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    L'INTERVISTA

    Le chiavi di casa di Gianni Amelio - Press Conference & Dintorni

    27/09/2020 - Press Conference & Dintorni

    Le chiavi di casa (Regia: Gianni AMELIO)

    Gianni AMELIO, Kim ROSSI STUART, Charlotte RAMPLING, Andrea ROSSI

    NON UN FILM, PIUTTOSTO UN DOCUMENTARIO SU UNO SPACCATO DI ESPERIENZA VISSUTA, DOVE TUTTO RUOTA INTORNO AL GIOVANE DISABILE ANDREA E AL DOLOROSO RAMMARICO DI UN PADRE, TRA SENSI DI COLPA E SCARSA MATURITA’. ALLA BASE NON LA RICERCA DELLA VERITA’, DEL REALISMO, MA DEL LAPSUS

    Dopo sei anni di assenza, dalla 55a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, Leone d'Oro per Così ridevano, Gianni Amelio torna a Venezia con Le chiavi di casa, un film non film, uno spaccato di estrema verità quasi documentaristica intorno al giovane disabile Paolo (Andrea Rossi) e all’incontro con il padre Gianni (Kim Rossi Stuart), a distanza di quindici anni: “Il titolo Le chiavi di casa allude a quando i figli passano dall’infanzia all’adolescenza; e i genitori concedono loro di rientrare tardi la sera, di aprire la porta di casa senza bussare, di sentirsi grandi. E’ un titolo che a prima vista può sembrare spiazzante per un film come questo, che racconta dell’impossibilità di uscire dall’ambito paterno (o materno), di fare a meno della protezione degli adulti. Ma Paolo, il giovane protagonista, esibisce ‘le chiavi di casa’ come un trofeo, sogna che rappresentino la sua forza, anche se non può usarle, se ci deve essere sempre qualcun altro che apra la porta per lui”. Sottigliezze che fanno la differenza tra la normalità e la straordinarietà di un quotidiano che nello specifico del film diventa “la quotidianità del malessere”, con “il bisogno di sorridere, la necessità di non arrendersi”. Tra il novero di queste sottigliezze si colloca l’episodio del televisore spento che Gianni Amelio commenta così: “Penso che un no detto a un certo ragazzo in un certo momento, non fa male tanto al figlio, quanto al padre. Non sono dei no necessari per un genere di educazione standard. Gianni vorrebbe concedere al proprio figlio Paolo il mondo intero, ma non può”.
    Fatti veri nella maniera più diretta e realistica possibile?: “Volevo credere prima io a ciò che vedevo davanti alla m. d. p. - prosegue Amelio - Non si trattava di un fatto tecnico, ma di uno stato d’animo. Anche gli attori qui perdono la propria sicurezza come attori per imporsi all’attenzione semplicemente come esseri umani. Questo film va oltre la ricerca della verità, del realismo, è la ricerca del lapsus, di un qualcosa di molto distante dal precostituito, qualcosa di non pensato, che esce fuori automaticamente, e che è poi diventato la perla del film… E’ stata un’esperienza complessa che con Andrea ha trovato il suo stato di grazia, facendoci in pratica da guida durante le riprese e permettendomi di ‘guardarlo’, svelandomi i suoi pensieri”.
    Così Kim Rossi Stuart ha vissuto l’approccio al ruolo di padre nel film: “Ho cercato di arrivare a quella purezza, ricollegandomi, intessendo il tutto intorno alla purezza e alla verve inesauribile di Andrea”. E Charlotte Rampling, attratta dall’umanità del personaggio non come attrice, ma come esperienza di vita vissuta, parla dunque del film come di un’esperienza viva e diretta nei termini non già di “un film sulla finzione, bensì di una difficile avventura umana”, ovvero, “un film sulle relazioni umane, non sulle relazioni finte”. Questo è il perno della storia da cui Gianni Amelio non voleva che lo spettatore distogliesse lo sguardo: perciò ha scartato l’ambientazione di una città come Milano, dove si svolge invece la trama del libro Nati due volte di Giuseppe Pontiggia, cui è stato dedicato il film Le chiavi di casa, optando per Berlino e, in seconda istanza, per la Norvegia. A Berlino vi è l’ospedale in cui il ragazzo fa la terapia riabilitativa, sotto gli occhi ansiosi del padre, in cui spicca la scena con l’infermiera implacabile nello scandire ritmicamente l’esercizio da far eseguire al ragazzo, con il supporto fondamentale e strumentale della lingua tedesca, al significato profondo dei contenuti, rimarcati all’attenzione dello spettatore, in una verità estrema, appunto, quasi documentaristica, da una telecamera dentro le inquadrature che filma il ragazzo: “Volevo dare il senso della mancanza di appoggio quotidiano ai personaggi - spiega Amelio - L’incontro di un padre e di un figlio dopo 15 anni in un posto dove non potevano trovare né amici né parenti… Ho conosciuto Andrea molto tempo prima, e l’ho frequentato per otto mesi. Tutto quello che nel film sembra improvvisato, lo era da molto prima. Si è trattato di modellare il racconto sul protagonista. Amo molto l’aspetto documentaristico nei film di finzione. Non voglio dare agli attori dei colori, voglio scoprire quali sono i loro colori e poi adattarli al contesto filmico”. All’impressione manifestata da alcuni che Le chiavi di casa sia il film di Gianni Amelio meno dotato dal punto di vista dell’impatto sociale, in sotto tono o quasi inesistente, in quanto essenzialmente incentrato sul dolore del padre verso il figlio, risponde lo stesso regista: “Qui si sente una cosa molto precisa. Ogni volta che un adulto parla con un ragazzo, usa un tono un po’ affettato, lezioso… Quando ci si parla tra adulti, non ci si parla così. L’aspetto sociale non è sempre indispensabile. Qui non si voleva dare importanza al fatto di come il padre riesce a pagare l’ospedale, è l’intensità della relazione tra padre e figlio a regnare sovrana…”, magari proprio nei termini espressi in versi da un drammaturgo inglese, per cui “Il bambino è padre dell’uomo”. Infatti, come precisa sempre Amelio, “il padre nel film è un individuo di appena trent’anni, e a ragion veduta, se fosse stato un quarantene avrebbe già fatto scelte precise. Volevo invece che questo padre fosse immaturo e pieno di sensi di colpa”. Dopo Berlino, non poteva essere più opportuna la scelta della Norvegia per avviare la conclusione del film, offrendo la vista di “un paesaggio in grado di dominare la gente… una grande apertura sulla natura con una luce particolare per un impatto ad effetto quasi catartico”. Eppure, nonostante la sua esperienza, di fronte a questo film Gianni Amelio confessa di essersi sentito “… un debuttante, con tutte le ansie e l’entusiasmo che avevo girando i miei primi cortometraggi. Per fortuna qualcosa ho imparato negli anni e sapevo in che direzione andare. L’errore più grave sarebbe stato quello di assecondare il narcisismo della macchina da presa, cercare il pezzo di bravura. Ma questo è un film di personaggi, anzi di persone. Ogni mezzo è in funzione della loro verità”.

    (a cura di PATRIZIA FERRETTI)


     
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