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    L'INTERVISTA

    INCONTRO DEGLI STUDENTI DELLA FACOLTA' DI LETTERE DELL'UNIVERSITA' DI PISA COL REGISTA VITTORIO DE SETA (A cura di MARCELLO CELLA)

    05/08/2007 - PISA, Facoltà di Lettere dell'Università di Pisa 27 Marzo 1996:

    INCONTRO col regista VITTORIO DE SETA:

    (A cura di MARCELLO CELLA)

    Ci può parlare della sua esperienza in Guinea Bissau alla fine degli anni Sessanta quando progettò di realizzare un documentario sul locale movimento di liberazione?

    De Seta: "Si. Andai in aereo nella Guinea, nel luogo in cui c'era la sede del movimento,,che poi erano delle baracche, e Cabral, il leader, purtroppo non c'era. Così passarono dieci-quindici giorni perchè era un movimento di liberazione e quindi erano necessarie delle cautele. Rimasi dieci giorni a Conakry, poi mi spostarono a Bokè che è una cittadina ai confini con la Guinea Bissau. Ero solo. Avevo una macchina fotografica. Ero andato a vedere. Purtroppo allora non c'erano tutte queste telecamere piccolissime. Sarebbe stato bello in quel caso prendere qualche appunto visivo. Almeno sarebbe rimasto quello. Così mi diedero un accompagnatore, un ragazzo che si chiamava Balì, e un bel giorno ci inoltrammo nell'interno della Guinea Bissau. Camminammo dalla mattina alle dieci fino alle undici di sera, facemmo forse cinquanta chilometri attraversando delle paludi, perchè era agosto, la stagione delle piogge. E la sera non si trovava più questo campo perchè questi campi si spostavano continuamente essendo una lotta partigiana. In queste paludi c'era il pericolo che arrivassero gli aerei portoghesi che tra l'altro erano di marca FIAT. C'era questa sperequazione di forze. Alla fine arrivai in questo campo dove c'era una personalità eccezionale, Abilio Duarte, che poi ho saputo era un poeta, un musicista, aveva composto lui l'inno nazionale, medico, e venni a contatto, per quello che potevo, con questa realtà che era particolare perchè il movimento era marxista però si doveva confrontare con una realtà particolare, cioè un paese in cui non esisteva borghesia se non questi rarissimi 'assimilados', che non erano neanche l'1% della popolazione, e quindi erano tutti contadini poveri…".

    …Quindi il problema delle etnie…

    De Seta: "…Si, c'erano i fulassi, i mandingue…i fulassi erano musulmani, gli altri animisti…e poi c'era anche una terza etnia. Questo movimento era iniziato negli anni Sessanta dopo un clamoroso eccidio avvenuto vicino a Bissau in cui la polizia e l'esercito avevano sparato sulla folla dei 'dockers', gli scaricatori, che si erano ribellati, facendo cinquanta morti. Con questo era iniziata la lotta armata che poi è stata preparata ed elaborata, credo, con una necessaria e dovuta originalità perchè tutti gli schemi marxisti della lotta operaia ovviamente cadevano. C'era una popolazione contadina, povera, denutrita, analfabeta, con i capivillaggio di origine patriarcale, e questi portoghesi che andavano ad esigere le imposte. Praticamente questo movimento ha dovuto fare i conti con questa realtà. Cabral e i suoi collaboratori vestiti da contadini passavano inosservati per i portoghesi, ma i locali capivano subito che non lo erano, e andavano a fare un'opera di persuasione e di proselitismo partendo da quella situazione. La situazione era data da queste tasse esose che venivano riscosse, i capofamiglia venivano tassati in base al numero delle mogli e/o dei figli ed a chi non pagava venivano sequestrati gli animali e subiva percosse, bastonature in pubblico. Era una grande mortificazione per un uomo venire picchiato davanti ai suoi familiari e al suo villaggio e quindi facendo leva soprattutto sui giovani si è avviato questo movimento che è partito dal niente perchè poi le armi se le sono dovute procurare facendo delle imboscate, incendiando questi camion militari, prendendole a queste truppe portoghesi e ciò ha implicato una quantità di cose incredibili. Per esempio gli anziani del villaggio non erano più all'altezza della lotta. Allora il movimento è partito dai giovani e automaticamente c'è stata una esautorazione degli anziani che però hanno accettato questa cosa e nello stesso tempo tutti gli schemi, diciamo occidentali, come, per esempio, l'esercito, l'autorità, la disciplina, l'obbedienza cieca cadevano. Io assistevo a delle discussioni! Questo Abilio Duarte era il capo ma non si sognava di esercitare l'autorità se non con una finezza incredibile perchè il combattente, non essendo sottoposto alla disciplina, si doveva convincere delle cose. Quindi mi ricordo che, non so se era il caso di una ragazza che doveva essere trasferita perchè doveva partorire, il come doveva essere spostata è diventato il pretesto di una conversazionre di ore e ore perchè tutti dovevano essere convinti. Era proprio una democrazia di fatto, tutti dovevano essere convinti del modo migliore tenendo conto del giudizio di questa persona, senza mai decidere nulla per l'altro autoritariamente. In fondo è un vero peccato che non si sia potuto fare un film anche minimo perchè era proprio commovente, era la nascita di una nazione che avveniva così, nella boscaglia dove c'erano pochissimi mezzi, dove si ricominciava a produrre il riso mentre invece i portoghesi cercavano di fargli produrre l'olio di arachidi, che poteva essere esportato. E mi ricordo che c'era una penuria! Io ero partito da Roma, stavo a Torvaianica, ci avevamo una casetta, il cosiddetto villaggio Tognazzi, c'erano gli ombrelloni con le signore che parlavano di gioielli, di coralli, di moda, e mi sono trovato catapultato in questa realtà dove era normale che arrivasse un piatto abbondante di riso con una porzione di spezzatino ed era per quattro persone. Questa era una situazione già abbastanza privilegiata, dove c'erano dei malati, dei feriti. Poi lì la gente mangiava riso condito con l'olio di palma che ha il colore dell'olio delle automobili. E' difficile per noi capire, ma queste cose ci sono ancora oggi, e non so se e con che difficoltà noi ci rendiamo conto di farne parte. Noi, forse un quarto, un quinto di umanità privilegiata all'interno della quale ci sono le fascie di malessere…Non è che poi all'interno di questi paesi cosiddetti industrializzati le cose vadano così bene, c'è un sacco di gente che sta male. Ma lì stanno male tutti e questo continua. Ogni tanto si mangiava un pezzettino di carne perchè un cacciatore era riuscito ad ammazzare un cinghiale, era un avvenimento. Andai lì con la possibilità di andare lì a realizzare un film. Naturalmente sarebbe stato un film semidocumentario con un'esile traccia narrativa. Ricordo che io seguivo il metodo zavattiniano, quello del pedinamento della realtà, del fare un'inchiesta, esplorare una realtà, trovare i momenti fondamentali di una situazione, quindi, nel mio caso, cercare di spiegare il prima, com'era la situazione della gente prima della lotta armata, queste scene dell'esazione delle imposte, delle bastonature degli anziani, e il saccheggio dei portoghesi, poi l'arrivo di questi rivoluzionari travestiti da contadini che facevano opera di proselitismo, poi l'inizio della lotta armata, le varie tappe che si sintetizzavano in una storia…Io avevo pensato alla storia di un ragazzo che rimane orfano e che si aggregava ad una pattuglia di combattenti. Poi veniva lasciato in un ospedale e alla fine, quando il forte portoghese veniva espugnato, ritrovava la madre e cominciavano a ricostruire la casa. Mi sembra che fosse un arco abbastanza esauriente. Naturalmente poi tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare. Oggi con le telecamere sarebbe stato molto più semplice ma fare un film allora non era facile. Poi nel mio caso quando tornai in Italia partì questo progetto di Diario di un maestro e così la cosa è stata dimenticata. E' rimasto questo documento che ho scritto nel quale appunto c'è il tentativo di acquisire la realtà e poi di tradurla in un racconto cinematografico con varie ipotesi e soluzioni. Questo in sostanza. Fare un film in una realtà che si trasforma e quindi capovolgere i termini normali. Normalmente nel cinema si organizza una realtà al servizio della macchina da presa, come anche nel caso del documentario che a me piace molto, mentre invece in questo caso è la macchina da presa che si doveva mettere al servizio di una realtà e perciò avrebbe dovuto filmare delle cose che stavano succedendo e che bisognava solo tentare di strutturare al minimo con una storia che poteva essere quasi un pretesto".

    Però era la prima volta che lei si interessava di una realtà non italiana.

    De Seta: "Si, per quanto poi io penso sempre che, da meridionale, quando sono andato a Hong Kong a fare un lavoro di tre ore per la RAI, Hong Kong città di profughi, io ho recepito questa città, l'ho sentita come un grande sud. L'Italia è un paese particolare perchè non credo ci sia un altro paese come l'Italia in cui c'è una divaricazione così forte fra nord e sud. Si può dire che in Italia c'è la coesistenza fra un paese primo e un paese terzo. Se andiamo a Gela, in certi luoghi di Palermo o di Catania siamo lì. Forse l'Italia è l'unico paese che contiene purtroppo realtà così distanti. Quindi noi siamo in qualche modo anche legittimati a parlare di questi argomenti. E mano a mano questa idea del sud che quando ho cominciato era l'Italia si è estesa. Se vado in Africa per me è sud. Ma non è solo un sud geografico, è un sud totale, globale, un sud economico, un sud di sperequazioni, di emarginazione. Quindi mi verrebbe difficile girare un film in Norvegia, mentre non mi imbarazzerebbe farlo in Africa".

    Lei è partito con un progetto e quando è andato lì ha cominciato a modificarlo. Il contatto con la guerriglia è stato determinante?

    De Seta: "Io non sono partito con nessun progetto. Questo ci tengo molto a dirlo. Anche quando sono andato a fare Banditi a Orgosolo. Anche in questo caso il progetto è venuto dopo il primo approccio, dopo essere stato lì. Guai a partire con un'idea preconcetta, con un'idea propria perchè veramente poi non funziona. L'iter è sempre quello lì. Non si sa niente, si va là, si cerca di capire il più possibile in una prima fase che già non è facile, poi su queste nozioni, su queste cose viste, perchè nel cinema ci sono anche quelle, si cerca di organizare una storia. Potrebbe venir fuori un documentario saggistico, una descrizione delle cose. Ovviamente una storia è più avvincente, un film viene percepito di più, perchè, diciamo, è la carburazione su una realtà. Quindi partendo dalle cose semplici…che ne so, dal destino di un ragazzino che si sente sperduto, seguendo lui si toccano le varie realtà, ma potrebbe essere un altro, potrebbe essere…che so, queste donne che partivano da sole per andare a commerciare il sale, a procurarsi da vivere. Il bello di una storia è, secondo me, la vita vista dai bambini, la vita vista da una donna, diciamo da un personaggio correntemente quasi poco significante; però tutto quello che vede diventa vero. Del resto anche su questo abbiamo dei precedenti filmici importanti, anche Paisà era un viaggio in Italia, dal sud al nord, dalla Sicilia a Napoli, da Roma a Firenze e poi sul Po per raccontare questa conquista della liberazione dell'Italia dal 1943 al 1945".

    Ma il capo della guerriglia lei l'ha incontrato in Guinea?

    De Seta: "L'ho incontrato prima a Roma, poi quando sono sceso in Guinea non c'era. C'erano questi suoi collaboratori un po' smarriti. Mi ricordo anche i discorsi che lui faceva per il decentramento. C'era questa baracca, lui non aveva un ufficio, mi ricordo che aveva un telefono rosso, questo era l'unico segno di distinzione, e quanto lui si sforzasse di non essere leader, di non essere oggetto di culto della personalità, quanto cercava sempre di decentrare. Naturalmente lui aveva una personalità fortissima. Poi quando sono ritornato in Guinea Bissau allora c'era e abbiamo parlato. Mi ricordo che abbiamo fatto una passeggiata insieme e c'erano lontano due del movimento che si erano impantanati con un'autocisterna e da lontano gli ha gridato delle cose, però non è andato lì per dirgli come si doveva fare, li ha lasciati cuocere nel loro brodo. Quando siamo tornati dalla passeggiata si erano disincagliati. Ho notato questo ottimismo di fondo, questa grande capacità di decentrare".

    Aveva mai pensato che con questo film avrebbe potuto in qualche modo mettere in difficoltà la guerriglia?

    De Seta: "Si, certo, però c'erano stati anche dei precedenti. C'era andato Valentino Orsini e proprio loro raccontavano che ad un certo punto la troupe voleva filmare qualcosa dal vero e proprio il riflesso della macchina da presa aveva rivelato la presenza di questi militanti per cui era cominciato un fuoco intenso di mortai. Poi c'era andato un altro cineasta, Piero Nelli credo, ma si era ammalato, e una troupe francese. Sono cose molto delicate. E' importante registrare le situazioni però certe volte c'è anche un elemento di disagio perchè uno si sente un po' sciacallo, non so spiegare bene perchè, forse perchè le cose succedono e allora tu dovresti partecipare a queste cose. Stai lì con la macchina da presa e ti senti…E' importante però in quel momento ti senti spiazzato. Nello stesso tempo ricreare una realtà è impossibile e non sarebbe coerente. E' difficile dire come…Forse si dovrebbe fare un documentario solo con delle testimonianze, forse l'idea di fare una storia con una struttura è già troppo ambiziosa e fuori luogo, non so. E' difficile".

    Questo soggetto è stato poi abbandonato definitivamente o potrebbe essere in qualche modo ripreso? Perchè è un tema non molto conosciuto, non è che si parla moltissimo di queste cose. E siccome un film, anche per le persone che non hanno molta voglia di interessarsi a queste situazioni, ha una certa presa, una presa che non avrebbe un documentario, credo che avrebbe un grande valore. E' un peccato che possa rimanere così, sulla carta…

    De Seta: "Resta il fatto pratico della difficoltà di organizzare il film. Se fai un film la macchina da presa ha le batterie, ci vuole la corrente, come lo risolvi? Uno allora dovrebbe portarsi dietro un gruppetto di persone. Poi succede che i mezzi si rompono. Se stai in Sicilia mandi qualcuno a Roma ma se stai in Guinea che succede? Nel cinema basta che si rompa una cosetta e si ferma tutto. E' molto difficile. Paisà è stato girato in Italia nel '45, però bene o male gli stabilimenti c'erano…La pellicola la devi mandare a sviluppare, perchè la pellicola nel momento in cui si impressiona è più delicata, non la puoi tenere in zone umide…La penuria di cose che c'era in Guinea in quel momento non la potete immaginare, non c'era niente…Ora poi la cosa avrebbe tutto un altro significato…con le telecamere…In un certo senso la documentazione ti rimane. Oggi sarebbe già una ricostruzione, una finzione che potrebbe essere basata su un'esperienza vissuta, però è diverso".

    La morte di Cabral contribuì all'archiviazione del progetto?

    De Seta: "No, perchè dopo ho fatto Diario di un maestro e mi ci sono voluti tre anni. Nel frattempo la cosa era finita. C'era stata la liberazione nel 1974 e Cabral era stato assassinato nel 1973. Così è passato. Però è rimasta l'amarezza perchè il cinema è il cinema, una cosa si fa poi rimane, è un'immagine. Aver perduto questa occasione per me è un vero cruccio perchè mi sono rimaste solo queste fotografie…Queste settanta pagine che ho scritto andrebbero integrate alla fine. Poi a dire la verità c'è anche un certo clima retorico…perchè c'era gente che combatteva, mi ricordo questi ospedali, bambini feriti, gente mutilata, era uno sforzo tremendo, quindi era verosimile e giustificabile che avessero bisogno di essere incoraggiati. Arriva un cineasta e cerca la sua storia…è difficile rapportarsi. Ovviamente uno dovrebbe mettersi al servizio in tutti i sensi. Però io sentivo che se in quel momento avessi avuto un registratore, un microfono forse Cabral mi avrebbe detto delle cose consuete, le cose che facevano parte del patrimonio culturale di quel momento, non ne avrebbe parlato più approfonditamente solo perchè era un leader, era il momento della massima tensione nella lotta, non c'era la possibilità…Insomma c'era il pericolo della retorica e forse per questo non l'ho intervistato ufficialmente. Del resto non stavo lì per quello, io stavo lì per fare un progetto di film. Comunque mi dispiace di non averlo fatto. Mi ricordo che lui mi era amico e citava spesso Basyl Davidson che aveva scritto La grande madre nera, che penso sia un testo base sullo schiavismo, parlava del traffico degli schiavi nel Seicento-Settecento, parlava di centocinquanta milioni di persone portate via dai villaggi e forse cento milioni arrivati nelle Americhe. Di fronte a queste cose i lager nazisti, come proporzione numerica, non come empietà, diventano quasi artigianali. Nonostante tutto di questo fatto non se ne parla, non se ne parla mai abbastanza. Tutto un continente, cento milioni di africani portati nei Caraibi, negli Stati Uniti, in Brasile, nel Centro America. Che fenomeno di massa, seppur diluito nel tempo, che cosa tremenda!".

    Ha conosciuto altri leader africani di quel periodo?

    De Seta: "Si, Agostino Neto dell'Angola e poi altri del Mozambico. Ora non ricordo bene. Era un periodo molto fluttuante di cambiamenti. Però non ho approfondito molto perchè facendo cinema uno non guarda le grandi linee storiche".

    Perchè allora la scelta della Guinea Bissau?

    De Seta: "Perchè mi aveva colpito Cabral e poi anche perchè davvero nessuno sapeva che esistesse. Si confondeva con la Nuova Guinea. Un paese così piccolo e sconosciuto e poi questo grande uomo. Come sempre succede, la gente poi magari dimentica…Mi ricordo dei profughi vietnamiti. Nel periodo 1979-1980 se ne parlava, poi queste cose continuano uguali, però non fanno più notizia, non se ne parla più. Così è successo e succede per tante altre cose".

    Lei aveva fatto anche qualche studio etnografico su questa cultura? Mi ricordo un suo intervento su Cinema Nuovo in cui parlava di motivi ricorrenti come la danza, la nascita, la morte. A parte l'interesse per la guerriglia, per la lotta in corso, mi pare che ci fosse anche un interesse per una realtà che in qualche modo era fuori dal tempo e che quindi andava più in là della cornice storica particolare…

    De Seta: "…Non si poteva prescindere dal fatto che in questo piccolo paese coesistevano una etnia musulmana e altre due, fra cui quella mandinga, che erano animiste. Non si può prescindere da questo, dalla vita, dal fatto che erano tutti contadini poveri. Il cinema è fatto di concretezza. Io veramente lo rammento sempre anche nei libri di storia. Ad un certo punto mi sono occupato del brigantaggio calabrese e si trovano una quantità di libri di storia, però poi non si sanno le cose della vita quotidiana, non si conosce, non si capisce come accendevano il fuoco, avevano degli zolfanelli o avevano ancora l'acciarino, il fucile era ad avancarica o a retrocarica? Quando facciamo cinema tutte le cose diventano concrete, diventano materiale del racconto e non si può non tenerne conto perchè sennò facciamo un film sulla liberazione in Guinea Bissau ma in modo che assomiglia troppo ad un'altra situazione, che so, in Guatemala. Voglio dire, se è tutto politico, se è tutto schematico, dottrinario, ideologico allora un paese vale l'altro. In cosa si differenzia il paese? Nel fatto che lì tutti sono contadini, coltivano il riso, sono poligami, come erano queste etnie, sono animisti. In un altro paese è un'altra cosa. Quindi il costume vi rientra e un film diventa interessante, positivo e continua a vivere in quanto ci fa conoscere la realtà di un altro paese. In questi giorni ho avuto un moto di gratitudine. Ero a Palermo dove c'era una rassegna su un regista molto importante che si chiama Abbas Kiarostami, iraniano, e mi ha colpito proprio la forza del suo cinema perchè questo regista racconta delle storie semplici. Il film che avevo visto io, Sotto gli ulivi, era la storia di una troupe che deve andare in un posto per fare un film che si chiama La vita continua, che poi era il suo film precedente, e apparentemente non c'è niente. Nella troupe ci sono due ragazzi che fanno una parte, un ragazzo e una ragazza. Nella realtà veramente il ragazzo faceva la corte alla ragazza, però doveva passare attraverso l'autorizzazione di una zia, avrebbe dovuto avere una casa, un lavoro. Quindi attraverso questa storia apparentemente banale, insignificante, venivano fuori i problemi reali, concreti di quel paese, la disoccupazione, il problema del rapporto fra i sessi a livello popolare, che poi sono gli stessi problemi che abbiamo noi in Calabria, in Sicilia o anche qua. Questa è la forza. Io lo dico sempre. Se si facessero molti film così, se ci si conoscesse e si scoprisse che siamo uguali, simili, poi certo ci sono paesi che sono più evoluti, in cui c'è più benessere e dove ce n'è meno, ma i problemi fondamentali sono sempre gli stessi. C'era un personaggio bellissimo in questo film che era una tuttofare, segretaria di edizione, batteva il ciak, guidava la macchina, una donna di quarant'anni, con il vestito lungo, il chador, aveva questa apparenza esterna però in realtà era una donna moderna, inserita nella società. Questo è importante. Anche in Guinea Bissau si poteva scoprire l'uovo di Colombo, la banalità, cioè che i suoi abitanti sono in realtà come noi. Se si facessero molti film di questo genere sulle cose comuni, e non sulle cose che ci dividono, al limite le guerre non sarebbero più possibili. Io per esempio non sapevo niente, non me lo rappresentavo l'Iran, neanche come ambiente fisico e ho visto che ci sono strade sterrate, automobili vecchie, però c'è questa vita, ci sarà anche un'altra religione però è sempre la stessa cosa. In fondo il cinema dovrebbe essere uno strumento di lotta contro le diversità, contro le apparenti diversità e sulle sostanziali cose comuni. Conoscenza vuol dire poi tolleranza. Ora ho un progetto per fare un film su un extracomunitario e lavorandoci mi sono reso conto che in questa nostra civiltà 'cattolica', che dovrebbe essere universalistica, noi in realtà non sappiamo niente di questi popoli che stanno dall'altra parte del Mediterraneo, non sappiamo niente, non ne abbiamo una rappresentazione, non sappiamo che cos'è questa religione, identifichiamo erroneamente questa religione con il fondamentalismo, con l'integralismo che poi è una fascia estrema. Quindi non sappiamo qual'è la vita reale di queste persone, nutriamo dei sospetti perchè ci sono stati inoculati, quindi siamo prevenuti, vediamo un extracomunitario e ci fa un po' senso perchè è diverso. Quindi penso che il cinema dovrebbe servire a questo, sennò poi avvengono fenomeni come quello della Lega Nord. Non dico che siano tutti così, ma insomma questi flussi di discriminazione, di intolleranza, di pregiudizio, insofferenza sono pericolosi".

    Io volevo farle una domanda politica. Cosa ha potuto constatare direttamente nell'evoluzione del movimento di Cabral. E' vero che Cabral era anche un leader autoritario che faceva nascere il movimento da sè stesso, lo indirizzava, lo inquadrava in qualche modo. In quelle condizioni il movimento come si sviluppava?

    De Seta: "Io ho avuto l'impressione che si sviluppasse molto bene perchè non si partiva dai preconcetti teorici, dogmatici del marxismo. Lì c'era un'idea di progresso, se vogliamo anche dei parametri marxisti. Però quando arrivavamo a contatto con la realtà si sposavano e facevano i conti con la cultura locale e si inserivano abbastanza bene. Questo fatto che gli anziani volontariamente avevano capito che dovevano rinunciare al loro potere tradizionale e che dovevano lasciare il posto ai giovani, che questa cosa dovesse avvenire dalla base e che Abilio Duarte, che aveva il potere, passasse tre ore a convincere un anziano di una cosa, gli riconoscesse e gli dimostrasse rispetto secondo me era una vera grande rivoluzione".

    Anche la guerriglia quindi ha avuto il suo vantaggio, favorito i contatti fra questi piccoli gruppi…

    De Seta: "…Un episodio che avrei voluto inserire perchè me lo avevano raccontato era il modo in cui un ferito era stato trasportato attraverso le paludi per tre o quattro giorni perchè nell'ospedale da campo l'operazione di cui aveva bisogno non si poteva fare…Oggi noi viviamo queste stragi con questi morti che vengono lasciati così, per strada, lì invece il valore di una vita umana in un contesto di assoluta mancanza di tutto era importante. Però c'erano persone che si sacrificavano, che rischiavano la pelle per salvare una vita. Ecco, come dire, in paesi poveri, umili, di cultura cosiddetta 'arretrata' la vita umana aveva un valore. E invece mi domando quanta ne abbia oggi dalle cose che vediamo e che sentiamo, come i bombardamenti mirati che sono avvenuti in Iraq. Quello che ho sentito, che ho provato è che lì c'era una dimensione umana e culturale che si salvava anche grazie al fatto che la cultura tradizionale non veniva buttata a mare, scartata, negata come è avvenuto qua e si fondeva con queste dottrine progressiste che però dovevano fare i conti con una realtà tradizionale. Credo che questo sia il progresso".

    Dal punto di vista etnografico cos'è la cosa che l'ha colpito di più di queste popolazioni?

    De Seta: "Sicuramente molto l'animismo. Questa cultura spregiudicata, con la poligamia, con noi che pensavamo 'chissà che inferno!', la subalternità della donna. Certo, non ci si può augurare che questo continui, però intanto in quel momento ho avuto la percezione che questa situazione andasse se non rispettata, almeno presa per come era, e sempre con cautela perchè sono forme di vita che si sono elaborate nei millenni. Se ci sono hanno avuto e hanno un senso. Prima di tutto bisogna cercare di capire".

    Nel momento in cui lei è andato in Guinea Bissau il marxismo era ancora una ideologia che informava tutta la cultura europea viva. Lei è partito quindi con questi due elementi ideologici diversi che erano marxismo e antimarxismo. Ora le volevo chiedere se lei trova che questo avrebbe potuto essere un correttivo anche per il dogmatismo della sinistra? Lei trova che questa direzione sarebbe potuta essere diversa anche in Europa?

    De Seta: "Si, questo senz'altro. Poi, se vogliamo, in fondo tutto il lavoro che ho fatto io, adesso me ne rendo conto, inconsciamente è stato molto più sulla cultura contadina tradizionale rapportata alla nostra cosiddetta, dico 'cosiddetta' perchè non ci credo, cultura moderna. Ora mi viene in mente che lì non era soltanto questione di marxismo, c'era la questione di innesto del marxismo su una cultura contadina, ma soprattutto c'era il fatto che in un certo modo questa cultura contadina non veniva uccisa di morte violenta come è avvenuto qua. Si facevano i conti, era un confronto. Scusate, parlo del mio lavoro, ma è quello che ho toccato con mano. Negli anni Cinquanta ho fatto dei documentari in Sicilia. Non lo so perchè li ho fatti. Forse perchè sentivo inconsciamente che questa cosa stava finendo anche se non sospettavo che sarebbe finita così presto. Ho fatto documentari sulla vita popolare, sul lavoro, che ne so, sulla pesca del tonno, del pesce spada, sulla vita nelle isole Eolie, sulle miniere di zolfo. Quello sul pesce spada l'ho girato nel 1954. Ci sono raffigurazioni cartaginesi, fenicie di quattromila anni fa con la stessa barca, con quattro rematori, l'alberello, il fiociniere, insomma una cosa che durava come minimo da duemila-tremila anni nel 1956 è finita. Le tonnare non so da quanto andassero avanti, ma senz'altro dall'antichità, dal Medio Evo, in due o tre anni sono finite. E quindi questo fatto mi ha colpito, mi ha sconvolto e mi sconvolge ancora, perchè non ci rendiamo mai conto di ciò che è avvenuto negli ultimi trent'anni. Non so voi come lo interpretate, voi che magari trent'anni non li avete. E' avvenuto un cambiamento immenso, irreversibile, per cui non è soltanto la pesca del pesce spada ad essere scomprasa…Fino agli anni Cinquanta il grano si falciava con la falce. La falce, per esempio, credo che abbiano rinvenuto ancora falci di pietra di diecimila-dodicimila anni fa, ma sempre la falce era, la falce non si è modificata nel tempo. Al massimo c'è stata una piccola seghettatura. In diecimila anni questo strumento non è cambiato, in questi ultimi trent'anni è cambiato. Io ho fatto un documentario sulla mietitura del grano in Sicilia nel 1955; in gran parte si faceva ancora con i muli, con il vento, perchè poi bisogna aspettare il vento per trebbiare questo grano. Questo tocca tutto. In trent'anni praticamente questa cultura che poi era un patrimonio di esperienze, di costume, di canti, di nomenclature è stato buttato a mare con violenza. Sono arrivate le automobili…oggi non facciamo in tempo a fare niente…che so, le musicassette sono già superate perchè hanno fatto i compact disc, che saranno superati a loro volta dalle tecnologie digitali…A me mi colpisce sempre questo fatto, cioè che la vita degli uomini che da un milione di anni vivevano in un certo modo e quindi avevano strutture cerebrali ereditarie (abbiamo tutti strutture cerebrali ereditarie prodotte da questa esperienza) in trent'anni si è capovolta. Adesso forse ho fatto un giro un po' troppo lungo".

    Non pensa che dopo la guerriglia, la lotta di liberazione anche la sorte di paesi come la Guinea Bissau, di quei paesi che una volta si chiamavano in via di sviluppo, sarebbe stata la stessa? In fondo la fame è la fame, anche questo è il sottosviluppo. E' vero che c'era una cultura, però è anche vero che sono paesi che sopravvivono male.

    De Seta: "Questo però nella misura della follia dei nostri tempi. Io ho letto una volta un resoconto FAO secondo il quale basterebbe il 2% delle spese militari annuali nel mondo per debellare la fame, il 2%. Questo era un paese in cui bastava portare un poco di tecnica, un po' di macchine, quanto bastava, un paese che avrebbe potuto continuare a vivere elaborando la propria cultura, che avevano individuato ed elaborato così bene durante la lotta armata. Non so se rendo l'idea. Ci sono paesi che possono continuare ad evolversi rimanendo protagonisti attivi, mentre invece il colonialismo, che sia quello tradizionale, che sia quello economico delle repubbliche delle banane, è un fardello tremendo …adesso sono contesti economici complessi ed è difficile parlarne, però questi paesi poveri vengono rapinati dalle multinazionali di quel poco che hanno, anche a vantaggio nostro. Il nostro benessere è fatto anche di queste rapine. Ciò che colpisce è come in questo mondo in cui i mezzi e la forza delle macchine si sviluppa sempre di più non si riescono mai a debellare i fatti di fondo che sono la miseria, la fame, l'analfabetismo. Allora c'è qualcosa che non va. Mi ha colpito ultimamente, forse deragliamo un po', un libro pubblicato dai francesi di Reporters sans frontières, e mi aveva colpito tempo fa Montanelli che diceva, dall'alto della sua autorità, 'guardate in Jugoslavia io li conosco, lì si ammazzano'. E i Reporters sans frontières hanno fatto un lavoro coraggioso contro i propri colleghi ed è venuto fuori che non è vero che in Jugoslavia si ammazzano, ma che questi sciagurati Milosevic, Tudjman e compagnia bella, venuto meno lo strumento del marxismo nel 1989, hanno ripiegato sul nazionalismo, hanno tirato fuori tutti i documenti delle efferatezze compiute dagli ustascia croati durante l'ultima guerra, e per due-tre anni hanno preparato il genocidio che poi è avvenuto. Cioè non è vero che la televisione pubblicizza solo il biscottino o il tonno, pubblicizza anche l'odio. In Ruanda c'era una famigerata 'radio delle colline' che ha preparato il conflitto etnico che poi c'è stato. Questa è la grande differenza con Cabral che nei suoi pamphlet diceva che questo odio non era contro il popolo portoghese, ma contro il colonialismo. Mai contro le persone, i popoli".

    Lei ci ha parlato dello stato di grazia in cui si trovava quel paese in quel momento. In fondo quando c'era Cabral era stato fondato da poco. Pensa che anche il movimento avrebbe potuto sopravvivere alle persone che vi partecipavano?

    De Seta: "Forse sarebbe sopravvissuto se fosse sopravvissuto Cabral, perchè aveva la forza della ragione, l'intelligenza, la praticità. Certo esistevano ed esisteranno sempre probabilmente queste tensioni fra tribù, ma se l'informazione, la comunicazione che è là si adoperasse per smussare queste cose invece di accentuarle la vita sarebbe migliore, più facile, più conveniente anche. Vedi, non bisogna mai pensare a queste cose come calamità venute dal cielo, sono cose fatte dagli uomini e gli stessi uomini potrebbero contrastarle".

    Quindi lei crede nel cinema come strumento di conoscenza e quindi di denuncia di una realtà…il documentario come documento di una realtà che non è come dovrebbe essere.

    De Seta: "Si. Io sono convinto che se la televisione e il cinema diventassero strumenti veramente positivi in dieci anni potrebbe cambiare il mondo. Invece c'è La Zingara, le telecarte…".

    Anche gli stessi eroi che sono stati presenti a lungo nel cinema erano eroi fuori dalla portata delle persone e creavano più differenze che unità nelle persone. Questa è la mia impressione. Ora c'è un ritorno del cinema italiano agli eroi della vita quotidiana, magari anche ad un cinema che con poco riesce a dire tanto, un cinema un po' più impegnato. Lei come vede la situazione del cinema sociale?

    De Seta: "Io penso che gli autori, quelli che fanno comunicazione, gli artisti hanno una grossissima responsabilità. Io pure me la pongo. Ho avuto dubbi anche sull'utilità di fare un film di finzione. Però più vado avanti e più mi accorgo che per due film positivi che si fanno, novantotto sono negativi. Io ci metto anche Rambo, perchè, è una stupidata, si, ma noi pensiamo che è una stupidata, ma se ci pensiamo bene è proprio negativo perchè c'è l'individuo da solo, il superuomo da solo che si ribella non si sa bene contro che cosa. E' astratto, se non altro per questo è negativo. Un film così, tutto sommato, semina divisione, semina odio, non c'è quello che invece dotrebbe essere l'architettura della vera arte. Poi, arrivati a questo punto, tutti i mezzi di diffusione sono controllati. Nel mio piccolo io ho fatto un film documentario, In Calabria, che denunciava vagamente le cose che stiamo dicendo. In televisione l'hanno passato a mezzanotte. E ho visto alle otto e mezza di sera un documentario di Quark sui cani selvatici americani, i dingos. Alle otto e mezza passa quello, dopo La Zingara. E un discorso fatto da un uomo di una certa età, un autore, quello passa a mezzanotte. La differenza sta tra le cinquecentomila persone, che sono comunque tante, che lo vedono a mezzanotte contro i sei-otto milioni di persone di prima serata. Perciò io mi sono un po' ritirato in campagna. Però certe volte sono tentato di dire: se ho i mezzi mi faccio i film, quello che posso con i miei mezzi senza passare più per questi canali della televisione dove bene o male avviene sempre questo processo dell'autocensura. Perchè poi ad un certo punto le cose bisogna dirle, bisogna smettere di prenderci in giro. Vediamo che i capi di stato si riuniscono per vedere che cosa si può fare per debellare le cause della guerra nel mondo, e questi stessi capi di stato, e questo succede per gli Stati Uniti, per la Francia, per l'Italia, ecc., fanno finta di non sapere che le armi si producono nei loro paesi. In Italia c'è una fabbrica, che credo faccia parte del gruppo FIAT, che produce piccole mine esplosive, spesso con l'aria di giocattoli, una specie di bomba fatta di plastica che non si può identificare perchè al momento dell'esplosione una metà esplode per terra e l'altra metà esplode ad un metro d'altezza, e nella pubblicità, e ci sarà pure un depliant, si dice che può fare dei danni molto maggiori. Da quello che so queste cose si continuano a produrre. Allora smettiamola di prenderci in giro perchè se l'industria bellica nel mondo entrasse in crisi, i paesi industrializzati andrebbero in crisi. Diciamo almeno le cose come stanno perchè sennò diventa una burletta, è inutile prendersi in giro. Queste armi vengono prodotte e si calcola che di queste bombe ce ne sono ancora sparse per il mondo cento milioni e siccome statisticamente ne va a segno una su cento, si sa già che ci saranno un milione di bambini morti. Perchè poi, per esempio in Afghanistan, c'è un tale stato di povertà per cui sono i bambini che vanno a prendere ferraglia in questi depositi e proprio loro vanno ad incappare nelle mine. Questa è la realtà. Allora non so se rispondo alla tua domanda. Secondo me tutti gli autori dovrebbero dire, 'parliamo di queste cose con qualsiasi mezzo, che sia un film di finzione, che sia un documentario'. Tutti quelli che hanno fatto studi, tutti quelli che fanno comunicazione dovrebbero tentare di agire in questo senso, altrimenti non cambierà mai niente. Credo che sia una scelta. Ma non si tratta solo di noi cineasti. Qualsiasi persona abbia acquisito un po' di cultura o faccia un mestiere con cui può comunicare può farla e dovrebbe farla".


     
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