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    L'INTERVISTA

    65 Mostra: Lido di Venezia 4 settembre 2008 PRESS CONFERENCE & DINTORNI: THE HURT LOCKER di KATHRYN BIGELOW

    04/09/2008 - Presenti in sala: KATHRYN BIGELOW (regista), JEREMY RENNER (Attore), ANTONY MACKIE (attore), BRIAN GERAGHTY (attore), MARK BOAL (sceneggiatore), GREG SHAPIRO (produttore)


    Kathryn Bigelow torna quest’anno alla Mostra con un film che è anche un ritratto ravvicinato e uno spaccato psicologico della guerra. Credo il primo film girato sul fronte dell’Iraq. Il film apre con una citazione scritta: “L’eccitazione della battaglia è spesso un’arma potente e letale. Perché la guerra è una droga”. Perché quell’incipit?

    K. BIGELOW: “La citazione ‘la guerra è una droga’ è stata presa da un giornalista del “New York Times” che ha vinto il Premio Pulitzer e ha scritto un libro - Le guerre devono per forza darci un significato - che parla della psicologia che è la stessa psicologia che Mark (Boal) osserva come giornalista coinvolto a Bagdad in Iraq nel 2003/2004. E’ una psicologia particolare che descrive un soldato volontario che sceglie di partecipare a questo conflitto e sceglie una situazione particolare come questa. E descrive questa attrazione che c’è. Ed è una psicologia importante che sottolinea il personaggio nella sceneggiatura”.

    Il ritratto che lei ha fatto dei soldati appare un po’ edulcorato: sono simpatici, hanno umanità, si preoccupano, ci pensano tre volte prima di sparare ad una potenziale minaccia. Non rischia in qualche modo di restituire un’immagine edulcorata del mestiere delle armi?

    K. BIGELOW: “ Non credo che il personaggio di Guy Pierce all’inizio le darebbe ragione…Credo che ci sia una grande tragedia insita in ogni guerra. Questa non fa eccezione. Quello che però volevo era di dare a questo conflitto un volto umano, permettere al pubblico di provare quello che i soldati provano su un’osservazione di prima mano, quella di Mark (Boal), riportata dall’Iraq. Questo è stato per me importante. Credo che ci sia accuratezza e realismo alla base di tutte le immagini”.

    Se ci fossero più donne al potere ci sarebbero meno guerre?

    K. BIGELOW: “Una buona domanda ma estremamente ipotetica. Non saprei neanche come cominciare a risponderle, a dir la verità. Non lo so. Spererei che fosse così. Spero che ci sia comunque un futuro davanti a noi in cui le guerre diventino obsolete, che siano sostituite dalla diplomazia”.

    Questo è il film più pieno di testosterone che lei abbia fatto. Può dirci come si è sentita a lavorare in questo ambiente così estremamente maschile e se ha pensato a qualche titolo? Ci sono stati altri film di guerra cui ha guardato e a cui si è ispirata o si è piuttosto ispirata ai documentari televisivi?

    K. BIGELOW: “Ci sono ben pochi esempi televisivi. Nel mio Paese se ne parla molto poco in televisione e questo è un altro motivo per cui ho voluto fare questo film. Devo dire una nota a piè pagina. Abbiamo un sound designer che è svedese… straordinario… forse potrebbe rispondere Mark (Boal). E’ importante che le risponda lui che c’è stato”.

    M. BOAL: “Molto della sceneggiatura si basa su osservazioni dirette, la mia esperienza in Iraq, o interviste ai soldati che sono stati lì ed è stato estremamente importante per Kathryn (Bigelow) essere stata il più realistica possibile, per fare un film che sia principalmente un film di osservazione, polemico. Se avessimo mostrato qualche fetta di guerra in modo accurato, avremmo raggiunto quello che volevamo raggiungere”.

    K. BIGELOW: “… E per aggiungere una riflessione su questa idea del testosterone, la sopravvivenza, il sopravvivere richiede una grande quantità di forza, di adrenalina. Ci troviamo di fronte a situazioni come queste ogni giorno. E’ un’opportunità per cercare di presentare qualcosa che sia il più autentico e accurato possibile”.

    Gli attori oggi sembrano più piccoli di quanto appaiano nel film: come vi siete preparati?

    J. RENNER: “Ci siamo tutti sforzati credo. Abbiamo dovuto fare una notevole preparazione mentale e fisica…Nessuno di noi poteva decidere di agire, quello che dovevamo fare era semplicemente reagire alla situazione che avevamo di fronte”.

    A. MACKIE: “L’idea della preparazione fisica? Non l’abbiamo neanche presa in considerazione, perché non sapevamo su cosa avremmo lavorato. Una volta che siamo scesi dall’aereo e abbiamo sentito il caldo, una volta in albergo e abbiamo cercato di metterci la divisa e di entrare nel carro armato e di guardar fuori dall’apertura del cannone, credo che l’esperienza sia arrivata improvvisamente. Kathryn (Bigelow) e noi abbiamo tutti sperimentato per la prima volta insieme. Abbiamo costruito la nostra esperienza insieme. In certi momenti non sapevamo neanche cosa stessimo facendo, cercavamo soltanto di vivere quell’istante così come’era”.

    B. GERAGHTLY: “Io invece mi sono allenato molto. Sono andato in palestra. Ho cercato di prepararmi: perché ho fatto davvero fatica ad arrampicarmi sul muro e a fare tutti gli esercizi richiesti. Ricordo che a un certo punto Kathryn mi ha fatto correre su e giù per ore e le ho chiesto in ginocchio di farmi smettere. Ci siamo in qualche modo preparati prima in California ed è stato positivo almeno dal punto di vista emotivo per me. Ho parlato con qualcuno che era stato lì che aveva perso amici e comandanti, è stata una preparazione più mentale che fisica”.

    Qual è stata per lei la sfida e la responsabilità rispetto ad altri precedenti tentativi di descrivere un mondo che noi conosciamo molto bene attraverso tantissime immagini? Forse non si conoscono i contenuti di quello che accade davvero, però dal punto di vista visivo tutti quanti abbiamo un’idea precisa di quanto accade in Iraq grazie ai rapporti ufficiali e da quello che vediamo su Internet. Qual è stata la sfida registica? Ha sentito la pressione di raccontare qualcosa che sta accadendo in questo momento

    K. BIGELOW: “Dovrei dire che dove vivo io non abbiamo questa conoscenza visiva. Non c’è una grande quantità di materiale disponibile, difatti recentemente c’è stato un articolo del “New York Times” in cui si riferiva che ci sono state 4.000 soldati uccisi in Iraq e sono state pubblicate meno di sei fotografie. Questo era l’articolo di tre settimane fa. E il giornalista ha ipotizzato che questo potesse essere il risultato di una censura, per una sorta di necessità di chiudere sulle notizie. Quindi secondo me questo è un film su una guerra che non viene coperta abbastanza, non viene esposta al pubblico. Per questo volevo parlare della guerra in base ad un’osservazione diretta. E’ per questo che ho agito in modo secondo me onesto”.

    M. BOAL: “Vorrei aggiungere che evidentemente quello che sentiamo in America è molto diverso da quello che sentite fuori dall’America. Il reportage è sempre meno frequente man mano che la guerra è andata avanti ma dovunque nel mondo, secondo me c’è stata una copertura molto esigua di questo tipo di guerra: quella degli artificieri. E gli artificieri sono molto molto importanti. Sappiamo che scoppiano le bombe, vediamo le foto sui giornali, sappiamo che ci sono tragedie ogni giorno a Bagdad. Ma quello che non sappiamo e sono rimasto sorpreso a saperlo io come giornalista, è che ci sono persone che cercano di affrontare questo: disinnescare le bombe. Quindi anche dal punto di vista psicologico era molto utile scoprire questo anche come giornalista. E’ un aspetto della storia che non è conosciuto dal pubblico”.

    Qual è la sua opinione riguardo al richiamo dei soldati dalla guerra? Riguardo poi ad altri film sull’Iraq o sul Vietnam, nessun film ha avuto successo. Cosa ne pensa di questa mancanza di successo dei film sulla guerra?

    K. BIGELOW: “Io sono soltanto un regista. E’ difficile per me commentare sul mercato cinematografico…Per quanto ne so io nessun altro film fa vedere la guerra come succede oggi, quindi secondo me c’è veramente una curiosità, una fame di verità. Questa necessità della verità forse alla fine vincerà…. Riguardo al ritiro dei soldati mi auguro che si verifichi presto. E forse con il cambio dell’amministrazione sarà possibile. Soltanto un uomo è capace di fare questo: Baraci Obama”.

    G. SHAPIRO: “E’ un mercato molto difficile per i film sulla guerra in Iraq. Non c’è un grande appetito per questo, per un sacco di motivi. Forse c’è una saturazione, non so. Ma per la Seconda Guerra, ci sono stati molti film che sono usciti durante la guerra. Per la guerra del Vietnam i film sono usciti dopo, per adesso non c’è molto desiderio di vedere film sull’Iraq. Ma forse questo è un film che offre un punto di vista un po’ più fresco. Forse questo creerà un trend, una tendenza. Aggiungerei che l’opinione pubblica in America sta cambiando. Mi ricordo quando l’anno scorso è stato presentato Nella valle di Elah. Vedere la differenza dell’opinione americana da quel momento dell’uscita ad adesso… Adesso vediamo un cambiamento: c’è il sentimento che c’è bisogno della verità. Anche George Bush parla di questo e un anno fa questo era impensabile. Quindi veramente i tempi stanno cambiando”.

    La guerra è una droga o è causata piuttosto dalla disoccupazione e dalla disperazione che c’è? Magari è per questo motivo che tanti giovani vogliono andare in Iraq per guadagnare? E’ veramente una droga la guerra o si tratta della disoccupazione? Dove sta la verità?

    G. SHAPIRO: “Secondo me le due cose non si escludono reciprocamente. Secondo me si tratta di ambedue le cose”.

    K. BIGELOW: “Si, evidentemente sarei d’accordo. Però secondo me c’è un tipo di attrazione potenziale in un’esperienza estrema: sia che si tratti di una guerra o di scalare una montagna, di saltare dall’aereo senza paracadute. C’è questa attrattiva per un’esperienza al limite e questo viene complicato da un’economia che fornisce pochissime opportunità. Così quella di andare in guerra diventa un’opportunità. Quindi è un insieme di tante tante cose”.

    Qual è stata la reazione ad Hollywood? Hollywood che produce dei film sull’Iraq può risultare stridente. La gente vedeva il valore di ciò che facevate?

    K. BIGELOW: “Credo che comincino a rendersene conto adesso. Abbiamo una risposta davvero positiva. All’inizio c’era un po’ di trepidazione, so che c’erano alcuni membri del team tecnico che avremmo voluto portare che avevano paura. Ho cercato di dissipare quelle paure che avevano… Ha richiesto grande coraggio e comunque anche sulla base dei filmati che ci sono a disposizione, è un argomento importante per un regista. Quello che io ritengo è che è necessario essere più vicini possibile al conflitto reale”.

    E’ reale l’immagine di un artificiere che ha disinnescato oltre 873 bombe rimanendo vivo e dove ha potuto girare il suo film?

    M. BOAL: “Durante la sua preparazione Jeremy ha incontrato persone che hanno avuto questo tipo di esperienze: al ritmo di cento bombe alla settimana addirittura, durante il periodo di guerra, purtroppo. In Afghanistan i numeri erano forse ancora più elevati. Ecco perché nella sceneggiatura abbiamo cambiato le cifre. Avevamo dei tutors durante le riprese del film: il numero di bombe disinnescate erano forse non 800 ma 500, per rendere i luoghi di passaggio sicuri”.

    K. BIGELOW: “E c’è anche un rapporto del Pentagono di qualche anno fa che dice che 250.000 tonnellate di ordigni sono state rubate all’inizio dell’invasione e si è cercato di capire anche da quella cifra quanti luoghi sicuri, quanti ordigni avrebbero potuto essere distribuiti e poi disinnescati ogni giorno per anni. Quindi è un conflitto che ha tanti aspetti di inutilità secondo me”.

    In Che senso è diverso il conflitto in da questo?

    M. BOAL: “…C’è una grande differenza strutturale tra questo conflitto e quello in Vietnam. Una delle grandi differenze è la personalità dei militari, soprattutto si tratta di un esercito di volontari in questo caso, quindi una situazione del tutto diversa. Persone che scelgono di entrare nell’esercito e poi che scelgono uno scenario di guerra pericoloso. In Vietnam questa possibilità di scegliere non c’era. La psicologia è particolare, non è specifica di questa guerra, non è specifica dl Vietnam, non è specifica della prima o della seconda Guerra Mondiale. Il segreto della guerra è che per quanto sia orribile, ci sono uomini che sono in grado di trarre quanto di buono si può trarre da questo. E la sopravvivenza di molti dipende anche da loro”.

    L’inizio del film con quella ripresa del robot anche esplosivo presupponeva forse una ricerca sulle immagini molto più forte – e che avrebbe richiamato alla memoria le sue precedenti esperienze cinematografiche – invece lei ha preferito qui virare sull’indagine psicologica. Non ci sono molti momenti di sperimentazione dal punto di vista dell’immagine…

    K. BIGELOW: “Io non sarei d’accordo… C’è un certo realismo… Non deve essere una ‘piece stilizzata’ che ha troppo di estetico. Io voglio essere molto reale e immediata… quasi come una ‘fiction documentaristica’. Secondo me questo è lo stile o almeno credo che questo sia lo stile giusto per questo materiale e questo film”.

    (A cura di PATRIZIA FERRETTI)


     
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