in modo differente. Può sembrare un particolare, però se fanno così già vuol dire che sono lontani, che si vogliono distinguere, e questa accezione è molto diffusa. Si dice 'quello è un artista, è uno un po' fuori di testa', mentre invece dovrebbe essere tutto il contrario. Tolstoj diceva che nel Trecento l'arte ha avuto questa svolta, prima l'arte era una sola. Omero lo sentivano e lo capivano tutti. Boccaccio comincia ad essere un'arte particolare fatta per le corti, fatta per gente che aveva mangiato troppo, che doveva distrarsi. Ecco, in quel momento l'arte si è allontanata dal popolo ed hanno percorso due strade completamente separate. Perchè il popolo fino al '55 aveva le sue processioni, aveva la sua religione, anche superstizioni, però viveva in prima persona, aveva i tessuti, le brocche, l'arte popolare. E la borghesia aveva la sua poesia, i suoi poeti che il popolo non avvicinava. Ancora oggi non credo che il popolo legga Moravia, nessuno. Adesso, con la televisione, con questa scatola terribile che entra in casa, queste due cose che hanno camminato in parallelo per sette-otto secoli rischiano di ricongiungersi, però producono Pippo Baudo e Mike Bongiorno, i quiz, il calcio, questa è la follia. Allora si è dimenticato perfino il senso e la funzione dell'arte che è un momento di pathos, di commozione, di partecipazione collettiva e questo a me personalmente capita sempre più di rado di provarlo a teatro, al cinema. Da ragazzo, forse perchè ero giovane, c'erano dei film che si andava a vedere al cinema insieme, si vivevano. Poi, dopo un po' di anni, questa emozione collettiva non l'ho provata più. Allora ho l'impressione che si sia perduta perfino la nozione dell'arte, la nozione della sua funzione e si pensa che sia qualcosa di non necessario, mentre invece è la vita, non è una cosa in più, è la necessità degli uomini di rapportarsi con la realtà, di rapportarsi con gli altri, di rapportarsi con gli altri popoli. Mi pare che in tutta questa massa di prodotti ci sia poco, sono più i film che dividono che i film che uniscono. C'è perfino una moda per cui si ha paura del sentimento, e si dice 'questo è sentimentalistico, questo è moralistico' in senso dispregiativo. Ma perchè? Si diventa sempre più freddi, estranei, incapaci di gioire insieme. Le ultime grandi manifestazioni dove la gente si ritrova sono legate al calcio. Però non è una unione, c'è già un principio conflittuale, c'è una squadra contro l'altra, ci sono feriti fuori dagli stadi, non è una cosa che unisce, che accomuna. O, meglio, accomuna, ma stordisce e non è la stessa cosa. Non so se lo recepite nello stesso modo anche voi, ma io lo percepisco così".

    Sono d'accordo anch'io su questo. E' difficile riuscire a imporsi in modo diverso, come dice lei, per questo bombardamento linguistico che ci circonda. Tutt'al più se si arriva ad un messaggio più intimo, personale è già più facile. Però in effetti una processione come quella che si vedeva una volta, e anche quella è arte ed ha un impatto visivo molto, molto forte, quel livello di partecipazione emotiva, collettiva non credo che sia più possibile.

    De Seta: "Forse prima avevo mancato di rispondere, perchè la gente e gli artisti forse ci sarebbero però non so trovare una risposta. Posso dire solo che questi documentari, adesso che sono passati quasi quarant'anni non erano mai stati divulgati. Ne era passato qualcuno abbinato ad un film, però la critica non li aveva rilevati. Questo succede. E insomma se un autore realizza dei lavori e se li vede riconosciuti dopo quarant'anni, bisogna avere una vita piuttosto lunga (risate, ndr.). Credo che questo succeda. Non a caso poi ci sono i cineclub come l'Arsenale che devono riproporre i film belli che però nelle altre sale non passano. Si sa come è la situazione della distribuzione in Italia. Le sale sono controllate e passano quasi solo i film di cassetta. Passa Rambo e magari non passa un film rumeno molto bello perchè i distributori pensano che non faccia soldi".

    Quarant'anni è un periodo molto lungo, però ci sono autori il cui lavoro non viene nemmeno riconosciuto in ritardo, se non dopo morti e chissà quanti anni dopo. Comunque la mia domanda era questa. Lei ha fatto dei documentari alla fine degli anni Cinquanta. Poi negli anni Sessanta ha fatto Un uomo a metà, un film che a me piace molto, ma che però sul piano dell'impatto con il pubblico non deve essere stato così immediato. Non lo vedo come un film aperto a tutti, che tutti abbiamo la possibilità di capire se non conoscendo già Jung.

    De Seta: "Questo è vero. Neanch'io riesco a vederlo. Però sinceramente è stato un fatto di onestà perchè avevo fatto i documentari e Banditi a Orgosolo. Poi ho vissuto io stesso una nevrosi abbastanza grave, ho fatto analisi e ad un certo punto mi sono detto 'ma io con che diritto, da che pulpito mi metto a fare i film sociali, politici, se prima non risolvo i problemi miei?'. E allora ho fatto un film sulla mia nevrosi, che poi non è che mi abbia riportato indietro perchè poi sono tornato a fare Diario di un maestro. Ora se quella era una parentesi forse me la sarei dovuta vivere privatamente come ha detto qualche critico. Può darsi. Confesso che per me rimane un mistero questo film. Tanta gente mi ha detto 'questi sono fatti tuoi, perchè li racconti a noi?'. D'altra parte una crisi è individuale, non è che uno può raccontare una crisi collettiva. Quello che non mi è stato perdonato è questo e adesso solo a distanza di anni l'ho capito. Prima ho detto 'c'è la nevrosi', che sembra banale ma non tutta la gente è disposta ad accettarla, poi la nevrosi dell'intellettuale, peggio che andar di notte, guai ad infrangere il mito della supremazia della ragione. Noi viviamo in un contesto completamente folle per me, in quello che succede non c'è una ragione, ma vai a toccare il mito positivistico del primato della ragione! Questo lo tocchiamo con mano tutti i giorni. Noi non sappiamo niente, non sappiamo come funziona il corpo umano, non sappiamo perchè il cemento si solidifica, non sappiamo come si trasmette la luce, però viviamo in questo mito. Quindi andare a dire alle persone che forse c'è qualcosa di noi che è oscuro, che è misterioso, cosa che tocchiamo con mano tutti i giorni, guai a dirlo! A me è sembrata una operazione di sincerità e di coerenza, poi magari l'ho realizzato male. Fra l'altro ho cercato di dire, 'guardate che questa parte oscura di noi si può tentare con qualche risultato di dominarla, con la ragione, cioè di estendere la sfera della ragione', almeno a me è successo questo. Sapere che c'è questa nevrosi e rintracciarne le origini è già un conforto. Non che i problemi siano superati, però almeno…Quindi mi sembrava una operazione razionale dire 'c'è questa cosa, vediamola, esploriamola, non teniamola nascosta'. Però forse era troppo presto. Credo che questo film fosse prematuro, forse fatto troppo dal di dentro".

    Anche qui però ci sono dei riferimenti politici importanti. Il fratello del protagonista è un collaborazionista…

    De Seta: "No, il fratello è un ufficiale dell'aviazione, non è un collaborazionista. Il fratello combatteva contro gli alleati, non contro i tedeschi. Perchè avrebbe dovuto essere un collaborazionista? Era soltanto più coinvolto del protagonista, una persona coinvolta in questa cosa incomprensibile che è la guerra. Si, ecco, forse la madre. Infatti io avevo girato anche una scena vicino a Siena, c'erano delle impiccagioni dei partigiani. L'ho girata tutta. Poi alla fine non avevo più difese e qualcuno mi ha detto, 'ma questa è in più, non c'entra'. Invece per me doveva quasi essere all'origine del suicidio del fratello. Forse ho fatto male a girarla, ma purtroppo quando si arriva alla fine non si ha più forza, non si ha più giudizio. Si, la madre era filofascista, il fratello no, era più una vittima di quel periodo storico. Invece il protagonista non riesce a sparare nemmeno con il fucile da caccia, neanche ai fagiani. Mi ricordo che in quell'epoca c'era stata la conquista della luna e io dissi, 'dal momento che ci sono degli astronauti io faccio la storia di un entronauta', però era ancora l'epoca in cui uno faceva analisi mentre era iscritto al Partito Comunista. C'è ancora adesso il pregiudizio per cui se qualcuno faceva analisi era considerato matto, tanto era forte il presupposto dell'autocontrollo da parte di tutti. Tutto il collettivo dei critici a Venezia andò in corto circuito. Poi ci furono anche le critiche positive di Moravia, Pasolini, un giurato a Venezia gli voleva dare il Leone d'oro, poi il protagonista prese il premio come migliore attore, quindi ha partecipato a parecchi festival. Non era un film da buttare, ma è stato censurato continuamente. Comunque credo che in quel momento uno che era considerato spiritualista, junghiano, idealista parte per la tangente e va a fare in borgata Diario di un maestro, in quegli anni lì fra il 1967 e il 1968, fosse considerato matto. Ecco facciamo la conta dei film che sono stati fatti su questi argomenti. Non sono tanti. Diario di un maestro poi l'ho fatto io per cui non è che questa analisi mi abbia sconvolto".

    A parte che parlare di questo film in riferimento agli altri non mi sembra così incoerente, nel senso che lo spirito documentaristico c'è anche in questo film essendo, secondo me, una specie di documentario interiore, una specie di documentario dentro l'uomo invece che esterno a lui. Volevo però chiederle quanto questo film risenta dello spirito antiautoritario dell'epoca, essendo stato fatto intorno al 1968. Io ci rivedo anche certe cose di autori contemporanei come Bellocchio.

    De Seta: "Bellocchio non lo conosco bene. Qualcuno all'epoca mi ha accostato anche ad Antonioni, secondo me incongruamente, perchè il soggetto era anche di Tonino Guerra ed era, secondo la moda dell'epoca, piuttosto astratto. Non c'era psicologia, infatti mi ricordo la fatica che ho fatto per strutturarlo con una psicologia. Ma anche quel lavoro aveva un fine, come sempre quando una persona è in crisi, quindi mi sembrava giusto parlare di queste cose, voleva essere anche una parola di tolleranza sui rapporti, sui possessi. Perchè in fondo poi nel film ci sono due adulteri. Loro l'hanno letto, nel momento in cui si parlava di divorzio, come un film contro il divorzio. In realtà nel film ci sono due adulteri. Sono sempre le categorie a comandare, 'questo è intimistico, questo non lo è'…Bisognerebbe cominciare invece a dire se il film sta in piedi o non sta in piedi. Invece questo non succede quasi mai".


     
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