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    L'INTERVISTA

    GLI AMICI DEL BAR MARGHERITA - INTERVISTA a PUPI AVATI

    29/03/2009 - PUPI AVATI: i sogni, gli scherzi e le avventure

    Che cosa le stava a cuore raccontare nel film “Gli amici del Bar Margherita”?

    "Questo film deriva da una necessità di raccontare la mia città ancora una volta al passato ma attraverso una luminosità ed una gioiosità dell’insieme che contraddicessero totalmente il clima struggente e doloroso del mio film precedente, Il papà di Giovanna. Riandando indietro anche solo di una cinquantina di anni ho ritrovato nella Bologna degli anni ’50, soprattutto nella cultura dei bar, un atteggiamento nell’interpretazione della vita da parte dei giovani di allora che oggi sarebbe considerato arcaico e deplorevole. Nel bar Margherita di via Saragozza - come io verificavo quotidianamente trovandosi dirimpetto a casa mia - i ragazzi di allora investivano la loro creatività nel più assoluto disimpegno e nel totale disinteresse degli adulti verso di loro. Ho messo insieme così una serie di suggestioni, che non riguardano solo me, ma un momento del Paese in cui le adolescenze erano spensierate e sperperate con disinvoltura e lo stupire e il divertire gli altri era un modo per dare senso alla vita. Le prime due pagine del lungo racconto che ho dedicato a quei personaggi così sopra le righe e a quel locale specificano in modo dettagliato, addirittura puntiglioso, le dodici regole comportamentali alle quali ognuno di loro doveva attenersi e che riassumevano tutto intero un mondo psicologico e culturale di una gioventù felicemente irresponsabile che oggi può apparirci incomprensibile e risibile, dove regnava il maschilismo e le donne erano viste solo come elemento perturbativo, oppure direttamente come mogli. Oggi è cambiato tutto. È cambiato il modo di essere giovani, ho la sensazione che si faccia di tutto per privare i nostri ragazzi della speranza e del senso di attesa, per renderli rinunciatari e
    per consegnare loro un mondo privo di prospettive, dove non c’è spazio per i sogni".

    Partendo dai ricordi reali si è anche abbandonato al piacere dell’invenzione?

    “Quella interpretazione della vita così ingenua non è certamente solo frutto della mia fantasia. È evidente che io abbia avvertito da subito la necessità di tenermi alla larga da tutti quelli che sono gli stereotipi dei vari bar sport che il cinema ha già ampiamente illustrato. Il mio bar Margherita è una sorta di Pantheon di campioni del mondo dell’innocenza, quel mondo che io adolescente guardavo aspirando il prima possibile di entrarne a far parte. I suoi avventori furono infatti gli eroi di quel tratto della mia vita e ancora un poco, se vado indietro nel tempo, lo sono rimasti. Mi è difficile oggi poter circoscrivere quanto del vero bar ci sia in questo mio film e quanta parte invece sia frutto della mia fantasia. Quanto insomma io abbia detto come era davvero o quanto avrei voluto che fosse stato".

    Come ha scelto i suoi attori?

    “Un’opportunità del genere mi ha permesso di ricorrere ad attori di famiglia (Diego Abatantuono, Neri Marcorè, Gianni Cavina, Katia Ricciarelli, Claudio Botosso) e ad altri interpreti che mi incuriosivano da tempo ma con i quali non avevo mai ancora lavorato (Luigi Lo Cascio, Fabio De Luigi, Laura Chiatti, Luisa Ranieri ed altri). Per ognuno di loro ho scritto un personaggio il più possibile aderente alle loro individualità e nel contempo “replica” di una porzione di quel microcosmo al quale ho tempo di ridare vita.”

    Che cosa si racconta in scena?

    “Nel 1954 l’Italia viveva il momento più sfolgorante e illusorio del suo boom economico, dall’imporsi della televisione al lancio delle prime utilitarie, al Festival di Sanremo, arrivando all’opportunità di acquistare quei famosi occhiali K attraverso i quali era possibile vedere le donne nude. Nel baluginio di questo momento storico si intrecciano i sogni e le avventure dei clienti del bar Margherita, in un’alternanza di scherzi ferocissimi che sempre e comunque l’amicizia sa rendere sopportabili. Come in ogni bar che si rispetti esisteva una gerarchia e così anche lì c’era un leader e quello di quell’anno era soprannominato Al (Abatantuono), misterioso e carismatico campione di biliardo in costante ed invidiata intimità con le sognate entraîneuse del night. C’era Manuelo (Lo Cascio), il conte erotomane che viveva di sfide e trasgressioni, come il paracadutarsi dalla Torre degli Asinelli o attraversare una strada della città su una Ardea Lancia, bendato e
    senza toccare il freno. E ancora: Bep (Marcorè), un tipo piuttosto imbranato con le donne che si innamora perdutamente dell’ entraîneuse Marcella (Chiatti), in realtà ingaggiata dagli amici perché lo seduca e lo salvi dal matrimonio con una ragazza loro non gradita; Gian (De Luigi), antennista aspirante cantante, il cui grande sogno è arrivare a Sanremo, che rimarrà vittima di uno scherzo atroce; l’inventore della cravatta con l’elastico, Zanchi (Botosso), proprietario del cravattificio Harem, dove lavorano solo donne che vengono scelte in base alla loro avvenenza e Sarti (Gianni Ippoliti) vestito giorno e notte con il suo smoking da campione di boogie-woogie. E poi c'era il diciassettenne Taddeo (Pierpaolo Zizzi) - che viveva con la madre (Ricciarelli) e il nonno ultraottantenne (Cavina), quest’ultimo presto conquistato dalle grazie di una sedicente procace maestra di pianoforte napoletana (Ranieri) disponibile per lezioni a domicilio un po’ troppo silenziose...”

    Sia in apertura di racconto che in chiusura si sottolinea il fatto che il giovane protagonista del film, Taddeo, una volta raggiunta l'opportunità di fare finalmente parte di quel gruppo di amici, nel momento della foto annuale di gruppo, e quindi della consacrazione di questa amicizia, si autoescluda . Perché?

    “Ho già premesso che il Taddeo che osserva gli eroi del bar Margherita sono io. Che mio è quello sguardo. Se alla fine di un così ambizioso progetto (quello di diventare a mia volta uno di loro) mi faccio da parte, se preferisco non essere incluso in quella foto ma piuttosto osservarla dall'esterno, non faccio altro che metaforizzare quello che fu il mio atteggiamento nei riguardi della mia città, della mia gente, dei miei amici. Quella dozzina di passi che il giovane protagonista fa per affiancarsi a chi sta fotografando il gruppo di amici non è altro che il percorso che io mia volta ho compiuto quando, per narrare la mia città, mi sono trasferito qui a Roma. Ponendo fra me e quei luoghi tanto amati uno spazio che mi permettesse di dirli, o piuttosto di inventarli di nuovo, nella più piena libertà immaginabile.”

    LA REDAZIONE

    Dal >Press-Book< de Gli amici del Bar Margherita


     
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