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    L'INTERVISTA

    66 Mostra: Lido di Venezia 4 settembre 2009 MINI PRESS CONFERENCE & DINTORNI: IL CATTIVO TENENTE - ULTIMA CHIAMATA NEW ORLEANS di WERNER HERZOG

    05/09/2009 - Hotel Excelsior - Presente: NICOLAS CAGE (attore).


    In questo film si parla di ‘incanto del male’, lei cosa pensa umanamente del male? L’affascina, la disturba, la terrorizza?

    N. CAGE: “Io so che questa da parte vostra è un specie di reazione, o comunque è dovuto a quello che ha detto Werner (Herzog), ma io non l’ho detto questo e non lo dico. Io non ho scelto di avvicinarmi al film ed affrontare il personaggio partendo dall’idea che c’è qualcosa di male o comunque qualcosa di sbagliato. Quello che vi posso dire è che se voi mi chiedete se secondo me questo poliziotto è buono o cattivo, me lo potete anche chiedere, ma io non vi risponderò, perché il punto non è quello. E non si tratta di un remake, quanto piuttosto di una visione assolutamente originale: è un film esistenziale che dunque parla della vita. A volte le persone fanno delle cose che vengono definite cattive, sbagliate, e nonostante ciò, alla fine comunque vincono, vengono premiate. Abel Ferrara secondo me è un grandissimo regista, è una persona che io stimo, e Harvey Keitel è anche un grande amico, ma il loro film, pur essendo eccellente, è diverso da questo, perché è comunque un film che ha un’impostazione di tipo giudaico-cattolica. Il personaggio interpretato da Harvey Keitel è un personaggio che ha a che fare con il concetto di senso di colpa prettamente cattolico e con il discorso della redenzione, invece il mio personaggio, in questo film, non ha assolutamente alcun senso di colpa, non si tratta di questo. Quindi è interessante vedere che ci sono queste cose che vengono definite i suoi difetti che, in realtà, poi lo aiutano a risolvere il caso. E questo perché lui riesce a parlare la lingua dei criminali di strada, la lingua di coloro che spacciano droga e usano droga, e quindi questi difetti lo aiutano a risolvere questo caso. E poi, chi può giudicare una persona che soffre? Chi può dire che se uno è affetto da profondi dolori magari non fa ricorso ad analgesici o addirittura alla droga? Chi può giudicare ciò?”

    Una cosa interessante è anche la scelta delle armi che questo personaggio si porta in giro, perché tra tutte le possibilità che aveva ha optato per una Magnum 44 che non è, quel che si dice, la pistola più maneggevole che ci sia, soprattutto per un detective. Cosa pensa? Questa scelta serviva a rimarcare qualche tratto particolare del personaggio stesso?

    N. CAGE: “Quando ho cominciato a creare il personaggio ero interessato principalmente a due cose in particolare: innanzitutto il fatto di poter rendere ancora più efficace questo passaggio, questo cambiamento, cominciando a muovermi, in conseguenza dell’incidente, con la schiena piegata, un po’ storta, perché secondo me questo sarebbe stato un segno visivo evidente di questo incidente, avrebbe aggiunto qualcosa al personaggio, e anche la scelta dell’arma simboleggia in qualche modo una certa sua paranoia”.

    Complimenti per l’interpretazione che modula svariati stati d’animo in un modo veramente al di sopra delle righe. Ma tra tutte, c’è una sequenza che si è divertito a girare più di altre? Quella che magari può aver creato anche qualche momento di ilarità, di distensione sul set.

    N. CAGE: “I ricordi più divertenti sono stati soprattutto quelli quando mi trovavo con i vari attori di colore, perché non potevamo fare a meno di scoppiare a ridere e Werner (Herzog) se ne accorgeva perché ad esempio quando eravamo all’interno dell’auto questa si muoveva per le nostre risate e quelli sono stati indubbiamente i momenti migliori”.

    Quanto del suo amore per la ‘graphic novel’ ha trasferito nel suo personaggio? In alcuni momenti lei guarda nella m. d. p. con occhi spiritati, ricordando moltissimo non un personaggio in particolare ma un atteggiamento, una postura che riconduce ad alcuni eroi della ‘graphic novel’, tra cui ad esempio ‘Sin City’

    N. CAGE: “Innanzitutto devo dire di non aver visto ‘Sin City’. Per quello che riguarda questa sua affermazione, se questo è quello che lei ha percepito e recepito dal film mi va benissimo, è una cosa molto bella e interessante anche se non era esattamente ciò che io avevo in mente. Penso che in realtà di tutte le arti, le espressioni artistiche in genere, la musica sia forse quella più elevata, il massimo, e quindi quando io vado a guardare le mie interpretazioni dei personaggi, cerco sempre di collegarle alla musica, di pensare a quali possono essere i suoni che io posso emettere e quali possono essere i ritmi. Cerco dunque di prendere delle battute di dialogo e di capire come posso trasformarle in musica. E questa era anche la ragione per cui secondo me era molto importante fare un film a New Orleans. Oltretutto New Orleans è una città bellissima: è la culla del jazz che ha cambiato il mondo soprattutto con Louis Armstrong. Il mio modo di intendere il jazz … è il seguente: quello di riconoscere le tue battute, la tua musica così bene da poter essere in grado poi di staccarti dallo spartito, dalla pagina, e di poter improvvisare. Per questo la componente New Orleans era molto importante all’interno del film, perché questo era lo spirito del jazz, creato a New Orleans, che mi piaceva mettere… Io l’ho fatto questo, ho improvvisato con Eva (Mendes) sapendo che Werner (Herzog) avrebbe accettato e tollerato questo mio deviare dalla pagina scritta. Ed è stato estremamente importante. Secondo me la decisione di scegliere New Orleans è stata dettata dal fatto che, sebbene inscenato a Los Angeles, a causa di un’esperienza molto personale della quale però non voglio parlare, per me New Orleans è stata la città dove sono rinato, dove mi si è aperta la mente e dove ho scoperto delle cose molto importanti, è il luogo dove ho avuto una specie di risveglio, ed ero terrorizzato e al tempo stesso incantato da questa città. Avevo paura di tornare a New Orleans a girare un film anche perché non sapevo che cosa sarebbe successo, ne ero terrorizzato ma mi attirava: poteva essere un disastro o una cosa fantastica, non sapevo cosa sarebbe stato ma per me è stata comunque una catarsi. New Orleans è una città storica che è stata colonizzata da francesi, spagnoli, africani, è un mix tale e molto potente, perché è un luogo con un’energia spirituale fortissima. Quindi volevo ambientare il film lì perché secondo me lo avrebbe permeato interamente, e credo che rappresenti il personaggio più forte della storia, anche rispetto al mio e a quello di Eva (Mendes)”.

    Nel film manca una dimensione religiosa, quindi manca una vera e propria catarsi del personaggio… Il suo personaggio che tipo di cambiamento subisce alla fine del film? Che cosa ha imparato dalle esperienze vissute?

    N. CAGE: “Io non ho parlato di un’assenza di dimensione religiosa. Ho parlato del fatto che nel film di Abel Ferrara c’era molto forte questo impianto, questa impostazione giudaico-cristiana che aveva a che fare moltissimo con il senso di colpa prettamente cattolico, e che poi è in un certo senso rappresentato dalle immagini del Crocifisso e della suora, e dal fatto che il personaggio di Harvey (Keitel) si pente dei suoi errori e dei suoi peccati, non ho detto però che in questo film non c’è una dimensione spirituale. Se uno la volesse andare a cercare, la potrebbe trovare ad esempio nella scena dei due seduti davanti all’acquario o nelle strade di New Orleans. Volendo cercare c’è: la città è molto importante. Ovviamente quello che posso dire è che non voglio parlare del cambiamento del personaggio, né posso dire nulla, perché, se lo facessi, andrei ad influenzare quelle che sono le vostre opinioni sul film e sul personaggio e il vostro modo di percepirlo. Perché il problema è che molto spesso le persone fanno cose che vengono definite o percepite come sbagliate, come grandissimi errori, eppure continuano ad aver successo, o comunque la fanno franca o vengono persino premiati per questo. Perciò riguardo al mio personaggio, non posso dirvi se è cambiato o meno: se secondo voi non è cambiato è perché questo è quello che avete percepito e perché questi non cambiando, la fa franca lo stesso”.

    A proposito della maggiore libertà interpretativa, lei ha avuto la fortuna e il talento di essere in due film Leaving Las Vegas e Bad Lieutenant con personaggi che si ritrovano a relazionarsi con città un po’ alla deriva, e allo stesso tempo due tipi diversi di dipendenze: all’alcol e alle droghe. Qual è stato l’aspetto più impegnativo e stimolante: il luogo o il rapporto con il tipo di dipendenza?

    N. CAGE: “I processi dei due film sono completamente diversi. Prima ho fatto riferimento alla musica e adesso invece voglio far riferimento alla pittura. Nell’interpretazione del primo film, Via da Las Vegas, ho cercato di approcciare il personaggio da un punto di vista quasi realistico: magari mi facevo un paio di bicchieri per cercare di capire come riuscire ad entrare nello stato d’animo e nell’atteggiamento del personaggio… perché con Ben volevo raggiungere un certo tipo di realismo, invece nel caso del cattivo tenente è stato molto diverso. Con questo film – praticamente erano circa cinque anni che non toccavo una bevanda alcolica – ho cercato di dare un’interpretazione che fosse più basata su un qualcosa di impressionistico, cercare di supportarmi con i ricordi, i paesaggi che avevo nella mia mente e di filtrarli con il mio corpo, cercando di trasmettere quello che la mia immaginazione mi diceva dovesse o potesse essere una dipendenza dalle droghe. Quindi ho cercato di farlo e mi sono sentito anche entusiasta e speranzoso che questo potesse dare risultati positivi. Le due città peraltro sono completamente diverse: Las Vegas è la città del deserto, New Orleans è la città delle paludi. C’è una grandissima differenza: Las Vegas dava e dà più la sensazione di sentirsi persi e di essere nel vuoto, mentre in quest’altro film la sensazione che hai è di cose che si stanno putrefacendo, di un qualcosa che comincia a decomporsi e questo elemento lo trovi nell’aria, nell’acqua, ovunque”.

    La spassosa scena in cui si fa la barba nell’angolo della camera a chi è venuta in mente, a lei o a Herzog? E a proposito della musica e dell’importanza che ha rivestito anche per lei e per il suo personaggio, ha suggerito lei qualche tema, magari riguardo alla colonna sonora del film? Ha contribuito in qualche modo personalmente anche su questo registro?

    N. CAGE: “Se volete posso fare una lunga lista di tutte queste cose: si, è stata mia la scelta di radermi nascosto dietro la porta, è stata mia la scelta del pistolone, e pure di tirarlo fuori e di puntarlo contro le signore ed è stata mia l’idea delle battute ‘voi siete la causa del motivo per cui questo paese sta andando alla rovina’ e ‘lei con tutta l’assistenza e la cura intensiva che riceve sta privando i suoi nipoti, la sua famiglia della sua eredità’ e cose di questo genere. All’inizio, devo dire che Werner Herzog non è che fosse proprio tanto entusiasta di queste mie proposte, poi però, una volta che le ha viste interpretare gli sono piaciute e ne è rimasto molto contento, così come un’altra scena che ho deciso di fare è quando sparo in aria per strada ed Herzog non era assolutamente d’accordo. Difatti non mancò di apostrofarmi: ‘ti rendi conto di quello che succede se spari per aria? Arrivano tutti i poliziotti in massa e ci ritroviamo circondati dalle forze dell’ordine’. E io gli ho risposto: ‘certo che me ne rendo conto, anche perché l’ho già fatto altre volte e non si è mai presentato nessuno… Mentre per quello che riguarda il mio contributo alla colonna sonora non ce n’è stato affatto. Quando io faccio riferimento alla musica lo faccio in un senso molto più astratto, intendo nei termini di processo creativo, non come specifici suggerimenti alla colonna sonora perché comunque non è mia responsabilità, non è il mio campo. La mia responsabilità è quella di creare il personaggio, di dargli forma, e quindi quello che ho cercato di portare sono le cose di cui vi ho parlato e Werner Herzog si è fidato di me. Ma la scelta dell’abito è di Werner, è lui che ha scelto quello che dovevo indossare”.

    Lei è un appassionato di acquari?... Che cosa trova di religioso nel guardare i pesci?

    N. CAGE: “I pesci sono divini, sono riusciti a sopravvivere al diluvio universale, non sono stati maledetti. Si, è vero, mi piacciono, adoro gli acquari e Werner (Herzog) poi l’ha messa quella scena alla fine del film. Credo che i pesci abbiano una loro dignità. Werner descrivendo il personaggio diceva ‘è come un maiale, lo lasci libero’ e io invece dicevo ‘no, secondo me il mio personaggio è come uno squalo, non riesce a star fermo’”.

    Come giudica ‘a posteriori’ la direzione degli attori da parte di Werner (Herzog)? Com’è stato il rapporto con lui?

    N. CAGE: “Devo dire innanzitutto che Werner (Herzog) è un professionista consumato, davvero un gran professionista, e una persona che ha anche fiducia in se stesso, sa come muoversi, e mi piace molto anche il fatto che magari riesce a girare un’intera scena in sequenza senza doversi interrompere o ripeterla centinaia e centinaia di volte, non ha bisogno di piazzare varie angolature della macchina da presa, non è necessario con lui ripetere la stessa cosa per cento volte: in una o due riprese riesce a realizzare e ottenere quello che vuole quindi si va avanti, anche perché sa esattamente e con precisione ciò che vuole. Quindi insieme abbiamo lavorato benissimo… Werner Herzog mi ha ricordato molto una mia bisnonna che proveniva dallo stesso paese da cui proviene lui: c’era qualcosa del suo accento che le assomigliava. Mi ha ricordato la stessa strana sensazione che avevo con la mia bisnonna: io non sempre la capivo quando mi parlava e pur volendole molto bene la cosa mi faceva sentire frustrato. In realtà amo molto i suoi film, mi piace lui ma a volte mi faceva sentire frustrato. Non che io non capissi il suo inglese perché lui l’inglese lo parla benissimo: linguisticamente parlando non capivo mia nonna, quando mi riferisco a lui invece, intendo che non sempre capivo il suo punto di vista. Però è stato un matrimonio che ha funzionato alla grande”.

    Lei vive un momento di grande prolificità cinematografica (gira quattro film l’anno). Com’è questo prendere e lasciare continuamente personaggi diversi: si sente uno stacanovista del set? Il suo amore per il set è in continuo crescendo?

    N. CAGE: “Ho un rapporto di odio-amore anche con la recitazione e ho la sensazione che questa mi abbia dato l’opportunità di prendere una negatività e trasformarla in un qualcosa di positivo. Avrebbe potuto essere una qualsiasi altra forma artistica ma si dà il caso che recitare sia la cosa che io so fare. Ovviamente sono una persona molto diversa rispetto a quello che ero quando ho cominciato a recitare. Ho iniziato a 15 anni, oggi ne ho 45, ho degli interessi molto diversi… e a un certo punto mi piacerebbe arrivare ad un tipo di vita contemplativa. Vorrei continuare per altri dieci o quindici anni e poi finalmente mettermi seduto a contemplare. Quello che non mi piace di questo mestiere è l’aspetto della vanità: il red carpet, l’esibizionismo, sono cose che mi rendono nervoso, che mi fanno sentire a disagio, quelle che sono in conflitto con ciò che io credo conti e che veramente sia importante per me. Anche perché penso che forse voi siete persone molto più interessanti di me… perché uno di se stesso può anche annoiarsi a morte ”.

    Lei ha parlato del fatto che non fa uso di droghe e che sono anni che non beve alcol. Ritiene che il fatto di essere sobrio sia stato utile ad affrontare questo personaggio - che invece sobrio non è perché ha delle dipendenze - piuttosto che avere la mente offuscata dalla droga o dall’alcol?

    N. CAGE: “Questa è l’eterna domanda che spesso ci si pone: ci sono alcuni tra i miei attori o pittori preferiti che seguono la strada dell’alcol e della droga… a volte si parla della possibilità di raggiungere certe cose solo attraverso questi passaggi, ma questa, appunto, è l’eterna domanda, perché ci sono artisti che bevono e che sono eccellenti nelle loro espressioni artistiche: Beethoven beveva quattro bottiglie di vino al giorno e la musica da lui scritta e creata è fantastica, anche se io credo che avrebbe potuto scriverla a prescindere dalle bottiglie di vino, perché secondo me non era da lì che veniva il suo talento, bensì veniva dal suo legame, dalla sua connessione con lo spirito”.

    (A cura di PATRIZIA FERRETTI)


     
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