TI AMERO' SEMPRE - INTERVISTA allo scrittore e regista PHILIPPE CLAUDEL
28/01/2009 -
Claudel, lei ha ottenuto un grande successo con i suoi libri, che hanno ricevuto numerosi premi. Perché realizzare un film dopo tanti romanzi?
“Le immagini mi hanno sempre intrigato, sia che nascano da parole, fotogrammi o quadri (in un certo periodo della mia vita ho dipinto molto...). Amo approfondire la nostra visione del mondo attraverso le immagini, vi gettano nuova luce, la mettono in discussione con la loro presenza e la obbligano a riflettere su se stessa. Inoltre sono sempre stato un patito di film. Quando all'inizio degli anni Ottanta studiavo storia e letteratura all'Universita' di Nancy, ho realizzato diversi corti.
Io e i miei amici eravamo sempre davanti o dietro una cinepresa, di volta in volta come sceneggiatori, operatori, attori o montatori.
A quel tempo gia' scrivevo molto, ma nutrivo anche un sincero desiderio di creare e mostrare immagini. Ma il cinema e' ritornato nella mia vita solo nel 1999 grazie a Yves Angelo, che ho incontrato dopo la pubblicazione di Meuse l'oubli, il mio primo romanzo. Angelo mi chiese di lavorare con lui e la nostra prima collaborazione - la sceneggiatura di "Sur le bout des doigts" - divenne un film, da lui diretto e distribuito nel 2002. In seguito ho incontrato produttori che mi hanno chiesto di scrivere sceneggiature che pero' non sono mai state realizzate. Infine e' arrivata la grande avventura di "Le anime grigie": Yves voleva farne un film, io ne scrissi la sceneggiatura e lui fu cosi' gentile da coinvolgermi nel progetto, con la ricerca di location, il casting e le letture con gli attori... Angelo risveglio' in me il desiderio di avere un controllo maggiore su una mia creazione, fino alla fine. Ero come in attesa dell'occasione giusta e della storia adatta che mi avrebbe portato alla regia. Fare un film e' un processo molto complicato, che richiede molta energia, tempo e denaro: non e' possibile affrontarlo prendendolo sottogamba. E' piu' faticoso che scrivere. Per un romanzo scrivo quando mi pare e mi fermo quando voglio. Ma quando la macchina della produzione di un film si mette in moto, non puoi fermarla. Per poter sopportare tutto quello che comporta, e' necessario - ma parlo solo per me - poter contare su un soggetto profondamente radicato dentro di se', cosi' da mantenere intatto il desiderio e l'urgenza di raccontarlo. E questo, fortunatamente, e’ cio' che e’ successo con questa storia”.
Perché ha ritenuto di non doverne fare un romanzo?
“Nella mia mente c'e’ sempre stata una netta divisione. Quando dentro di me affiorano i frammenti di una storia, so immediatamente se e’ destinata a diventare un film o un romanzo. Non so davvero come spiegarlo, ma non ho mai la minima esitazione in proposito. A volte alcuni produttori mi hanno chiesto di trasformare in romanzo le storie dei film che non erano stati prodotti, ma mi sono sempre rifiutato di farlo. Non ne sarei capace e non mi interessa neppure. Ma questo non vuole dire che al cinema non utilizzo le mie qualita' di romanziere: cosi' come per i miei libri, per questo film il mio desiderio era di realizzare una pellicola in grado di raggiungere differenti tipi di pubblico. Alcuni vi vedranno la storia di due sorelle che cercano di riavvicinarsi, altri saranno piu' interessati alle tematiche carcerarie. Alcuni si concentreranno sulla storia di una donna che rinasce dalle proprie ceneri mentre altri vi vedranno la vita di una famiglia che deve fare i conti con segreti oscuri e inconfessati... Se ne puo' fare una lettura semplificata oppure una piu' cerebrale. Ho sempre amato quei libri o quei film destinati al grande pubblico, che non sono pensati per un solo tipo di audience. Non volevo rinchiudermi in un genere specifico ma piuttosto avvicinarmi alla complessita' della vita, che e’ qualcosa che mi ha sempre interessato. Volevo riprendere alcune persone colte in quei vuoti dell'esistenza che si trasformano in grandi felicita', volevo raccontare quella capacita' che hanno le persone di stare zitte e farsi del male, ma anche di scavalcare - avendo come unico credo la sincerita' e la verita' - quelle cose che potrebbero distruggerle”.
Da dove e’ partito? Dalla storia delle due sorelle - e il tema dell'isolamento e della rinascita e' emerso in seguito - o ha visualizzato tutto in una volta?
“Questa storia mi ha permesso di 'cristallizzare' certi singoli elementi, come l'isolamento o i segreti, che avevo gia' provato ad esplorare nei miei testi. In uno dei miei romanzi - Quelqes-uns des cents regrets, pubblicato nel 2000 - mi ero gia' concentrato su un segreto fra una madre e un figlio. Mi affascina l'idea delle vite invisibili, degli altri che non sono davvero quello che crediamo che siano oppure che non hanno fatto cio’ che noi riteniamo. Inoltre, sento particolarmente vicino il tema dell'isolamento: per undici anni ho insegnato in carcere. Infine, volevo scrivere una storia nella quale le donne fossero protagoniste. Amo le donne, mi affascina la loro forza, la loro capacita' di resistere e di rinascere, non importa quello che succede, di sostenerci e di adattarsi a noi, uomini miserabili che non siamo altro. E' un tema che mi ha sempre colpito. Mi sembra che gli uomini siano piu' proni a cedere, mentre le donne sono fatte di un'altra pasta. Ho immaginato la storia di queste due sorelle, Juliette e Léa, che la vita ha separato per quindici anni prima che potessero ritrovarsi. Il tutto ha preso corpo molto rapidamente, ho scritto una bozza del soggetto in un block notes quindi sono partito per la Lapponia. Lassu', d'inverno le notti sono infinite mentre il giorno non dura che due o tre ore. Era una condizione ideale per scrivere, e quando a gennaio sono tornato a casa avevo una sceneggiatura praticamente identica a quella finale. Tutti i pezzi erano li', tutti a posto quasi per intervento divino: era la prima volta che mi succedeva una cosa del genere. E non avrei passato un soggetto del genere a nessun altro. Era mio e solo mio, carne della mia carne, ne potevo visualizzare tutte le scene. Avevo gia' in mente idee molto precise sulle inquadrature, sull'illuminazione, sulle scenografie e sul suono....”.
Aveva anche le idee chiare anche sulle due protagoniste? Ad esempio, aveva gia' pensato a Kristin Scott Thomas?
“No, non subito, perlomeno non mentre scrivevo. Invece avevo pensato ad Elsa per il ruolo di Léa. La conoscevo un po' di persona, e volevo lavorare con lei. Potevo immaginare le sue potenzialita': ho sempre amato quel mix di gioia e di enorme fragilita' che riesce a trasmettere. Quanto a Kristin, e' un'attrice incredibile ma ritengo che il cinema francese l'abbia sempre usata al di sotto delle sue potenzialita'. Per questo le ho mandato il soggetto. Le e' piaciuto moltissimo e, cosa piu' importante, ha avuto il coraggio e l'intelligenza di calarsi nel ruolo di Juliette, il che non era davvero la cosa piu' istintiva. La prima volta che l'ho incontrata le ho detto che avrei voluto che sullo schermo apparisse meno attraente. So come e' facile in prigione andare lentamente a pezzi. I detenuti poco alla volta prendono il colore delle mura, sia dentro che fuori. Le mura diventano i loro vestiti, la loro pelle, la loro anima. E' molto difficile che qualcuno conservi la propria energia, la propria luce interiore e i propri desideri. Ed e' fondamentale mostrarlo. Come passo successivo ho messo grande attenzione nello scegliere il resto del cast. Volevo attori che non fossero ancora "consumati" dal cinema oppure dalla fama ma che avessero un grande talento e potessero dare credibilita' ai loro personaggi. Questa e' una fase del lavoro preparatorio che trovo davvero affascinante, mettere insieme un cast e' una pura magia! E' un lavoro che e' fatto di desideri e di miracoli, di speranze e impossibilita', di scelta e di fortuna”.
Non sono grandi star neppure tre attori - Serge Hazanavicius Laurent Grevill e Frédéric Pierrot - che invece hanno ruoli importanti nel film. Ma questo li rende piu' credibili....
“Laurent Grevill interpreta la parte di Michel: il suo carattere e' senza dubbio quello che maggiormente si avvicina al mio. Anche lui ha insegnato in prigione, proprio come me, e una volta si e' innamorato di una ragazza di cui aveva visto un doppione in un dipinto appeso nel Musée des Beaux-Arts di Nancy. E questa e' una storia che mi appartiene. Ma era importante che Laurent non avesse l'aspetto di un seduttore. Non volevo mettere davanti a Kristin un personaggio con l'aspetto di qualcuno nelle cui braccia lei sarebbe inevitabilmente finita. Volevo un attore in possesso di un fascino segreto, qualcuno che non fosse necessariamente "bello" al primo sguardo ma che anzi di primo acchito potesse persino sembrare sgradevole, salvo poi rivelarsi poco a poco, un uomo in grado di toccare le corde piu' segrete e che a sua volta si rivela una persona ferita dentro, proprio come Juliette. Cosi' tutti e due, poco alla volta, iniziano a ricostruire qualcosa, senza fretta. L'unico gesto di tenerezza fra loro due avviene quasi alla fine, quando lei mette una mano sulle sue spalle mentre escono dal museo. Quello che vediamo e' la nascita di una complicita' reciproca, fatta dall'unione delle rispettive esperienze e dalle rispettive lacerazioni. E sulla faccia di Laurent si leggono tanto le ferite che le promesse della vita”.
Lui e' anche l'unico di tutto il gruppo di amici che indovina subito il segreto di Juliette.
“Perché lei e' il tipo di donna che lui ha incontrato in prigione: anche lui appartiene a quella comunita' di uomini e donne che sono stati fatti a pezzi. Le anime perdute si riconoscono reciprocamente, credo. Allo stesso modo il personaggio del capitano Fauré, interpretato da Frédéric Pierrot, e’ in un certo senso il doppio di Juliette. Frédéric Pierrot e’ un attore dotato di grande umanita', e’ una bella persona ma anche un interprete con una forza fuori dal comune. Alle ragazze della post-produzione e’ bastato guardarlo sullo schermo per innamorarsi di lui. Fauré, come Juliette, rivela una umanita' lacerata. Il suo e’ senza dubbio uno dei personaggi che mi toccano maggiormente. Tutti i personaggi aiutano Juliette a ritornare dalla parte giusta della vita, le restituiscono la luce. Le insegnano nuovamente la fiducia e i gesti della felicita'. Ma Juliette non fa per Fauré quello che gli altri fanno per loro stessi. La loro relazione solleva la questione del bene e del male che - senza volerlo - possiamo fare a qualcuno, attraverso i gesti che facciamo o le parole che pronunciamo oppure no. A volte ci rendiamo conto di tutto questo solo dopo anni. Juliette non e’ colpevole di quello che succede a Fauré, ma potrebbe sentirsene responsabile, dal momento che non ha saputo come rispondergli al momento giusto. Sono molto vicini, uno e' il doppio dell'altro. L’approccio di Fauré e' toccante...”.
Ma anche impacciato…
“In parte, si' dal punto di vista dei sentimenti intimi, ma non nel rapporto umano di Fauré con Juliette. Diversamente da quanto il suo ruolo di poliziotto farebbe pensare, lui non la giudica mai. All'inizio gli altri non osano parlare oppure fare domande a Juliette. Inoltre alcuni di loro esprimono giudizi affrettati su di lei, il che e’ umano, in fondo. Quanto a Fauré, con Juliette lui si comporta normalmente , un po' come la piccola Lys, la figlia di Lea, che le fa quelle domande che gli altri non osano porle. Questa bambina in un certo senso e’la loro portavoce, anche se loro non hanno il coraggio di ammetterlo. Nella sua curiosita' insaziabile c'e' tutta la naturalezza e la spontaneita' dell'infanzia. Il che, peraltro, la rende in un certo senso piu' inquietante”.
E invece Luc, il marito di Elsa, interpretato da Serge Havanavicius?
“Davanti a Juliette lui reagisce come farebbe la maggior parte delle persone. Io stesso, in fondo, potrei avere la stessa reazione. All'inizio puo' sembrare piuttosto antipatico, ma bisogna mettersi nei suoi panni. Sua moglie gli chiede di portare a casa loro una sorella che lui non conosce affatto e che e' appena uscita di prigione dopo 15 anni. L'opinione di Luc e' la stessa che molte persone hanno verso quelli che escono di prigione: la si puo' comprendere, ma bisogna combatterla”.
All'inizio non e' chiaro se Luc ha un carattere odioso oppure se e' solo un atteggiamento che adotta davanti a Juliette.
“Attraverso Luc, Léa e i loro figli, volevo mettere in scena una sorta di "famiglia perfetta". All'inizio tutto sembra andare bene: sembra una coppia felice, hanno due figli adorabili, una bella casa, comoda, dove vivono con il padre di Luc, un anziano silenzioso ma sorridente, rassicurante, una sorta di roccia stabile alla quale la famiglia si aggrappa. In apparenza e’ una famiglia ideale. Ma poi, poco alla volta, ci si rende contro che le cose non stanno esattamente cosi'. E le cose non dette emergono quando Juliette arriva nelle loro vite. Si viene a formare una nuova coppia - Léa/Juliette - a scapito di quella originaria. Ci si accorge che marito e moglie in realta' non fanno piu' l'amore mentre Léa non fa che dedicarsi a quella sorella che la vita le aveva sottratto e che ora e' tornata. Quando lei e suo marito si baciano sulla bocca in mezzo alla strada si ha l'impressione che fra di loro sia rinato qualcosa. Sono due coppie – quella fra marito e moglie e quella delle due sorelle - che nel corso della storia si ritrovano sul piano della fiducia e dell'armonia. Ma perche' all’inizio e’ solo una parvenza di felicita'? La detenzione di Juliette e i tabu' familiari che l'hanno accompagnata hanno ridotto a pezzi la sorella minore, sia nella sua adolescenza che nella vita di donna, di moglie e di madre. Eppure, quando Juliette riappare tutto si rimette in moto, tutto cambia. Juliette si trasforma ma attraverso di lei anche il mondo che la circonda si evolve. E' un cambiamento lento che non potevo riprendere accelerando i tempi. A volte la vita e' lenta e si prende i suoi tempi. In questi casi il cinema deve adeguarsi a questa metamorfosi”.
Per questo il film e' costruito con piccole 'pennellate'...
“La storia e' raccontata con un tono volutamente impressionista, ho scritto la sceneggiatura proprio cosi'. Il montaggio quindi e' stato relativamente semplice, e' stato solo necessario qualche piccolo taglio, qualche aggiustamento e l'eliminazione di alcune scene che alla fine mi sembravano piuttosto superflue”.
Un lavoro adatto a un romanziere...
“Scrivo romanzi con lo spirito di un regista ma giro film come un romanziere. I lettori spesso mi dicono che i miei romanzi sono molto 'visivi'. In questo caso e' esattamente l'opposto, ho adattato tecniche narrative ad un racconto per immagini. Volevo che avesse quel ritmo, una particolare struttura con un tocco qui e la', un certo sviluppo della storia che procede piu' per contrapposizione che per progressione lineare. Volevo rimanere fermo sui volti e dare agli attori il tempo di rivelare le sfumature piu' intime del proprio personaggio. La scelta delle inquadrature e il ritmo del montaggio sono stati altrettanto fondamentali: sono stufo del cinema odierno 'sincopato', che ci bombarda con i montaggi ultra rapidi, con le sue immagini e i movimenti di camera in ogni direzione. Penso che sia importante tornare a imparare l'arte di aspettare, di avere pazienza e persino di guardare”.
Il volto di Kristin Scott Thomas e' impressionante. Esprime una quantita' di cose senza dire una parola. Eppure allo stesso tempo lei rimane segreta, misteriosa
“Kristin ha un grande talento ed allo stesso tempo e' cosi' che ho scritto il suo personaggio. C'e' stato un meraviglioso equilibrio fra il suo talento e il personaggio che doveva interpretare. Mi sono divertito a darle diverse indicazioni per la stessa scena: in questo modo ho ripreso del materiale differente per sfumature e intonazioni, che ho utilizzato in sala di montaggio, potendo contare su diverse interpretazioni per una sola scena. Ma anche Elsa e' sorprendente. L'imbarazzo che mostra, la finta allegria, il suo sorriso che continuamente rischia di crollare sotto la spinta delle lacrime. L'inquadratura e i movimenti della cinepresa cambiano anche in funzione dell'evoluzione dei personaggi: quello di Juliette, ad esempio, all'inizio e' bloccato in inquadrature strette, che la fermano, come in cella. In seguito invece le inquadrature si allargano come se lei tornasse in liberta'. All'inizio e per gran parte del film la cinepresa su Juliette e' fissa, insistente, mentre con gli altri e' piu' leggera e mobile. Per me quello che conta e' sfruttare anche - con pudore e una sorta di silenzio che da parte mia era una forma di educazione - il fatto che le due attrici, per ragioni diverse, si sentissero molto vicine ai personaggi che interpretavano. Mi sono reso conto che ognuno possiede un background di cui solo lui possiede le chiavi e conosce i segreti. Io non volevo conoscere quello delle mie attrici ma speravo che durante le riprese percorressero questo cammino intimo, utilizzandolo per costruire la loro interpretazione”.
Lei le ha anche trasformate fisicamente
“Era importante renderle persone vive, vere, semplici. Anche mostrando all'inizio del film l'effetto sul volto di Juliette di tutti gli anni passati in prigione, oppure disegnando il profilo di Léa come quello di una adolescente il cui sviluppo si e' fermato, che si e' rifiutata di crescere. Tutte e due hanno accettato queste trasformazioni, lavorando la maggior parte del tempo senza trucco”.
Ha dovuto modificare la sceneggiatura per spiegare l'accento inglese di Juliette? La sorella non ha quell'accento...
“Kristin mi ha chiesto se il suo accento non mi disturbasse. Le ho risposto che nessuno veniva infastidito quando Romy Schneider recitava nei film di Sautet, né il regista né gli spettatori. All'inizio nella storia non c'era niente che lo giustificasse, poi invece l'accento di Kristin mi ha aiutato a riscrivere una scena, quello del suo incontro con la madre, interpretata dall'attrice irlandese Claire Johnston, in una casa di riposo. In quel momento, quando la madre recupera la memoria, Juliette passa da una lingua all'altra: e' una scena che mi ha molto emozionato”.
In questo film lei esplora tutti i tipi di legami familiari, a iniziare dalla complicita' fra le sorelle...
“E soprattutto cerco di rispondere a una domanda, e’ possibile ricostruire un legame dopo una separazione cosi' lunga, soprattutto quando si e' stati cosi' vicini ma quando questa intimita' non esiste piu'? Come fare? é possibile ricominciare a parlarsi? E se una persona ha questo desiderio l'altra lo condividera’ davvero? Volevo raccontare questo legame intimo, fortissimo, fra due sorelle che la vita e le circostanze hanno allentato, quasi annullato, e tutti gli sforzi fatti dalla piu’ giovane per ricrearlo, dal momento che quanto accade alla sorella e' come se accadesse a lei stessa”.
Fra le due donne ci sono molte belle scene. Penso a quelle in cui si truccano come due adolescenti complici. Oppure quella in cui Juliette rimprovera alla sorella, quasi gridando, di non aver mai pensato a lei per tutti quegli anni. E Léa va a cercare le sue agende per provarle il contrario
“In generale avuto un immenso piacere a riprendere Kristin ed Elsa. Non mi sono innamorato delle mie attrici ma credo di essermi innamorato di quello che esse hanno creato sul set. Per tornare alla scena di cui parla, all'inizio avevo fatto un campo lungo, quindi una ripresa piu’ stretta sulle due sorelle. Ma non ero mai soddisfatto. Quindi ho pensato che dovevo firmare quel cassetto pieno di agende, che e’ in un certo senso una prigione del tempo e dei ricordi. Quindi la mano di Juliette sfoglia le agende, vede i giorni scorrerle davanti veloci, laddove in prigione sono stati interminabili. Tutti quegli anni alle sue spalle, alle nostre spalle”.
Lo spettatore scopre assieme a Juliette e Léa la relazione fra le due sorelle, e quanto fossero state infelici l'una senza l'altra
“I personaggi non hanno molto vantaggio sugli spettatori. Volevo che si sentissero al fianco dei personaggi e non a guardare un film”.
Lei parla anche di adozione, dal momento che le due bambine, Clélis ed Emélia, sono bambine adottate e vengono entrambe dal Vietnam
“Il tema del segreto e' presente a piu’ di un titolo in questo film. In questo caso piu’ che un segreto c’e' l'enigma delle origini. Inoltre volevo porre una serie di domande: che cos'e’ una famiglia? Come la si costruisce? Come si diventa genitori? E dal punto di vista dei bambini, chi sono i genitori? C'e’ anche l'ambiguita’ della confessione di Léa che a un certo punto afferma di non "aver voluto un bambino nel suo ventre". E’ chiaro che tutto questo rimanda al trauma creato dal gesto della sorella. Per interpretare le due bambine, ho scelto volontariamente due ragazze con una grande differenza di eta’ che riflette quella che separa Juliette e Léa. Dirigere la bambina piu’ grande non e’ stato difficile, si trova a suo agio sul set ed e’ molto naturale. La piu’ piccola e’ stata davvero un problema: e’ un amore, ma spesso faceva il contrario di quello che le si chiedeva. Abbiamo dovuto amarci tutti di pazienza, e di caramelle!”.
Una piccola parentesi a proposito dei loro nomi. Nel film sono gli stessi che tornano nei suoi romanzi, Clélis, Emélia...
“Da piccola mia figlia aveva dato il nome di Emélia a una delle sue bambole, e' un nome che ho sempre amato. C'e' una Emélia in "La Petite Fille de Monsier Linh" e un'altra in "Le rapport de Brodeck". E c'e’ una Clélis in "Les Ames Grises". Per nostra figlia io e mia moglie abbiamo esitato fra due nomi, e Clélis era uno dei due. E’ un vecchio nome francese”.
La madre delle sorelle e’ colpita dall'Alzheimer, il padre di Luc non puo’ parlare, in seguito ad un attacco cerebrale. Ha voluto toccare anche il tema della malattia?
“E’ chiaro che non volevo tracciare un catalogo esaustivo di infermita', ma la malattia e’ un tema che nella mia vita mi preoccupa abbastanza e che ho cercato di affrontare attraverso i diversi personaggi. Il film declina questa tematica in modi diversi e su temi differenti, la prigione e le sue conseguenze, ma anche la vecchiaia e l'Alzheimer, la solitudine del divorziato con il capitano Fauré, il rinchiudersi nel dolore mostrato dal personaggio di Michel, i segreti che non si ha il coraggio di rivelare e nei quali ci si rinchiude. Ma anche l'adolescenza, dal momento che Léa non e’ cresciuta, in un certo senso e’ sempre rimasta bloccata nella sua adolescenza”.
Quest'ossessione della reclusione sembra venire da quello che ha conosciuto nelle prigioni, vedendole dall'interno
“Non ho la pretesa di affermare di conoscere le prigioni. Diciamo che per una decina di anni, piu’ volte alla settimana mi sono recato in un carcere per tenervi delle lezioni, e questo ha modificato profondamente il mio essere ed il mio modo di vedere il mondo e la vita. Insegnavo in un ottimo liceo dove non c'era nessun problema, adoravo quello che facevo. Ma mi dicevo anche che sarei dovuto andare in luoghi meno visitati oppure li’ dove li avrei potuto essere piu’ utile. Nello stesso periodo facevo lezione in ospedale per i bambini malati. Piu' tardi ho insegnato per quattro anni in un istituto per bambini con handicap fisici, alcuni dei miei vecchi allievi si possono vedere in carrozzella mentre passano in una scena del film. Trovo che sia nostro dovere di uomini cercare di entrare nei luoghi dell’emarginazione per dare una mano ma anche per inglobarli dentro di noi”.
In tutto il film lei mostra una grande attenzione ai particolari, anche i piu’ piccoli, alle annotazioni realistiche, agli aneddoti pieni di humor
“Sono stato molto rigoroso nella messa in scena e nei personaggi, ma anche nella scelta degli elementi decoratici, dai vestiti al trucco, dalle pettinature alla forma e ai colori dell'abbigliamento. Ad esempio, ho chiesto a Kristin un lavoro di trasformazione fisica. All'inizio non e' truccata. Abbiamo lavorato sui suoi capelli, sugli accessori, sui dettagli piu' minuscoli per renderla credibile. All'uscita dal carcere, indossa un soprabito che riflette quella che era la sua vita precedente, e' troppo largo, dal momento che Juliette e' senza dubbio dimagrita, e' pesante e fuori moda. Per lei e' come un fardello. Juliette ha una tinta grigiastra, i suoi capelli sono stoppacciosi. Si mangia le unghie e ha sempre una sigaretta in bocca, mentre nella vita reale Kristin non fuma. Ho insistito molto su questo punto: non volevo che fingesse di fumare. Se il personaggio fuma, allora l'attore deve farlo davvero. Per lei ho scelto le peggiori sigarette, le piu' forti, ma anche un po' fuori moda, come il suo cappotto. Volevo che mostrasse del disgusto nel fumare, ma anche una chiara dipendenza. Ho fatto la stessa cosa con Elsa. Nella vita di tutti i giorni e’ una ragazza sempre molto elegante, che ama i vestiti e che li mette bene in evidenza. Io invece volevo distruggere questa immagine. Le ho fatto indossare abiti che non avrebbe mai pensato di portare. Alla costumista ho portato dei modelli ritagliati dai cataloghi della Redoute, Cyrillus, H&M, Monoprix. In questo modo ho creato una sorta di suo guardaroba ideale. Vedo troppi film in cui anche gli impiegati vestono Prada o in cui le case, anche le piu' modeste, sono ammobiliate con pezzi di designer che i personaggi non potrebbero permettersi. Dicevo ad Elsa: "Non dimenticare che Léa e' una ragazza che porta delle scarpe basse". Sara’ forse un dettaglio ma l'ha aiutata a trovare uno stile, a entrare nel personaggio. Le ho detto quale e' lo stipendio di una insegnante come Léa, o il salario di un ricercatore come Luc, suo marito. Sono persone che non possono comprare un guardaroba troppo grande o troppo caro. E lo stesso vale anche per gli altri personaggi: non ho lasciato niente al caso. Fauré, che vive da solo, indossa camice che ha comprato molto tempo fa e che egli stesso lava a 90 gradi e che non stira. Michel mostra una punta di eleganza ma indossa abiti all'altezza delle sue possibilita', non oltre”.
L'abitazione di Luc e Léa e' una vera casa di famiglia, piena di libri...
“Questa e’ una storia che volevo ambientare in provincia, non potevo immaginarla diversamente ne' girarla altrove. Il fatto che le riprese abbiano avuto luogo quasi interamente a Nancy per me era fondamentale. Ne andava della credibilita’ totale del progetto. Quanto alla casa, anche qui nessun dettaglio degli interni e’ stato lasciato al caso. Sui comodini cosi’ come nelle librerie ho messo libri che amo, dal momento il film rende omaggio ai libri, a quello che possono dare alle nostre vite. Non se ne vedono i titoli, ma io sapevo quali erano. Era importante, per il mondo che volevo creare. Il padre di Luc e Juliette sono uniti dai loro libri preferiti, come "Sylvie" di Nerval, che Juliette ha letto riletto in prigione. Sono stato anche molto attento alla costruzione dell'architettura nel film. Ci sono molti elementi in legno, che evocano le sbarre di una prigione, mentre dal tetto pende una catena come in una incisione di Piranesi. Inoltre ci sono forme rotonde e curve, soprattutto nella scena della piscina, che sembrano evocare un ritorno della dolcezza... Non tutti possono notare questi particolari, ma io so che ci sono. Quanto ai colori, si va dal grigio piombo a toni piu' leggeri, dalle tinte cupe a quelle piu' chiare. All'inizio ci sono atmosfere fredde, alla Hitchcock, che in seguito diventano piu' morbide e calde. Ne ho discusso a lungo con il direttore della fotografia, Jérome Alméras, e abbiamo deciso di dare 'vita' alle immagini man mano che il film procedeva. Lo stesso abbiamo deciso di fare con il suono e con il missaggio. La maggior parte delle sensazioni che si percepiscono appartengono a Juliette e tutti gli elementi devono testimoniare e accompagnare la sua rinascita interna. Sono stato anche molto attento ai corpi, al loro movimento e alla loro posizione, a come Juliette si riprende la propria fisicità, andando in piscina insieme alla sorella, a come riscopre il suo corpo e torna a mostrarlo, la stessa sensazione dell'acqua sulla pelle nuda è una delle espressioni di questa resurrezione e della liberta' ritrovata. Mi ha dato un enorme piacere lavorare sui particolari”.
Essendo cosi' concentrato, sul set non le e' sfuggito proprio niente...
“E' vero, sapevo esattamente cosa volevo e dovevo ottenerlo, ma senza essere eccessivamente rigido. La bellezza del cinema e' nel piacere di lavorare in un team. Tutto ha funzionato alla perfezione. Ognuno aveva un ruolo difficile da interpretare che richiedeva grande concentrazione, impegno e tensione. Ed anche io ero molto esigente. Avrei sopportato tutto per raggiungere il mio scopo. Ci sono stati momenti piu' difficili di altri - due mesi di vita insieme sono lunghi - ma sono stati pochi, molto pochi. Anche se nella vita di tutti i giorni sono un tipo accondiscendente, se mi fossi reso conto di esitazioni od ostacoli sarei diventato una furia. Sapevo che non era possibile rifare il film percio' ogni giorno volevo vedere sullo schermo esattamente cio' che avevo nella mia mente. E ci sono riuscito. Non c'e' stato un solo giorno in cui ho pensato "Oggi e' andata male!" e cio' mi ha reso felice, aiutandomi a sostenere la fatica, la tensione, lo stress e la solitudine del regista. I registi in effetti sono molto soli, nessuno al di fuori di te puo' capire quello che vuoi e quello che stai facendo”.
Come ha diretto le sue attrici?
“Abbiamo fatto insieme due letture. Con Elsa ho adottato un approccio molto 'tattile', la circondavo, la rassicuravo, le prendevo le mani fra le mie, la stringevo fra le braccia come un fratello maggiore. Credo che entrambi avessimo il bisogno di abbracciarci per capirci meglio, per trasmetterci l'un l'altro forza, brividi ed emozioni. Con Kristin e' stato un rapporto piu' intellettuale, ma non per questo meno intenso. Le ho consigliato alcuni libri da leggere, e sul set all'inizio componevo per lei una specie di haiku e le facevo avere alcune piccole annotazioni. Cose del tipo "Piu' tardi devi leggere questo, poco prima della tua scena". Oppure le trasmettevo delle sensazioni, tipo "una goccia cade su una pietra" oppure "guarda a un grande pozzo vuoto", cose cosi'. Poi ho smesso di scrivere queste note, non volevo diventasse un'abitudine, preferivo parlarle. Prima di girare una scena riflettevamo ad alta voce sulla sua interpretazione, su cosa ne pensasse. Sia Kristin che Elsa naturalmente hanno tirato fuori idee e suggerimenti: a volte li trovavo interessanti, a volte no”.
Avete girato seguendo i tempi del racconto?
“Era impossibile, per ragioni economiche. Solo l'ultima scena e' stata effettivamente girata alla fine. Volevo ottenere da Kristin quella violenza e quella frattura interna, quella emozione tangibile e i sentimenti che si possono ottenere solo quando si tira fuori qualcosa. Inoltre, volevo catturare la bellezza - un tempo devastata ma ora di nuovo tranquilla - di queste due donne. Avevo pensato alla scena finale proprio in questo modo, le sequenze concitate, la corsa per le scale, la distanza fra loro , l'esplosione e poi il ritorno della calma. Era essenziale riuscire a catturare tutto questo in poche riprese, cosi' poco prima di iniziare a girare ho cambiato il mio atteggiamento, in un certo senso per destabilizzare le due attrici e alzare la tensione a un livello che fosse percepibile nella scena. Piu' tardi mi sono concentrato di nuovo sui volti e la cinepresa ha potuto catturare la pace che poco alla volta ritorna fra le due donne”.
E' la prima volta che si vedono le lacrime...
“Abbiamo lavorato proprio su questo. Spesso, girando, ho voluto che Elsa trattenesse il pianto: possiamo quasi sentire che il suo personaggio e' pronto a scoppiare in lacrime. Kristin, invece, non piange mai fino alla fine: il suo personaggio ha sempre dovuto mostrare una forza incredibile. In 15 anni di carcere le lacrime le si sono inaridite dentro. Solo alla fine lei tradisce il dolore che ha dentro, quando finalmente riscopre la speranza, la fiducia e la vita, quando il suo cuore torna a battere. Nella sceneggiatura non c'era il ticchettio della pioggia sui vetri, che e' una metafora delle sue lacrime. Avevo pensato di girare in una casa con giardino, e volevo un'immagine piena di sole e di pioggia: in mente avevo una composizione di Debussy "Giardini nella pioggia". Ma la casa dove giravamo non aveva un giardino. Abbiamo cercato con gli effetti speciali di creare una pioggia "naturale" che fosse attraversata dai raggi del sole, ma quel giorno tutto congiurava contro di noi. Cosi', facendo sentire la pioggia che batteva sulle finestre, ci siamo convinti che poteva andare bene lo stesso”.
Quando sul set si respira una bella atmosfera vuol dire che c'e' un buon cast tecnico?
“Si', questo per me era un punto fondamentale. Sono stato cosi' fortunato da lavorare con persone che mi piacevano o che ho imparato ad apprezzare. Lo stesso vale per la preparazione del film: Yves Marmion e Brigitte Maccioni, i produttori, mi hanno dato grande fiducia e hanno sempre sostenuto il progetto. La loro presenza e la loro tranquillita' hanno avuto per me un effetto rassicurante. Quanto al cast tecnico, alcuni di loro li conoscevo da prima, mentre di altri conoscevo il talento ed ho imparato ad apprezzarne le qualita' umane. Il truccatore Gill Robillard, il parrucchiere Patrick Girault e la curatrice del guardaroba Jacqueline Bouchard mi hanno seguito nella mia ossessione per i dettagli. Il direttore della fotografia Jérome Alméras è al tempo stesso un caro amico e un complice prezioso mentre il responsabile del suono Pierre Lenoir e' un gentiluomo il cui talento e' pari alla sua discrezione. Lo scenografo Samuel Deshors ha sempre compreso perfettamente cio' che desideravo: una grande casa, molto vissuta, calda e confortevole. L'assistente regista Julien Zidi, che aveva un compito impegnativo e delicato, ha fatto un grande lavoro, proprio come tutti gli altri. Il gruppo della post-produzione poi mi ha seguito fino all'ultima fase della realizzazione del film. Virginia Bunting, la montatrice, e' una giovane che mi conosce bene e che e' riuscita a sopportare tutte le mie manie e la mia presenza continua, cosi' come il mio desiderio di perfezione. Non volevo lasciare niente al caso, né cedere alle mode o alle abitudini. Mi e' piaciuto mescolare gente di eta' diversa nel cast: c'erano tecnici di grande esperienza e giovani all'inizio della carriera. Le riprese sono anche servite a una dozzina di stagisti del Dipartimento di Cinematografia dell'Universita' di Nancy per fare esperienza. Tutti insieme abbiamo condiviso bei momenti di grande vicinanza e grandi risate. Volevo un set tranquillo, senza tensioni, e l'ho ottenuto”.
Cosa mi dice della musica? Ha un ruolo importante, da' il ritmo del film. A iniziare dalla musica sui titoli di testa, che si ispira a una canzoncina per bambini
“Volevo pezzi molto semplici, senza pianoforte, solo chitarra acustica e chiatarra elettrica. Jean Louis Albert, un artista che ammiro da tempo e un vecchio amico, ha creato melodie impregnate di poesia, una specie di musica della mente che accompagna l'evoluzione del carattere di Juliette. Ero certo che non mi avrebbe deluso: e' un uomo con lo spirito di un bambino e con una sensibilita' davvero rara, che ama le storie e le persone. Gli ho chiesto di venire sul set: e' arrivato con le sue chitarre e si e' immerso nell'atmosfera del film. Fra una ripresa e l'altra ha cantato per me una vecchia canzone "Quand reviendras-tu?", e' stato un momento magico e toccante. Ho capito subito che sarebbe stata la musica giusta per i titoli di coda. Per il resto del film Jean-Louis ha inciso un'ora di musica, mescolando variazioni sul tema di 'Alter Ego', un sua canzone che amo molto. Gli ho anche chiesto di rimettere le mani su alcune sue musiche originali e in particolare su una canzone inedita, "Je t'attends" che gli avevo sentito cantare in uno studio di registrazione. Inoltre si e' divertito a lavorare sulla ninna nanna "A la claire fontaine", una canzoncina che fa parte della nostra cultura. Quando cantiamo le parole "Ti ho sempre amato" tutti pensiamo subito "Non ti scordero' mai". Jean-Louis mi ha consegnato le musiche poco prima della fine delle riprese: gli avevo mostrato i giornalieri e frammenti di pre-montaggio cosi' che potesse lavorarci in parallelo. Per tutta l'estate, mentre montavo il film, spesso ascoltavo le sue musiche, di giorno come di notte. C'era una magnifica armonia fra la sua musica e le mie immagini. Ne ero deliziato”.
E' soddisfatto del risultato, del suo film?
“Alla fine, grazie a tutti quelli che hanno lavorato con me, ho ottenuto esattamente cio' che volevo: raccontare una storia forte ma sensibile, con una regia sobria e rigorosa, senza annoiare il pubblico, ma al tempo stesso facendolo riflettere. Una storia semplice e sincera, ottimista nonostante lo spunto tragico, che racconta della vita e di come alcune persone riscoprono la luce, l'amore e la comprensione reciproca. Spero che questo film aiuti le persone che lo vedranno ad avvicinarsi al proprio prossimo, ad accettare gli altri per quello che sono, senza giudicarli. Spero di aver fatto un film pieno di amore e di umanita', capace di trasmettere emozioni in grado di restare nel cuore degli spettatori, anche quando il sipario calera' sulle vite dei personaggi...”.
Dal >Press Book< di Ti amerò per sempre
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