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    Home Page > Ritratti in Celluloide > L'intervista > 67. Mostra del Cinema di Venezia: LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI - INTERVISTA al regista SAVERIO COSTANZO

    L'INTERVISTA

    67. Mostra del Cinema di Venezia: LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI - INTERVISTA al regista SAVERIO COSTANZO

    09/09/2010 - Come e perché ha deciso di dirigere un film tratto dal adattare libro di Paolo Giordano?

    SAVERIO COSTANZO: "E' stato il mio produttore Mario Gianani a farmelo leggere dopo averne acquistato i diritti per il cinema: mi è piaciuto, aveva i primi due capitoli molto forti, ma non posso dire di averne avuto un innamoramento a prima vista, una folgorazione. Stavo lavorando ad un altro progetto e una storia d’amore non mi sembrava esattamente ciò che desideravo raccontare in quel momento. Mi sono proposto come sceneggiatore e solo lavorando in profondità sulla storia di Paolo mi sono accorto quanto le prime due immagini del libro, l’incidente occorso ad Alice bambina sulla neve e l’abbandono della sorellina nel parco da parte del piccolo Mattia, riuscivano nell’impresa, direi miracolosa, di dare immagine al dolore originario dell’infanzia, alla ferita primaria che poi muove tutta l’esistenza di una persona.
    Nelle due immagini iniziali del romanzo c’era qualcosa di archetipico. Riguardavano tutti. Puoi non aver mai sciato oppure compiuto, pur di andare ad una festa, il gesto maldestro di lasciare per mezz’ora una bambina in un parco, ma quelle due immagini finivano col rappresentare qualcosa in cui chiunque si identifica. Ed è allora, sulla base di questa fascinazione, che mi sono appassionato.
    Da subito ho creduto che la trasposizione per il grande schermo si prestasse ad un iperbolico miscuglio di generi cinematografici. Alla fine, se sono costretto a darne una definizione, direi si tratta di un horror romantico incentrato sui sentimenti, sulla famiglia e sulla impossibile emancipazione della coppia".

    Che rapporto si è creato con Paolo Giordano?

    S. COSTANZO: "Per me Paolo è un uomo molto libero - e non è facile esserlo se si ha un successo di quel tipo alle spalle - ed è soprattutto un grande scrittore. Io so che questo sarà il suo mestiere, che non potrebbe fare altro, e che il suo primo romanzo non sarà certamente il suo migliore".

    Che contributo ha dato al vostro film?

    S. COSTANZO: "Mi ha sorpreso perché ha partecipato alla distruzione e alla ri-creazione del suo libro e della sua storia con la distanza di chi sa che non gli appartiene, che quella cosa fa parte della sua esistenza ma che non ne è la vita, con la consapevolezza e la distanza di chi sa di avere già altro nella testa e nel suo futuro. E’ molto facile convincersi delle propria grandezza o superiorità dopo un successo enorme ma lui non ha ceduto a questa vanità e credo ciò sia avvenuto perché ha ancora molto da dire e un suo mondo da esplorare. E’ un amico, una persona che rispetto come tale e non solo come collaboratore".

    Come avete lavorato alla sceneggiatura?

    S. COSTANZO: "Siamo partiti rispettando l’iter narrativo del romanzo. Abbiamo steso la storia con lo stesso incedere lineare del libro. In un secondo momento abbiamo sentito il bisogno di fare un passo ulteriore: distruggere e ricreare una nuova storia per consentire al lettore/spettatore di perdersi, di provare quello spaesamento necessario al cinema, a maggior ragione se la storia è conosciuta. In una settimana abbiamo fatto dei tagli di pancia. Abbiamo demolito la struttura originaria seguendo soltanto ciò che ci emozionava e sacrificandone il resto. In questa fase credo la sceneggiatura ha preso il volo.
    Ho voluto fin dal primo momento che Paolo lavorasse alla stesura del film con me poiché si trattava della sua storia ed io non volevo in nessun modo prevaricarla.
    Ma era comunque importante far perdere i riferimenti al lettore. Raccontare la stessa storia ma in una forma completamente diversa: l’intersecazione dei piani era l’unico modo che avevamo a disposizione per consegnare al lettore una nuova lettura del libro".

    Può farci un esempio?

    S. COSTANZO: "I due incidenti iniziali che aprono il romanzo (Alice cade sulla neve/Mattia abbandona la sorellina) se li avessimo riproposti al cinema in modo lineare, correvamo il grande, grandissimo rischio di ingannare lo spettatore, ammiccando ad una suspense superficiale e soprattutto portandolo a farsi un’unica domanda: la bambina muore? Il bambino ritroverà la sorella? Ecco, questo credo sia il rischio peggiore che corre il cinema: concentrare l’attenzione sul cosa accade e non sul perché quella cosa sta accadendo in quel momento di fronte ai tuoi occhi. Sono certo che lo spettatore intrattenuto da una suspense superficiale non conserverà niente di ciò che ha visto. Tu non hai avuto fiducia in lui, perché allora lui dovrebbe conservarti nella sua memoria ? Un film deve avere l’ambizione di rimanere “proiettato” nello spettatore fino a diventare immagine del suo inconscio e questo non avviene mentre lo fruisci ma molto dopo, nel tempo. Non so quale sia la ricetta. E’ un miracolo, e dei miracoli non credo neanche esista una ricetta. Ogni volta è diverso. Sono certo però che l’unico approccio possibile sia la purezza con cui fai le cose.
    Il gusto dominante è andare a vedere ciò che già si conosce. Un film tratto da un libro popolare ha di solito un discreto successo. Il pubblico si rassicura nella conoscenza della storia che vede al cinema. In questo modo però si perde il senso più profondo del cinema, che non deve rassicurare ma al contrario consegnare allo spettatore uno spaesamento, metterlo in discussione, fargli perdere il centro, la strada conosciuta.
    Nei confronti di un romanzo così popolare come quello di Paolo il compito era molto complicato perché una vicenda che tutti conoscono doveva diventare una nuova esperienza. Dovevamo permettere al lettore di assumere una nuova storia senza che si domandasse ogni due per tre: «dov’è questo personaggio? Dov’è questo fatto?» E dunque riuscire nell’impresa di modificare la storia a sua insaputa, evitandogli l’irritazione che lo porterebbe alla perdita di attenzione e perciò al distacco dal film".

    Come ha fatto?

    S. COSTANZO: "La fortuna di un romanzo come quello di Giordano, best seller da un milione e mezzo di copie con grande capacità di penetrazione, è anche stata merito di un titolo forte e di una copertina riuscita. Dunque, per avere la libertà di mutare la storia e renderla nuova al ai sensi del lettore/spettatore, abbiamo cercato di fare un lavoro sul colore verde della copertina dell’edizione Mondadori: il colore che l’inconscio del lettore associa al libro ritorna spesso nel film. In questo modo lo spettatore, pur trovandosi di fronte a qualcosa di diverso nella forma e nella sostanza, noterà una forte verosimiglianza con il materiale di partenza. La memoria di un best seller reperibile ovunque, tra le pile delle librerie come negli scaffali degli autogrill, è rappresentata dal volto ambiguo e inquieto di una ragazza che guarda 'qualcosa' tra le foglie di un cespuglio: Cosa guarda?
    Abbiamo usato questa domanda come architrave per costruire la nuova storia. Nel film il verde delle foglie che ritorna come elemento cromatico raggiunge il suo culmine quando Alice, all’apice del suo digiuno, trapassa il tempo attraversando un tunnel di foglie che la porta dalla sua casa nel 2007 a quella di Mattia nel 1984, la notte dell’abbandono della sorellina. La ragazza ritratta nella copertina sta guardando il dolore originario dell’uomo che la completerebbe. Sta guardando la sua assenza.
    Questa svolta non esiste nel libro ma rappresentando l’immagine della copertina il lettore/spettatore crederà di averla letta e perciò ne accetterà lo spaesamento e sarà capace di compiere la nuova lettura di una nuova storia e il libro ha così un corpo".

    Lei ha dichiarato che l’idea guida è la storia dei corpi di Alice e di Mattia e del loro stravolgimento nel corso di un ventennio. In che senso?

    S. COSTANZO: "Ho chiesto a Luca Marinelli e ad Alba Rohrwacher in primis, ma anche agli altri interpreti, di fare uno specifico lavoro sul corpo per due motivi: il primo è di ordine politico-filosofico, nel senso che il corpo credo sia oggi un forte elemento politico, e la sua distruzione è una rivoluzione che una persona è in grado di compiere dentro se stesso. Un modo per opporsi, per dire questo non mi sta bene. Il secondo motivo è di ordine squisitamente concreto - cosa che risulta essere più filosofica dell’assunto stesso - ovvero per poter rendere sullo schermo un passaggio di tempo che fosse credibile mi occorreva un cambiamento del corpo. Non sono un regista teso al racconto convenzionale, non amo il trucco e le parruccate del cinema, e avendo bisogno di qualcosa che suscitasse credibilità nello spettatore rispetto allo scorrere di 7 anni, i 10 chili in meno di Alice e i 15 in più di Mattia mi garantivano di rendere credibile un passaggio di tempo e di poterlo rendere secco e imprevisto. In più la metamorfosi di entrambi i personaggi principali consentiva agli attori di rimanere ancorati al film durante tutto l’arco della lavorazione e di poter compiere un percorso personale dentro a quello del loro personaggio".

    Che cosa capita dimagrendo 10 chili o guadagnandone 15, quanto si cambia, cosa si scopre di se stessi?

    S. COSTANZO: "Mi interessa più il percorso autentico dell’attore come persona che quello del personaggio che sta interpretando in quel momento. Per poter rendere le cose più attraenti, vere e sensate all'interno del gioco cinico del cinema il percorso da compiere deve essere reale. Questo per me è categorico. La cosa che mi rende più soddisfatto è quando un attore, o meglio una persona che fa di mestiere l’attore, riesce a compiere un'esperienza dentro il film non difendendosi dietro il suo personaggio ma mettendosi in gioco come persona".

    Come e perché ha scelto i suoi interpreti?

    S. COSTANZO: "Volevo due volti insoliti per il cinema, ma nonostante abbia cercato a lungo mi sono trovato a non poter prescindere da Alba. Ero combattuto perché la sua mi sembrava una scelta prevedibile: LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI e Alba Rohrwacher, e allora io cosa ci sto a fare? Questa domanda mi ossessionava. Ma poi, dopo averla sottoposta ad una serie di provini, ho capito che il film non poteva prescindere da lei.
    Alba non è un’attrice ma un’artista. Per me un attore deve “rischiare la vita”. Il tipo di interprete che ammiro e rispetto di più è quello che si mette in gioco completamente rischiando con fatica il proprio equilibrio fisico e mentale e Alba è mossa da un enorme fuoco artistico. La definirei una gigantessa che trasmette coraggio a chi le sta intorno: senza di lei sono certo il nostro film non esisterebbe, o quantomeno non in questa forma. Alba è del tutto consapevole del suo corpo e se riesce ad essere in un rapporto puro con ciò che sta facendo ti sorprende ogni volta. Mi piace perché non ha niente di intellettuale e il suo approccio al cinema è del tutto altruistico: non concentra mai l’attenzione solo su se stessa ma sul film dove abita il suo personaggio. In questo senso penso sia stata il mio vero compagno di viaggio".

    Come è andata invece con Luca Marinelli?

    S. COSTANZO: "Con lui è stato diciamo amore a prima vista. Mi era stato segnalato da un’amica che l’aveva visto recitare in un saggio di diploma dell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico . L’ho incontrato, gli ho fatto un provino e mi sono molto divertito perché Luca possiede un fenomenale e sottile senso dell’ironia di cui avevo bisogno per il personaggio. Nel libro Mattia è molto interiorizzato e Giordano con la letteratura racconta i suoi pensieri, ma io avevo bisogno di descriverne le azioni: non conosco la matematica, non credo molto nella rappresentazione della genialità e così ci siamo ancorati al suo senso di colpa immaginandolo come un eroe Dostoevskiano. Ci interessava di Mattia la sua colpa e quanto questa muova e determini la sua azione nel corso della storia. L’ironia di Luca poi ci ha consentito di alleggerire la portata tragica del personaggio.
    Marinelli è una persona con una presenza scenica fenomenale e con una faccia che non ti stanchi mai di guardare. Si è buttato con grande coraggio nella sua metamorfosi rischiando la vita appunto, come ogni uomo che fa di mestiere l’attore ha la responsabilità di fare. Lo ha fatto senza paura. E’ stato molto coraggioso".

    Come è nata l'idea di coinvolgere Isabella Rossellini nel ruolo della madre di Mattia?

    S. COSTANZO: "Ho pensato a lei dopo averla vista nel recente TWO LOVERS di James Gray dove l’ho trovata fenomenale nella capacità, nonostante un piccolo ruolo, di toccare corde molto diverse. Isabella ha nello sguardo la follia tipica di chi è pronto a tutto, di chi può sorprenderti da un momento all’altro. Non finirò mai di ringraziarla perché nonostante sia un’attrice con un bagaglio di esperienza enorme con noi si è messa in gioco completamente. Il 90 % del nostro film è improvvisato nei dialoghi e quelli di una scena molto importante che la riguardava sono stati inventati da lei una sera mentre eravamo a cena a Torino con altre persone. Parlava di Adele (il suo personaggio) e delle domande che le avrebbe voluto fare. La trovavo sublime e l’ho invitata a scriverli subito per poi riproporli in scena l’indomani, cosa che ha fatto incantando tutti. Ho trovato straordinario lo spirito materno e immediato che è stata in grado di trasmettere. Ha saputo lavorare su tre epoche diverse e ogni volta determinarle con piccole nuances. Mi ha colpito la generosità avuta verso di me, che rispetto ai registi con cui ha lavorato, non sono davvero nessuno… Quando è andata via dal set mi è mancata la sua presenza, è mancata a tutti".

    Quanto conta la musica nel film e perché?

    S. COSTANZO: "Con la musica abbiamo cercato di storicizzare le epoche e di fare in modo che la storia cambiasse tono attraverso le età che racconta: gli anni’80 seguono il suono di un sintetizzatore analogico, i suoni degli horror Carpenteriani, di De Palma; per gli anni’90 abbiamo usato un brano di Ennio Morricone tratto da L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento che accompagna la condizione emotiva, fredda e distaccata dell’adolescenza e la prima techno degli anni ‘89/’90.
    Nella parte della storia ambientata nel 2001, invece, ci siamo ispirati alla classica storia d’amore con lui che parte e lei che resta. Abbiamo scelto dei valzerini ed alcuni pezzi pop romantici molto riconoscibili ed espliciti nel racconto di una storia d’amore appunto.
    Nell’ultima parte, infine, la musica è il silenzio. Restano due corpi nudi e il silenzio, perché sostanzialmente non c’è più nulla da dire né musica da suonare".

    Il finale è diverso rispetto al libro?

    S. COSTANZO: "A me la matematica non interessa, non la capisco e dunque non avevo da dimostrare l’assunto per cui i numeri primi non si incontrano mai. Ritenevo poi un’ingiustizia ideologica la voluta eliminazione del lieto fine. Se, nella conclusione del libro, i due protagonisti si separano, nel film invece li lasciamo di fronte ad una presa di responsabilità. Nella scena finale del parco, quando Alice mette la mano sulla testa di Mattia, i due sembra diventino finalmente adulti prendendo coscienza del loro dolore.
    Ma, attenzione, non si tratta di un happy end, è il contrario. Se d’ora in poi finirà la fuga da se stessi, inizierà il mistero e l’avventura della coppia e la difficoltà di non replicare gli errori commessi dai propri genitori".

    Dal >Press-Book< La solitudine dei numeri primi


     
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