62a Mostra: Lido di Venezia, 8 settembre 2005 ROUND TABLE & DINTORNI : La Bestia nel Cuore per la regia di CRISTINA COMENCINI
8/09/2006 -
Cristina Comencini (regista); Giovanna Mezzogiorno (attrice); Stefania Rocca (attrice); Angela Finocchiaro (attrice); Alessio Boni (attore); Luigi Lo Cascio (attore); Giuseppe Battiston (attore); Francesca Inaudi (attrice)
Round Table: 1) CRISTINA COMENCINI
Riguardo al rapporto tra cinema e letteratura di cui siamo tornati a riparlare proprio in questi giorni come due mezzi espressivi diversi e nettamente distinti, con il suo film si scopre che il binomio funziona divinamente. Cosa ne pensa?
“Non sempre è vero. Diciamo che ci sono dei casi in cui non si sente che il film è una messa in scena di un libro. Io non ho mai fatto film dai miei
libri per questa ragione: perché mi sembrava di scaldare una minestra già fatta. In questo caso invece, ho avuto la sensazione precisa che potesse accadere qualcosa di miracoloso, in particolare per via degli attori, perché i personaggi del libro sono personaggi densi e concentrati, cosa che il cinema richiede. Cioè, in un tempo narrativo sintetico, preciso, denso, appuntato sui nove mesi di attesa di un bambino, separato in due parti, questi personaggi avevano molto dentro, molte cose, e questo pensavo potesse essere una buona occasione per gli attori. Cosa che secondo me in questo caso è stata. Non è sempre
così: ci sono per esempio altri romanzi che ho scritto, che sono più che altro vite, lunghe. Se prendiamo Il cappotto del turco, ha ricevuto molte richieste di trasposizione cinematografica, perché era la nostra generazione, erano gli anni Settanta, sarebbe stato interessante metterlo in scena, però la storia contempla la vita di due sorelle fin da quando son piccole negli anni Cinquanta e prosegue fin quando una delle due non muore, ecco questo è un classico caso dove la trasposizione da romanzo a cinema è rischiosa, perché comincia a diventare ‘polpettone’. Qui, con ‘La bestia nel cuore’ invece, mi sembrava
che fosse tutto molto denso e che potesse reggere anche come film”.
Ma se ci si prova ad imputarle meriti anche per il tocco di regia e non soltanto per la prova degli attori risponde:
“Io faccio questo mestiere per dirigere gli attori, semplicemente, cioè forse per invidia, anche”.
Si rileva che c’è come motivo di ritorno, ancora l’indagine all’interno di una famiglia, tema molto caro alla regista e ricorrente nei suoi scritti. La scoperta della verità, anche la più dolorosa, è quello che permette, accettandola, di cominciare una vita nuova:
“Io penso che il nostro tempo abbia come caratteristica questo: cioè che
ognuno di noi cerca dei rapporti di verità. Il che rende le cose molto difficili, molto precarie, instabili, e cose che ci fanno anche soffrire. Però, di fatto, nessuno può tornare indietro. E’ come se nel nostro modo di essere, di amare, di stare insieme, avessimo bisogno, ogni tanto di capire le cose bene, di aprire gli occhi. E questo ovviamente crea grandi problematiche, perché prima le cose erano apparentemente più stabili. Di fatto c’era invece una grandissima infelicità, secondo me. Nessuno intervistato e invitato a scegliere tra l’oggi e l’Ottocento sceglierebbe l’Ottocento, e questa fa già capire come comunque
queste realtà umane sono molto più complicate ma anche molto più interessanti ed è quello che poi cerco di raccontare anche al cinema”.
Le foto iniziali di papà Comencini, De Sica e Pasolini, sono un po’ i tre numi tutelari?
“Penso che il cinema italiano sia un cinema grandissimo che non è stato difeso. Sono sempre stata scandalizzata da questa cosa. Mio padre, prima di ammalarsi definitivamente come è ora, era estremamente sofferente di questo e, siccome non amo fare discorsi astratti e cerco sempre di dire le cose attraverso la storia, è la prima volta che mi sono sentita, sia nel
romanzo che nel film, di fare un riferimento a qualcosa che a noi ci fa battere il cuore e che deve continuare così, perché nessuna generazione nasce come un fungo. E se vogliamo dirla tutta, prima di tutti ho messo Fellini, perché è il cinema. Fellini è il cinema perché fonda un sistema di racconto completamente adatto solo al cinema e racconta l’Italia, dunque non è mai ideologico, il suo è un cinema completamente libero e completamente anticonformista, oltre che un genio. Come dice Woody Allen se uno un Dio ce lo deve avere, lo mette là, poi chiaramente io sono una donna, che è una differenza importante. Tuttavia penso che questi registi che ho messo lì siano registi che tutti riteniamo ovviamente grandi, e con cui mi andava di aprire una cosa di sentimento”.
Nel film c’è l’inserimento di un brano musicale tratto da Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick. E’ un omaggio voluto?
“E’ una cosa complessa. E’ un pezzo di musica che è stato inserito sempre sotto al parlato. Con Fellini e Kubrick stiamo in buona compagnia e personalmente, contrariamente ad altri, il film Eyes Wide Shut l’ho apprezzato molto. Dopo aver sentito questa musica con la montatrice, l’abbiamo semplicemente ‘poggiata’. E non c’è stato verso di trovare un’altra cosa così. Nessuna altra cosa che avremmo potuto mettere, dava questa sensazione…”.
Questa è una storia dei giorni nostri o ha voluto imprimerle anche una valenza universale?
“Credo che la violenza sui bambini, nel senso di usare di un corpo piccolo sia una cosa che è sempre esistita, perché c’è una seduzione negativa del corpo giovane sulla persona adulta. E siccome in quel momento la persona adulta ha il potere, in particolare quando è un genitore, l’uso di questo potere è una cosa che dai tempi della pietra secondo me è sempre esistito. Anzi, probabilmente prima era norma. Anche oggi che crediamo di sapere tutto su queste cose, in realtà mi sono accorta, soprattutto dopo l’uscita del mio libro, quando sono stata sommersa da lettere, che non è così. Lettere molto struggenti di gente ormai diventata adulta che raccontavano queste cose che sono però border-line. Molto spesso non sono come nel film quello che noi possiamo chiamare una violenza chiara… Il gesto che infrange il codice dell’affetto, è un gesto che il piccolo non può capire…Queste cose sono importanti perché sono più diffuse di quanto non si immagini, perché esiste nell’essere umano. Esiste in ogni essere umano. Quello che cerca di dire il film, anche se ovviamente è inquietante, ma lo è anche per me, è che la cosa importante è conoscersi: sapere che dentro la tensione e la passione d’amore per un altro c’è tutto il bene e tutto il male del mondo. Perché si trasformare in un qualcosa che dà felicità o nella cosa che dà il dolore più grande che esiste, che ferisce per la vita. Penso che questo aspetto sia universale, pur avendo subito dei cambiamenti nel modo di essere vissuta. Non ci mette completamente a riparo neppure la cultura, anche se ovviamente la cultura è sempre importante… Il punto è comunque aprire gli occhi su questa cosa qua, andarci dentro e capirla nei suoi meandri più nascosti… Il momento in cui Maria (A. Finocchiaro) con Emilia (S. Rocca) guardano il momento in cui il marito dà il bacio sulla bocca giovane della ragazza e capisce che non è perché sia particolarmente bella ma perché ha questa seduzione del corpo da ragazza, che è un potere, perché la ragazza non sa le cose che sa l’adulto… D’altra parte non si potrebbe capire perché in guerra, in ogni guerra, i soldati abbiano stuprato le donne, e questo in qualsiasi Paese. Questo vuol dire che c’è comunque un’eccitazione nel farlo, altrimenti non potrebbero. Io mi sono sempre chiesta come può un uomo fare l’amore con una donna con soltanto la violenza come unico riferimento? E invece questo avviene, e la donna molto spesso era anche incinta. Tutto questo mima quello che poi viene fatto in un’altra situazione invece con passione, amore e rispetto. Dunque significa che nell’essere umano ci sono tutte e due le cose”.
Sappiamo che ci sono stati dei tagli importanti rispetto alla Director’s Cut: a cominciare ad esempio dalla sequenza delle acque:
“Di rimpianto rispetto a questi tagli ho molte scene sul cinema - che però ho messo nel DVD - e questo (la sequenza delle acque) l’ho tagliato perché usciva fuori dal registro del film. Ci sono dei momenti in cui non si può passare da una cosa ad un’altra; tagliare questa famosa scena dell’acqua che per me è bellissima… - ed è peraltro una scena che ha richiesto molto, sia di denaro che di tempo - non è stato facile. Però ho pensato questo: il film tratta di una cosa molto seria e usa un linguaggio cinematografico che sta attaccato alla dimensione umana e non si compiace di metafore, anche se c’è la parte ovviamente di incubo e angoscia, però è sempre riferito al personaggio. Lì c’era un compiacimento registico. Questa cosa della catarsi dell’acqua rischiava di diventare un po’ meccanica. Intanto c’era qualcosa di didascalico perché la protagonista perde le acque e agganciato a questo motivo c’era questo fiotto di acqua che entrava in tutte le stanze, sommergendo ogni personaggio della famiglia e la sequenza finiva con il bambino e la bambina abbracciati al padre che soccombeva sott’acqua. Era una sequenza psicoanalitica… una cosa un po’ facile, però siccome era cinema, aveva anche una parte di bellezza visiva, e dunque poteva andar bene. Tuttavia penso anche che si debba distinguere tra psicanalisi e cinema, il quale, a mio avviso, deve restare attaccato ai personaggi…Con quella sequenza il regista entrava dentro il film e faceva in modo che si provasse pena, compassione per la protagonista… inoltre era tutto un po’ troppo catartico, quel genere di ferita non può essere lavata via, uno può e deve andare avanti, ma quel che è successo in passato non è cancellabile, è semplicemente vivibile a fronte di questa nuova nascita. In questo modo, con l’arrivo del bambino, ognuno sente di poter far proprio questo sentimento. L’arrivo del bambino, con la violenza che ha il parto caccia il passato. Io non dovevo mostrare nulla, era un sentimento che veniva già raccolto dentro dopo aver visto il film”.
Il film apre un’interessante finestra-polemica sulla televisione, su un certo modo di farla, di raccontare televisivamente…:
“… Io sono stata molto incazzata con tutti ed è la ragione per cui ho mostrato il cinema grande, il cinema riuscito, e non solo perché a farlo erano dei grandi talenti, riuscito perchè era riconosciuto e apprezzato anche dal pubblico che amava tantissimo questi registi. Sono stata incazzata in silenzio per molto tempo, come molti di noi, perché finchè uno non dimostra di saper fare una cosa non deve parlare, e lo sono stata perché è un patrimonio gigantesco di drammaturgia, di capacità di mettere in scena, di attori, di tecnici, di teatri, che è stata buttata via, per essere soppiantata da cosa? Non da una televisione fantastica, come anche esiste… La fiction italiana ha preso giustamente a sostituire quella americana - da quel lato sembravamo veramente un paese totalmente colonizzato - ma è stata una stagione breve per poi riappiattirsi su quello che noi vediamo più spesso e che è l’avvilimento della messa in scena. E un regista ha il diritto di dirlo. Il nostro è anche un lavoro. Sì, uno deve avere un’ispirazione, del talento, ma c’è anche una pratica, un saper far le cose. E allora, vedere le cose fatte male fa incazzare… Il cinema è un’arte della perfezione, delle piccole cose che devono funzionare, del capire ad esempio perché un personaggio deve dire le cose in un certo modo. Per fare questo ci vuole un po’ di tempo anche. Non penso che la televisione sia un mostro a quattro zampe…penso però che potrebbe esser fatta diversamente e soprattutto che ha preso indebitamente il posto di tutte le altre forme d’arte, che non sono soltanto il cinema, ma anche la musica, il teatro, e tutto quanto e che noi come polli, non abbiamo resistito… Noi avevamo un’immagine nel mondo attraverso il cinema enorme… Dal momento che non mi piacciono le cose troppo ideologiche, trovo che un attore deve recitare, dunque se nasce in Italia non si può ammazzare, deve lavorare, dunque fa la televisione… (Nel film) è bello l’incontro dell’attore con il regista perché si cambiano un po’ a vicenda e alla fine l’attore è contento di avere dei soldi in banca. Come si può vietare a una persona un po’ di guadagno? Chi sta bene senza una lira? Dunque il lavoro si accetta salvo poi rendersi conto che è una tragedia; ma se uno è un attore o un regista non può star fuori dal gioco… deve accettarlo… Anche il teatro mi pare si trovi in una situazione abbastanza tragica… Penso che bisogna smetterla di dire e fare, fare nel senso di riempire di cose… il teatro deve prima di tutto esser scritto, bisogna scrivere dei testi, non saranno perfetti… in Ighilterra saranno più bravi, lo fanno da tanto tempo, però se intanto incomincimo di nuovo a riempire questi vuoti culturali nostrani e far sì che tornino ad essere una cosa viva, possiamo andare avanti… Personalmente ho nei miei piani di provarmi a scrivere un testo per il teatro… guardando a quel genere di commedia che unisce l’umano al folle….
Come ha scelto gli attori? E perché proprio Angela Finocchiaro per quel ruolo?
“Angela Finocchiaro è un genio, riesce in entrambi gli aspetti, fa ridere e piangere insieme… Io non sono mai venuta ai Festival perché facevo commedie… Ho dovuto fare un film serio per venire al festival però Angela era un’interprete naturale per me, perché ha la capacità di fare piangere e ridere, è un’attrice italiana e varia tra questi due registri. Comunque nel libro anche Maria (il personaggio di Angela Finocchiaro) è sarcastica, una donna diretta che dice le cose come stanno…Il film poi tiene anche la corda dell’ironia, perché questa è una cosa che in Italia dobbiamo fare e che invece non sappiamo fare”.
Il ruolo della cieca interpretato da Stefania Rocca esce un po’ dai canoni scontati del pietismo per portarci su un piano più reale e vero di come oggi queste persone vivono nella realtà.
“…Emilia (Stefania Rocca) è’ molto bella, non è un caso pietoso, è così seducente che penso che ogni donna potrebbe avere un attimo di tentennamento, perché lei non fa mai pena neppure per un attimo. E’ talmente forte e bella…!”.
Round Table: 2) GIOVANNA MEZZOGIORNO, LUIGI LO CASCIO, GIUSEPPE BATTISTON
Un personaggio profondamente doloroso soprattutto per se stessa quello di Giovanna Mezzogiorno, sofferto, se vogliamo anche molto introspettivo. Quanto è stato faticoso farlo? Non era certo una parte facile!
G. MEZZOGIORNO: “No, non era assolutamente una parte facile, però quando ho letto il libro di Cristina (Comencini) quello che mi è piaciuto di Sabina (il personaggio), è che non è una donna combattiva, non è una persona aggressiva, non ha un carattere particolarmente forte, non ha il coltello fra i denti, non lotta. Tutto sommato è una persona che si adegua, che si accontenta, ha una vita più che normale. In un passato ha avuto dei sogni che poi comunque ha abbandonato, ama il suo compagno e va bene così, non ha grilli per la testa, è veramente, come dire, un’acqua cheta. Ed è paradossale che proprio una persona così, come lei, che in fondo non cerca la rissa con la vita, non cerca una maniera per complicarsela, le accada questo fatto e riemerge questo avvenimento sconvolgente in qualche modo questa sua tranquillità. Quindi mi affascinava questa cosa che proprio a una persona con una natura come la sua avvenisse una cosa del genere. E’ chiaro che è stato un personaggio che ha implicato una grande concentrazione continua, anche perché il personaggio interagisce sempre con tutti gli altri, e quindi con ognuno c’è un rapporto particolare, con ognuno c’è un rapporto profondo ma diverso… E poi c’è una grande drammaticità, ma non melodramma, quindi anche in tutte le scene che sono state di sofferenza come la confessione, è stato mantenuto un tono che non tocca mai picchi di drammaticità fino a raggiungere il melodramma, per cui rimane tutto stranamente molto psicologico nel film, molto mentale. Non è un film d’azione, di cose che avvengono all’esterno, è un film di cose che avvengono dentro, quindi pur essendo una vicenda molto drammatica, il tono è soffuso, e questo andava comunicato anche con la recitazione, cioè evitando il tono plateale ed esteriore. Si è mantenuto un tono in qualche modo sempre controllato”.
L. LO CASCIO: “Sono molto d’accordo (con Giovanna Mezzogiorno). Direi che è un po’ quel che mi è successo leggendo il libro, la sceneggiatura e girando: è una commozione che non porta a manifestazioni eclatanti. E’ un film molto intimo. Sono manifestazioni che si approfondiscono dentro, cioè che creano delle risonanze interne molto forti. E anche rispetto alla recitazione, l’impulso fondamentale non era quello di manifestare all’esterno in maniera plateale il dolore… I fratelli guardano per lo più di fronte a sé…, raramente si guardano negli occhi, e lo fanno a livello mentale. Riescono a ottenere un legame, un’unione, proiettando su uno schermo comune - che è fatto dalla relazione tra le loro menti - la scena fondamentale del loro trauma e anche tutto ciò che questo ha comportato in futuro. C’è un modo di mettersi in relazione che passa per corde più profonde, addirittura più profonde che non lo sguardo”.
G. BATTISTON: “E’ un personaggio (il mio) che è molto contraddittorio, molto scorretto… che ha diverse contraddizioni ma le vive serenamente. E’ interessante perché… era abbastanza consapevole di quello che faceva, soprattutto il discorso sulle differenze tra cinema e televisione, dal punto di vista qualitativo del linguaggio. E infatti da questo gli nasce di nuovo il desiderio, la necessità di tornare ad esprimersi con un linguaggio cinematografico. Rispetto ai due fratelli, è un film molto complesso, che indaga su diversi aspetti dell’animo umano. Ad esempio ci sono due dimensioni del dolore, in Sabina e Daniele: la dimensione angosciosa di lei e quella del rancore di lui. In questo senso l’ho trovato un film molto pietoso, molto forte…Anche questi sono aspetti dell’animo umano che non ci piacciono ma che sono presenti in noi. Il desiderio di vendetta, questo rancore che resta…. (Riguardo alla scena dello stereotipo di recitazione televisiva, accolta da un applauso in sala e ad una scena tagliata)… C’è un dolore immenso. C’era una scena che poi è stata tagliata dove lui (il regista nella storia) spaccava tutto, cominciava a devastare il set, fendendo l’aria con i versi della tragedia greca, un delirio peraltro anche molto liberatorio”.
E’ un film questo pieno di delusione. E’ anche un film pessimista secondo voi?
L. LO CASCIO: “A me non sembra… Come diceva Battiston (il regista nel film) ‘Chi può pensare di essere al di fuori di eventi traumatici?’. Non credo ci sia il desiderio di lasciare un messaggio ottimistico o pessimistico. Però quello che succede innegabilmente nel film è che c’è un finale molto ottimista. Cioè, possiamo chiamarlo di speranza o uno spiraglio di possibilità di trasformazione, perché appunto, il mio personaggio, siccome finisce con il fermo immagine di un padre che abbraccia il figlio, se uno vede come è andato il film fino a quel momento, cioè che c’era un padre che aveva difficoltà addirittura a dar loro (ai propri bambini) il bacio della buonanotte e che improvvisamente invece accoglie tra le braccia il figlio… Il dolore che hanno provato questi due ragazzini - nella ragazzina più sommerso anche perché più lontano nel tempo, nel figlio del tipo che ha avuto invece uno svolgimento anche durante l’infanzia - si è iscritto nella carne di Daniele, cioè lo ha condizionato non soltanto nelle relazioni, ma proprio anche nel come sta in piedi, nella spina dorsale. Per esempio nel libro si dice - ma io spero che rimanga, sia altrettanto evidente anche nell’immagine - che Daniele non fa attività fisica. Daniele è tutto mentale, è un professore di letteratura… Il fatto di finire con una scena di boomerang, dove il corpo è in movimento - addirittura spicca un salto di svariati metri… - che finisca appunto in un prato all’aperto, col sole, con un sorriso e con una frase di voce (fuori campo) che è una lettera, in cui si dice appunto che si può tentare di ricostruire qualcosa a partire dalle cicatrici… - cioè che il dolore esiste, non si può eliminare - credo che sia qualche cosa che fa guardare in avanti, non so se in positivo o in negativo, ma sicuramente senza rimanere per forza inchiodati a qualcosa che ci delinea totalmente e per sempre”.
Questo ragazzo (il personaggio di Lo Cascio) affronta l’eutanasia per il padre… Personalmente come lo vede?
L. LO CASCIO: Distanasia più che eutanasia, nel senso che lui anziché dargli (al padre) una buona morte… (gli accresce le sofferenze)… Personalmente non ho un’idea (di condanna o di approvazione)… Credo che le opere che appartengono all’arte, al cinema, al teatro, non diano messaggi, non credo che siano delle ingiunzioni a fare qualcosa, ma che siano sempre rappresentazioni. Il fatto che questo particolare specifico uomo faccia questa scelta non significa che è un paradigma da adottare o, meccanicamente, la risultante di un processo di quello che è stata la sua vita fino a quel momento. Quando ho letto il libro la prima volta, prima ancora che si pensasse di fare il film… la cosa che mi ha colpito di più è il fatto che è fortemente legato alla tragedia greca. C’è nel film un legame che nel cinema non è indispensabile… ma che qui c’è e che a uno spettatore non improvvisato, non ingenuo, appare chiaro che un legame con certe tematiche esiste. Però il tema della vendetta è presente proprio nella tragedia che viene citata all’inizio del libro. Nella storia di Oreste ed Elettra c’è una storia di vendetta. Qua è rovesciato: cioè mentre nella tragedia vendicano il padre, qua la vendetta è contro il padre. Però, dico, nonostante il rovesciamento, il tema è quello: il rapporto con l’origine, col dolore, con sentimenti che sono difficile da acquietare, anche a distanza di tempo. Sembrava che fosse finita la vicenda col padre, invece, la decisione di sospendere la sua vita avviene proprio nell’ultimo fotogramma del loro rapporto. Per anni Daniele aveva sopportato, poi, di fronte a qualcosa che è l’eccesso, l’insopportabile, fa quella scelta non programmata, gli capita di reagire così. E’ una scelta personale che non mi sento di criticare, nel senso che come attore l’ho rappresentata e nell’economia di un’opera ha un significato”.
Com’è stato lavorare con una regista donna?
L. LO CASCIO: “Personalmente non faccio distinzione tra uomo e donna… Se poi un uomo e una donna abbiano accessi particolari alla realtà in generale, che c’è una scrittura al femminile e una al maschile, questo non lo so, ma io mi confronto come spettatore e come attore con un autore. E’ più forte in me la dimensione del rapporto che c’è tra un regista e un attore che non il fatto che sia un uomo o una donna. La Comencini, tra l’altro, fa sempre dei film corali e dunque ha una certa familiarità, consuetudine, sia con l’universo maschile che con quello femminile. Quindi in questo senso su me non ha nessun effetto”.
G. BATTISTON: “Dal mio punto di vista non ci conoscevamo (io e la Comencini) per cui ci siamo presi un tempo materiale proprio di studio reciproco. Ho scoperto una persona molto - non vorrei essere banale - molto intelligente, con il dono di saper ascoltare, di saper cambiare idea, cioè di confrontarsi. Questo mi ha aiutato molto perché non riesco come attore ad eseguire delle cose che mi vengono fatte vedere. Ho bisogno di partecipare alla creazione di quello che si sta facendo. Facendo delle proposte quindi, è quello che poi si è verificato e per me è stato davvero bello”.
G. MEZZOGIORNO: "Io invece trovo vi sia sempre qualche differenza tra la direzione di un uomo e quella di una donna. In questo particolare film, il fatto che l’autore fosse una donna è stato molto importante: primo perché abbiamo parlato molto del rapporto tra Sabina (il mio personaggio) e il suo compagno Franco (A. Boni). Un tipo di donna che non sono io, però che c’è, che in qualche modo rinuncia ai propri sogni, alle proprie aspirazioni per stare con il suo compagno, cui è veramente devota: lo ama senza stare a scavare, senza voler per forza tirare fuori problemi. E’ un tipo di amore molto comune, che sono capaci di dare molte donne, e che è anche invidiabile per certi aspetti. E poi ad esempio nell’ultima parte, in tutto quello che riguarda la parte di Sabina incinta, di questa gravidanza in cui nasce questo sentimento di voler andare via, di voler proteggere questo bambino, di volerlo portare lontano, dell’impossibilità di poter pensare ad un rapporto sessuale con il suo compagno dopo la nascita del bambino, questi in qualche modo sono tutti elementi profondamente legati all’universo femminile e che pure io non conosco perché non sono madre. Ecco, il fatto che lei (la Comencini) ci fosse e che, soprattutto nella parte finale, mi fosse molto vicina, è stato importante, soprattutto in quella lunga scena in treno… Penso che un uomo non avrebbe saputo aiutarmi così. Ecco, questo devo dirlo”.
Che cosa ha lei (G. Mezzogiorno) che non ha Sabina?
G. MEZZOGIORNO: “Beh! E’ molto complicato rispondere a questa domanda. Diciamo che io e Sabina siamo due persone estremamente diverse. Le invidio questa capacità di essere serena e di non stare, come dire, a scavare, a voler per forza trovare qualcosa che non va. Io sono molto meno tranquilla, sono molto meno serena. In qualche modo mi accontento meno e spesso sono insofferente. Abbiamo due caratteri diciamo opposti però devo dire che davvero le invidio questa sua personalità, perché in qualche modo Sabina probabilmente avrebbe anche avuto - se non fosse successa questa cosa - una vita molto normale, molto semplice, ma non è detto che la felicità si accompagni con le complicazioni… Diciamo che per quel che mi riguarda è difficile che stia comoda in poltrona, sto sempre seduta sul bordo della sedia”.
Round Table: 3) ANGELA FINOCCHIARO, ALESSIO BONI, FRANCESCA INAUDI
E’ un film molto serio, tutti i personaggi sono particolarmente seri, l’unica buffa è lei (la Finocchiaro). Come si è trovata?
A. FINOCCHIARO: “Mi sono trovata molto bene perché Cristina Comencini ha un modo di dirigere, di stare sul set, con una determinazione, una chiarezza di cui sono innamorata. E spezza anche dei momenti. Ha proprio delle visioni di come deve essere una scena: per esempio nella scena finale, quando siamo fuori dall’ospedale, io e Stefania (Rocca), lei fa questa dichiarazione d’amore, il fatto che la faccia nel vuoto completamente, è stata una cosa che Cristina (Comencini) ha voluto proprio per spezzare un languore, magari accentuato in un momento di dichiarazione, nel timore che diventasse tutto un po’ troppo dolce… E’ anche un po’ irriverente. E quindi io la amo perché lavora proprio con una situazione calata nel drammatico, però si può permettere di fare delle piccole punturine e spezzare con un cenno ironico che però non è mai lavorato per ottenere (il risultato voluto)… Si lavora contro alla battuta. Si lavora per stare attaccati alla propria situazione, ai propri dati - a quello che si ha in mano - che sono drammatici, però se lei inserisce un piccolo spostamento, subito cambia la prospettiva della scena. Per questo io mi sono proprio data completamente”.
Lei è l’unica che praticamente riesce a far interagire letteralmente un certo lato comico a una vena estremamente drammatica con una naturalezza invidiabile. Come è riuscita in questo? Si è preparata in maniera particolare, le è costato sforzo?
A. FINOCCHIARO: “Si, però diciamo che la struttura del personaggio lo consentiva. Questa Maria così dura, così ruvida, spigolosa, che dice le cose che pensa senza mediarle, di fatto o diventa insopportabile o può sforare in una sorta di ironia. Allora, se in qualche modo il personaggio si fonda bene, con una sua anima, (tutto funziona naturalmente)… Era richiesto che diventasse fastidiosa ma relativamente, anche perché poi il nostro rapporto è di due donne piuttosto spigolose che vengono a contatto. Anche lei (Stefania Rocca) dice quello che pensa. Quindi già da come è scritta, Maria, ha questi passaggi, dalla durezza che può appunto diventare ironica, a dei momenti invece di abbandono, dove piange se deve raccontare la sua storia. Menomale che bagna con quelle lacrime il cuore, perché sembra che arrivi con un cuore fatto di ruggine e quelle lacrime in pratica lo bagnano e si scioglie una situazione che poi porta alla riscoperta dell’amore”.
E Stefania Rocca come si è misurata con questo personaggio?:
S. ROCCA: “No, Non era facile. E’ stata una sfida ma a me piacciono le sfide. Da un lato, per pensare alla cecità ho mandato delle e-mail, mi sono iscritta a un centro per non vedenti, ho fatto per tre mesi la volontaria: ho parlato con la direttrice… questa persona in Francia mi ha risposto dicendomi che era meglio far la volontaria prima di lavorare con i ciechi, in maniera da cominciare a capire un minimo il loro codice. Quindi ho iniziato con i non vedenti, li andavo a prendere a casa… leggevo delle cose per loro. In realtà facevo tutto quello che Maria fa per Emilia, in qualche maniera. Tutto questo è stato importantissimo, interessante perché comunque mi ha dato la possibilità di vedere come loro si muovono nella vita, ho fatto questi corsi per utilizzare il bastone come fanno i bambini quando diventano ciechi, sono uscita con una cieca che mi guidava e io con gli occhi tappati. Mi sono chiusa per tre giorni gli occhi per capire come cambiava il senso del tempo al buio. Perché noi siamo abituati a mezzogiorno, all’una si mangia, loro ovviamente hanno un altro ritmo, la notte non esiste più. Poi mi sono resa conto che Emilia era anche la memoria di Sabina, quindi anche lavorando con quelli che diventano poi ciechi, mi sono accorta che in qualche maniera ci vedono, e vedono attraverso le loro immagini. Mi sono costruita come Emilia tutte le immagini che lei poteva avere nei confronti di Sabina, la sua infanzia, la sua memoria a livello di immagine. E questo è tutto il lavoro che ho fatto per la cecità. Per la sua omosessualità, invece, non volevo renderla la classica lesbica…anzi, volevo andare al contrario, e quindi ho cercato di farmi tutte quelle domande che io in realtà mi facevo. Cioè entravo nelle loro case e loro si muovevano in un modo tale da indurmi a pensare ‘loro ci vedono, mi stanno prendendo in giro’, e quindi queste cose le ho riportate in Emilia, e per l’altro versante, non volevo fare la ‘macho donna omosessuale’, forte e dura che si vede nei film, quindi ho lavorato su una fragilità, su un sentimento che mi ha suggerito la poetessa greca Saffo. C’era una poesia in cui si diceva che le cose vissute insieme aumentano il sentimento, e questo è stato un elemento centrale. Era questa poi l’ossessione che aveva Emilia nei confronti di Sabina. E poi ho seguito un percorso emotivo… lei (il suo personaggio) si chiude in casa perché ha paura della pietà degli altri, ha comunque un senso di vergogna del fatto di essere cieca, ed è anche una orgogliosa, che non ammette di aver bisogno di aiuto. E’ forse quella durezza che poi anche lei in realtà diminuisce nel momento in cui … arriva un’altra donna. E’ il momento in cui Sabina l’ha abbandonata e quindi piano piano anche lei scopre una leggerezza che è importante avere nella vita e che per esempio i ciechi quando lavoravo mi hanno subito trasmesso”.
Nella scena in cui tu operi (in riferimento ad un’interpretazione televisiva del personaggio Franco di Alessio Boni) c’è molto senso di autoironia. Abbiamo parlato della brutta fiction televisiva e del cinema. Cosa ne pensi?
A. BONI: “Che è tutto finto. Portare in fondo quella scena non è stato semplice perché ci veniva da morir da ridere. Non riuscivamo a finirla, con quelle battute, abbastanza assurde… Ogni attore che vuol fare l’attore, che viene dal teatro, o comunque dal cinema, che vuole fare bene il suo lavoro, con passione, con dedizione, sinceramente si distanzia dalla lunga serie, da un certo tipo di fiction, perché non riesce a farlo in un certo modo, è una catena di montaggio, non c’è quella seria serenità che ti può permettere magari il cinema, o comunque due puntate televisive che stanno diventando sempre più di qualità, o il teatro, che ti dà spazio nell’introspezione, la tua anima non si stanca, si arricchisce pian piano, poi c’è il sipario e c’è il debutto Questa è la grande differenza tra fiction e cinema. Quindi come corrono gli attori, come corre il direttore della fotografia o il regista, corrono anche gli sceneggiatori che scrivono a volte delle banalità perché purtroppo non hanno il tempo di guardare, di correggere, e questo appiattisce un po’ il tutto. Poi mettiamoci il momento di transizione in cui ci troviamo, la crisi che voi conoscete meglio di me, la televisione che imperversa molto di più rispetto al cinema, la corsa di tutto quanto, e il gioco è fatto. Tutto questo va a scapito sicuramente della qualità di un prodotto ancora artigianale come è appunto il cinema, e che per fortuna è ancora artigianato, con maestranze ecc. La fabbrica va bene per una scarpa che non è più cucita a mano, ma per il cinema no: per il cinema viene ancora il direttore che ti sposta un foglio nero per far arrivare un barlume di luce sull’occhio di un qualsiasi attore che, in quel momento si apre, e quello diventa un momento di grande intensità che crea una magìa. Quella è la magìa del cinema. Solo che ultimamente, come diceva Godard nei suoi ultimi tempi, ‘Non riesco più a fare cinema, faccio solo dei film’. Ultimamente fare del cinema veramente è difficile, si fanno dei film, per tutta una serie di cose”.
Quante volte hai accettato un ruolo, come il personaggio, per soldi e non per altro ?:
A. BONI: “Io non l’ho mai fatto per un discorso carrieristico… Anch’io ho fatto ‘Incantesimo’, lo sanno tutti quanti, ed è una ‘fiction’ molto simile a quella che interpreto poi all’interno di questo film. Anzi questo parallelo mi ha fatto molto ridere… Io credo che ogni attore abbia un percorso, sicuramente molto preciso e personale, poi ci sono delle situazioni nella vita che ti fanno accettare delle cose o meno… Era un momento particolarissimo per me quando ho accettato quel ruolo. Sono assolutamente legato a quel personaggio, tornassi indietro lo rifarei, perché mi ha dato tantissimo in dieci mesi di lavoro. Però farlo come lo volevo fare, con la concezione che ho sempre avuto del mestiere dell’attore è stato come fare il militare. Io dico sempre: ‘ho fatto due anni di militare, uno in polizia e uno lì’, perché non uscivi, tornavi a casa, studiavi, per sapere bene a memoria almeno 25/30 pagine ogni giorno. Non esci di casa. Quindi farlo decentemente è una cosa terribile, molto difficile, e diventa alle volte un po’ un tecnicismo mnemonico, il che esula dall’elargire quel sentimento umano di cui ha bisogno soprattutto l’interpretazione del personaggio nel cinema o nella televisione. E questo appiattisce molto, anche perché non hai proprio il tempo di metabolizzare… Ho fatto questo, ma dietro ci sono tre miliardi di proposte, non è per presunzione…, sono arrivato a miliardi di proposte di fiction ma non ho più fatto nulla di ciò. Non mi sentivo di rifare una cosa del genere perché non riuscivo a correre così. Non ce la faccio, sarà un mio limite, ma… è troppo una corsa contro il tempo e non riesci veramente a essere sereno, a fare una scena con tranquillità, parlare con il regista e dire la rifacciamo… Qui se esce bene o esce male si va comunque avanti, quindi è abbastanza terribile dal punto di vista lavorativo”.
Il suo sembra un ruolo un po’ più lineare degli altri:
A. BONI: “Beh, si. Secondo me questo è un film di memoria femminile, molto forte… che parte esclusivamente da un ricordo proprio di Sabina, ossessivo, che ripercorre i percorsi a ritroso e aggancia le memorie di Stefania, di Angela, di Maria ecc. Quindi un film corale, che diventa poi una confessione con il fratello… Uno che che ha fatto l’Accademia vorrebe fare teatro, cinema di qualità… la situazione attuale lo (il mio personaggio) porta a fare quella scelta, anche perché sono circa due anni che è frustrato, che non riesce a far nulla… lei è quella che porta i soldi a casa, anche lei fa l’attrice, ma accetta di fare doppiaggio, fa piccole parti in fiction, vive tranquillamente e serenamente in questo stato che io (il mio personaggio) non riesco a vivere. Pu tuttavia, in questo momento non posso fare a meno di dire di sì, decido, provo, anche perché mi convince un regista come quello interpretato da Giuseppe Battiston a provare quest’esperienza. E da qui c’è una piccola rinascita…, sì, direi che è abbastanza più lineare come personaggio, e comunque sicuramente quello che ha meno traumi mnemonici. Non si ritorna nella sua memoria, non c’è un passato che ritorna, che c’è, che incombe nel personaggio di Franco. E’ uno che ha delle crisi momentanee, come tutti gli attori, come tantissimi miei amici e che cerca di districarsi in queste difficoltà… E’ sicuramente quello che ha minori dicotomie interiori. Poi non tutte le persone, indipendentemente dal fatto che abbiano avuto delle botte o meno nella vita, devono necessariamente essere estremamente complesse, complicate, ma nello spaccato di questo film si”.
Voi avete fatto delle prove intorno a un tavolo. Vi siete incontrati e avete dato una lettura al copione tutti insieme. Quanto sono durate queste prove?
A. BONI: “Un solo giorno di letture, dopo Cristina (Comencini) ha parlato singolarmente con ognuno di noi… Credo che lei (la regista) avesse ben chiaro questo spartito. Avendo scritto il libro, aveva ben preciso quale carattere dare ad ognuno di noi… ”.
Interviene A. FINOCCHIARO:
“Comunque avere un libro alle spalle per un attore direi che è importante, facilita molto le cose, in qualsiasi momento puoi andare a riguardarti qualcosa, a rinfrescarti la memoria…”.
Interviene S. ROCCA: “Ci sono stati dei momenti ad esempio in cui noi abbiamo tirato fuori delle frasi, delle battute che magari in sceneggiatura non c’erano ma che ci ricordavamo dal libro… Diciamo che mentre la Comencini cercava di allontanarsi dal libro, noi l’abbiamo riportato in luce… Personalmente a livello psicologico ho preso molto dal libro per il mio personaggio…”
A. FINOCCHIARO: “La chiave di fondo è quella del ‘ricreare’. Io ho trovato per esempio che, dal momento in cui giravamo il film ad averlo visto, dalla sceneggiatura alla realizzazione, è ancora un’altra cosa. Cristina (Comencini) ‘ricrea’, per cui il libro, come dice lei stessa, lo ha dovuto in qualche modo tradire per ritrovarlo. Abbiamo letto una sceneggiatura ma quando io l’ho vista, di nuovo era qualcosa che non mi aspettavo, per cui lei ha ricreato ancora una volta. E’ tutto un materiale organico che continua a muoversi in divenire".
Interviene S. ROCCA: “Anche i rapporti che gli attori stessi ricreano sul set cambiano le cose… in qualche modo. E’ comunque sempre un work in progress”.
Ribatte A. FINOCCHIARO: “Infatti in questo senso Cristina (Comencini) ha preso dei rischi sulle alchimìe, perché le alchimìe tra tutti questi personaggi dovevano funzionare… In realtà le alchimìe sono centrali perché se i personaggi non si sposavano intimamente per quello che lei (Comencini) richiedeva, che era durissima… sarebbero stati guai… L’accoglienza positiva del pubblico ci ha confermato il genere di risultato finale ottenuto con questo film, di cui dunque possiamo ritenerci soddisfatti”.
(a cura di PATRIZIA FERRETTI)
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