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    L'INTERVISTA

    THE ARTIST - INTERVISTA al regista MICHEL HAZANAVICIUS (Parte 2)

    06/12/2011 - Il regista MICHEL HAZANAVICIUS parla diffusamente di THE ARTIST, il film con JEAN DUJARDIN e BERENICE BEJO in uscita il 7 dicembre a Roma e Milano, il 9 nelle città capozona e poi nel resto d'Italia. (SEGUE dalla Parte 1)

    E non si trattava solo di «girare a Hollywood», ma di girare nel cuore stesso di Hollywood, nelle strade di Warner e Paramount, un film che racconta la Hollywood degli anni '20 e '30...

    MICHEL HAZANAVICIUS: "Esatto e per una persona che ama il cinema, i sopralluoghi di questo film assomigliavano a un fantastico pacchetto vacanze! Abbiamo visitato gli studios, siamo andati negli uffici di Chaplin, nei teatri di posa dove ha girato 'LA FEBBRE DELL'ORO', 'LUCI DELLA CITTA'', ecc., abbiamo visitato l'ufficio di Harry Cohn e quello di Mack Sennett, gli studi di Douglas Fairbanks... È stato incredibile! Nel film, la casa dove abita Peppy è la casa di Mary Pickford, il letto in cui si sveglia George Valentin, è il letto di Mary Pickford. Ci siamo trovati in luoghi assolutamente mitici. Una volta che inizi a girare, ti immergi nel lavoro e l'aspetto fantastico inevitabilmente un po' si affievolisce. Tuttavia, abbiamo avuto frequenti lampi di lucidità e momenti in cui ci siamo detti: 'Comunque siamo a Hollywood!'. E per giunta con Dujardin. Jeannot a Hollywood! E per un film francese!".

    Qual è stata la reazione della comunità hollywoodiana?

    M. HAZANAVICIUS: "La sensazione era che fossero curiosi e al tempo stesso commossi. Innanzitutto, perché con il cinema francese hanno un rapporto un po' schizofrenico e nel famoso dibattito tra cinema-arte e cinema-industria, la Francia occupa un posto a parte. E poi per via della particolarità di questo progetto: un film muto, in bianco e nero, sulla storia di Hollywood. Abbiamo ricevuto moltissime visite e un sacco di telefonate e ci hanno raccontato tantissimi aneddoti che in alcuni casi non risalivano all'epoca del muto. Il padre di James Cromwell (che interpreta il maggiordomo di Valentin) si trasferì a Hollywood nel 1926 e prima di diventare regista iniziò a lavorare nel cinema scrivendo intertitoli per i film muti. Il fatto che parlassimo della loro memoria, della memoria dell'essenza della loro vita, li toccava profondamente. E poi, per persone che fanno cinema, realizzare oggi delle immagini in bianco e nero non è cosa da poco. Molto rapidamente, si sono tutti resi conto che era una straordinaria occasione di lavoro per ognuno dei reparti di lavorazione: scenografie, costumi, trucco, elettricisti...".

    Nella sua troupe c'era qualche attore americano – James Cromwell, John Goodman, Malcolm McDowell – e anche molti collaboratori americani – lo scenografo, il costumista, il primo aiuto regista, ecc. Come li ha scelti?

    M. HAZANAVICIUS: "Ho fatto dei casting, ho scelto alcune persone, ma ci sono anche state persone che hanno scelto il film. Per quanto riguarda le scenografie, negli Stati Uniti l'organizzazione è un po' diversa. C'è uno scenografo che cura la parte visiva e poi sceglie l'architetto di scena. Ho innanzitutto scritturato Larry Bennett, ma avevo già un'idea molto precisa di quello che volevo e siamo stati molto aiutati dai luoghi stessi in cui abbiamo scelto di girare. Mark Bridges è il creatore dei costumi di Paul Thomas Anderson. Un grande riferimento! È bravissimo e fa davvero impressione vederlo all'opera. Abbiamo iniziato la preparazione con una troupe piccolissima, fatta di tre o quattro persone, che è cresciuta man mano che ci avvicinavamo alle riprese. In fondo, Hollywood è molto piccola e oggi vi si girano soprattutto serie televisive. La voce si è sparsa in fretta e si sono entusiasmati tutti. Ben presto si sono presentate persone che avevano voglia di lavorare con noi, come il caposquadra elettricisti, Jim Planette, un ruolo importante nell'ingranaggio, perché è davvero il braccio destro del direttore della fotografia.
    Alcune persone del reparto macchine da presa si sono offerte di costruire degli speciali obiettivi e hanno tirato fuori dagli armadi dei vecchi proiettori. Il direttore del casting mi ha detto che Malcolm Mac Dowell voleva incontrarmi. Avevo da proporgli solo un piccolissimo ruolo, quasi una comparsata, ma lui era felicissimo! Con John Goodman ogni cosa si è definita molto rapidamente: gli ho mandato la sceneggiatura, lui l'ha letta e pochi giorni dopo abbiamo concordato tutto in tre minuti nell'ufficio del suo agente! Con James Cromwell, sono stato più che altro io a fare il provino. Gli è piaciuta la sceneggiatura e il progetto e ha chiesto di incontrarmi. Ci siamo visti, mi ha interrogato per un'ora e mezza, facendomi delle domande precise in un ordine preciso e poi pian piano abbiamo iniziato a capirci e ad apprezzarci, finché alla fine mi ha detto: 'Ok, I’ll be your lady!'".

    Jean Dujardin e Bérénice Béjo dicevano le battute anche se non le sentiamo?

    M. HAZANAVICIUS: "A volte sì e a volte no. Me le hanno chieste durante tutta la preparazione, ma io non volevo dargliele. Pensavo 'Sono attori, quindi lavoreranno sul testo' e, per questo progetto, non volevo assolutamente che lo facessero. Alla fine hanno lavorato su altre cose, di sicuro sul tip tap! Non abbiamo fatto la classica lettura, ma ovviamente abbiamo parlato molto dei personaggi, delle situazioni, delle sequenze, dello stile di recitazione, ecc... Ho cercato di rassicurarli sul fatto che non avrebbero dovuto recitare alla 'film muto' e che, se io non avevo cannato la sceneggiatura, non avrebbero dovuto recitare in modi particolari. Bérénice, che ha seguito il progetto fin dall'inizio, aveva sicuramente un numero maggiore di riferimenti, ma penso che per entrambi girare questo film sia stato un esercizio molto speciale. È come se si fossero trovati privi di punti di riferimento. Conosco bene Jean e so che riesce a calarsi subito in un personaggio quando ne imposta la voce. Qui non poteva ricorrere a questo espediente. Per molti attori, la voce è uno straordinario asso nella manica e loro si sono trovati a doverne fare improvvisamente a meno. Non avevano bisogno di preoccuparsi del fatto di essere intonati o stonati. E al tempo stesso dovevano astrarsi dal testo, che di solito è un supporto essenziale per esprimere emozioni e sentimenti. Qui, tutto doveva essere reso sul piano visivo, senza l'ausilio delle parole, dei sospiri, delle pause, delle intonazioni, di tutte quelle variazioni che abitualmente usano gli attori. Penso che il loro compito sia stato difficilissimo, poiché, più che mai, la loro recitazione ha realmente assunto significato nell'inquadratura, nel contesto di una scena che è stata montata solo in seguito. Fortunatamente, tra Jean, Bérénice e me, la fiducia è totale".

    Lavorare a un film muto e quindi soprattutto sull'emozione, ha modificato il vostro modo di concepire il vostro mestiere?

    M. HAZANAVICIUS: "È stato inevitabilmente un lavoro un po' diverso per tutti. Penso che l'aver lavorato con Nicole Garcia e Bertrand Blier avesse già un po' cambiato Jean, rendendolo più incline ad avventurarsi in territori più intimi, più profondi, più vulnerabili. Probabilmente ora si butta più facilmente senza una rete di protezione... Forse anche a causa della natura del film, Bérénice ha voluto prepararsi molto. Ha ingaggiato un coach, si è enormemente documentata, è andata alla Cinémathèque a vedere i film muti, ha letto molte biografie d'attrici. Poi non ha dovuto fare altro che dimenticare tutto quel lavoro e calarsi nel personaggio dall'interno. I primi giorni sul set, mentre giravamo alcune scene, è stato bello notare uno scatto e vedere all'improvviso comparire concretamente i personaggi. Per Bérénice è stata la scena al ristorante in cui Peppy Miller rilascia un'intervista e diventa consapevole del suo nuovo status di star. Si è lasciata completamente andare e ha provato un grande piacere nel farlo e a un tratto noi tutti abbiamo visto apparire il suo personaggio. Per Jean è stata la scena in cui George Valentin toglie le lenzuola che nascondono i suoi mobili che Peppy ha comprato all'asta. Durante quella scena era talmente trasfigurato che tutti i membri della troupe sul set hanno provato un vero brivido. Dopo, l'unica difficoltà per loro, come del resto per tutti noi, per me, per Guillaume (Schiffmann, il direttore della fotografia), è stata restare a quel livello così alto, mantenere quell'ambizione a lungo termine, durante le sette settimane di riprese. In sostanza, mantenere la promessa".

    Visto che le riprese erano mute, dava molte indicazioni tra un ciak e l'altro?

    M. HAZANAVICIUS: "Più che altro sul set ho potuto mettere la musica che ha avuto letteralmente l'effetto di trasportarli, al punto che alla fine non ne potevano più fare a meno! Mettevo principalmente musica hollywoodiana degli anni '40 - '50: Bernard Hermann, Max Steiner, Franz Waxman, ma anche Gershwin, Cole Porter... Ho quindi usato molto 'VIALE DEL TRAMONTO', ma sentivamo anche 'COME ERAVAMO' e persino le musiche composte da Philippe Sarde per 'L'AMANTE'. È una melodia magnifica e sapevo che Jean ha un rapporto particolare con quel tema. La prima volta che l'ho messa sul set, non l'ho avvertirlo sapendo che avrei suscitato una sua reazione durante la ripresa. E infatti così è stato. Ho fatto la stessa cosa con Bérénice per la scena in cui arriva in ospedale: le ho messo il tema di Laura, una melodia che adora. Credo che sia stato molto gratificante per entrambi. In altri momenti, ho messo uno dei primi temi composti da Ludovic Bource per il film. Recitare una scena a suon di musica è magnifico per trovare rapidamente il tono giusto. Per gli attori ha significato riuscire a relazionarsi con la recitazione in modo diverso, più sensibile, più intimo, più immediato. Per me è stato molto piacevole vederli sbocciare grazie alla musica. A volte, quando trovi il tema giusto per una determinata sequenza, le note sono molto più eloquenti di tutte le parole. Di fatto, con questo film mi sono reso conto che il discorso è indubbiamente un atto straordinario, ma è anche fondamentalmente riduttivo".

    Come ha detto lei, in un film muto tutto si basa, molto più del solito, sulla regia e sulla luce. Come definirebbe le sue scelte estetiche?

    M. HAZANAVICIUS: "In questo caso, la regia, le inquadrature, il montaggio non potevano che essere il proseguimento della sceneggiatura. Naturalmente, mi sono lasciato alcune porte aperte e mi sono preso tutte le libertà che ho voluto, ma prima avevo comunque fatto uno storyboard completo. Volevo essere sicuro che tutto potesse essere raccontato e fosse comprensibile. Non potevo compensare con i dialoghi. Mi piace comporre le inquadrature, mi piace definire ogni ripresa, mi piace che ogni inquadratura abbia un senso. Adoro giocare sui contrasti, sui grigi, sulle composizioni, sulle ombre, collocarli all'interno del quadro, trovare una scrittura visiva, dei codici, dei significanti. Racconto a me stesso un sacco di storie per metterle in scena e cercare di ricavarne una il più possibile coerente e rotonda e che dia l'impressione di essere semplicissima. Per quanto riguarda le luci, tra me e Guillaume (Schifmann) c'è più di una semplice collaborazione. 'THE ARTIST' è il terzo film che faccio con lui e abbiamo realizzato insieme anche degli spot pubblicitari, ci conosciamo molto bene. Appena ho avuto l'idea del film, l'ho informato e anche lui si è documentato moltissimo. Gli ho indicato molti film da guardare, è venuto alla Cinémathèque per vederli sul grande schermo, si è informato sulle tecniche, le macchine da presa, gli obiettivi dell'epoca. Ha quindi svolto un ruolo particolare nel processo, è stato una specie di sparring - partner, con in più la responsabilità tecnica della macchina da presa e della luce. Adoro il nostro modo di lavorare. Ad ogni modo, l'idea era la stessa per tutti: documentarsi, nutrirsi, comprendere a fondo le regole per poterle poi dimenticare meglio. Alla fine, quello che doveva prevalere era la chiarezza del racconto, la giustezza della situazione, l'impatto della scena".

    Secondo lei, qual'era il pericolo più grande di questo film?

    M. HAZANAVICIUS: "Quello che cerco sempre di evitare è di lasciarmi trasportare dall'umore del set, perché l'umore del set non ha nulla a che vedere con l'umore di un film. In questo caso, il pericolo era che la promessa del film era grande e noi non dovevamo essere da meno. Ci sono molti modi per non raggiungere un obiettivo che ci si prefigge. Un altro pericolo era, per non fare aspettare la troupe tre ore, per non perdere tempo, abdicare alle nostre esigenze e, per esempio, non ricostruire una scenografia che non funzionava o non dedicare abbastanza tempo a cercare un'altra idea quando ci rendevamo conto che quello che avevamo ipotizzato non funzionava fino in fondo, visto che in questo film l'immagine aveva un'importanza capitale dal momento che ogni dettaglio racconta qualcosa. Quindi i due pericoli più grandi erano il compiacimento e la svogliatezza".

    In un film muto, anche la musica ha un'importanza capitale. Come avete proceduto?

    M. HAZANAVICIUS: "Come al solito, mi sono rivolto a Ludovic Bource. Del resto era da tempo che gli parlavo della mia fantasia di realizzare un film muto! Abbiamo parlato molto. Appena ho iniziato a scrivere, gli ho dato i dischi che ascoltavo scrivendo, i brani degli autori che le ho citato prima: Waxman, Steiner, ecc. Lui è risalito anche ai musicisti a cui si erano ispirati
    (Prokofiev, Debussy, Ravel) e poi, dopo essersi documentato, ha fatto come gli altri: ha elaborato tutte le informazioni raccolte e si è messo al servizio della storia che dovevamo raccontare. Malgrado abbia composto alcuni temi prima dell'inizio delle riprese, ha avuto ancora più bisogno del solito di vedere le scene montate per riuscire a iniziare realmente a comporre. La nostra collaborazione è stata un po' più complessa che di consueto. In un film del genere, la musica è quasi onnipresente. Si tratta quindi di una musica piuttosto particolare, che deve soprattutto tener conto di tutti gli umori, ma anche di tutte le variazioni e le rotture, di tutti i conflitti e i cambi di direzione di ciascuna sequenza, sia per allontanarsi da essi, sia per accompagnarli. In ogni istante si impone una scelta, che è una scelta di sceneggiatura e come tale non può essere lasciata solo nelle mani del compositore! Ho quindi strutturato il film in blocchi narrativi indicando a Ludovic e ai suoi arrangiatori il tipo di umore che volevo e definendo i punti di corrispondenza tra la musica e le immagini che mi sembravano fondamentali e i momenti in cui al contrario mi sembrava che la musica dovesse allontanarsi dalla narrazione per non rischiare di diventare stancante o fastidiosa. Tutto questo ha necessariamente richiesto un confronto intenso e frequente tra loro e me. Non ho reso più facile il loro compito, ma hanno fatto un lavoro notevole".

    Di cosa è più orgoglioso?

    M. HAZANAVICIUS: "Innanzitutto del fatto che questo film esista! E che assomigli all'idea che avevo di esso. Trovo che sia un bell'oggetto, che mantenga la sua promessa".

    Secondo lei qual è il più grande pregio del produttore Thomas Langmann?

    M. HAZANAVICIUS: "Il fatto che non ha limiti: è pazzo e si dota dei mezzi per vivere la sua follia. È pieno di brio e lo semina ovunque. È sfrontato, tenace, rispettoso del lavoro e soprattutto ha una voglia di vedere un tipo di cinema che va al di là di qualsiasi cosa. Più che a un produttore, mi fa pensare a un principe fiorentino, a un mecenate. Lo adoro".

    Se dovesse conservare un solo momento di tutta questa avventura, quale sceglierebbe?

    M. HAZANAVICIUS: "Ce ne sono troppi. Il primo che mi viene in mente, è la festa di fine riprese. Abbiamo girato il film in 35 giorni, alla fine eravamo sfiniti, ma eravamo là, a Hollywood, un manipolo di francesi in mezzo agli americani, ma eravamo una squadra. E avevamo fatto il film che speravo. Mi piaceva il modo in cui ci guardavamo tutti quella sera, lo trovavo toccante. Ma ho vissuto molti momenti forti, moltissimi. E spero che non siano finiti!".

    LA REDAZIONE


     
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