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    L'INTERVISTA

    65 Mostra: Lido di Venezia 29 agosto 2008 ROUND TABLE & DINTORNI: THE BURNING PLAIN - IL CONFINE DELLA SOLITUDINE per la regia di GUILLERMO ARRIAGA (A cura di PATRIZIA FERRETTI)

    29/08/2008 - Lido di Venezia, 29 agosto 2008 - Hotel Des Bains, Sala Visconti -

    Presenti GUILLERMO ARRIAGA (regista), CHARLIZE THERON (attrice), JENNIFER LAWRENCE (attrice), JD PARDO (attore), JOSE MARIA YAZPIK (attore), JOAQUIM DE ALMEIDA (attore), WALTER PARKES (produttore), LAURIE MACDONALD (produttrice), EDUARDO CONSTANTINI (co-produttore)

    Il rapporto col mélo… C’è una linea sottile che sta tra il dramma, la tragedia e quella variante sul tema che può far scivolare il tutto nel melodramma. E’ questo il genere di storia che potrebbe portare a dei clichè. Come avete fatto a mantenere un equilibrio evitando eventuali ‘sbavature’?

    G. ARRIAGA: “Sono stato molto fortunato perché dall’età di dodici anni sono entrato in contatto con Sofocle e le tragedie greche… Facevo già il regista a scuola… Sono sempre stato attratto da questo tipo di lavoro. C’è sempre questa linea sottile tra la comicità, la felicità e la tragedia. E questo confine c’è anche in molti personaggi. Shakespeare è il migliore in questo genere di fusione. E questo confine c’è pure in molti dei miei personaggi… C’è sempre questa contraddizione e credo che proprio questa contraddizione faccia parte della vita di tutti i giorni. Noi tutti abbiamo dei momenti felici ed altri tristi… E quindi tutti questi elementi che fanno parte della vita io li metto anche nei personaggi dei miei film. Sono sempre stato attratto dagli estremi e dalla contraddizione che c’è in ognuno di noi e di loro”.

    C. THERON: “Io credo che sia sempre alquanto insidioso andare a chiedere ad un attore qual è il processo che l’ha portato a quella interpretazione, a quella particolare performance, perché è difficile da parte dell’attore cercare di esprimerlo a parole. E’ come chiedere ad un prestigiatore com’è che viene fuori il coniglio dal cappello. Se ti metti a descrivere i dettagli di questo processo, alla fine la magia va perduta e secondo me il cinema è magia. Ti devi rendere conto che è un dono che ti viene offerto e quindi tu devi meritartelo. Devi essere bravo e riuscire a dimostrare che lo hai apprezzato e meritato. Devi essere tra l’altro fedele a quella che è la condizione umana. Non c’è bisogno di me per spiegare che questo è un viaggio che non si affronta da soli, perché la condizione umana è un qualcosa di estremamente complicato. Ed è per questa ragione che è necessario avere attori come loro, avere questi attori, questo regista, questo sceneggiatore, perché insieme a loro è possibile rendere la magia”.

    A chi è venuta l’idea (con tutta probabilità allo stesso regista Arringa) dell’entrata in scena da parte della protagonista da tergo? Con questo nudo integrale, pulito, che a me personalmente ha fatto venire in mente il pittore Ingrés, dice comunque già molto, se non tutto, del pesante bagaglio di sofferenza interiore che si porta dietro il personaggio di Charlize Theron, Sylvia

    G. ARRIAGA: “Prima di rispondere direttamente alla domanda devo fare appello al grande talento, all’intelligenza e alla grazia che ho conosciuto in Charlize Theron, tutti ingredienti essenziali per mettere un’attrice protagonista nelle condizioni elettive per capire e rendere sul grande schermo con grande profondità e intensità il suo personaggio. La prima scena è difatti fondamentale in questo film perché la società odierna tende a reprimere il concetto di morte, così come la società contemporanea reprime anche un certo modo di guardare, di vedere il corpo umano. In un certo senso questa scena è molto sovversiva perché si apre su un corpo nudo in grado di esprimere qualcosa di interiore come un libro aperto. Talvolta può esprimere molto più intensamente uno stato d’animo un corpo che non troppe parole, perché in quello stato di nudità, si è semplicemente se stessi, con la propria anima che si mostra. E il messaggio che si trasmette, affidato proprio a questa prima scena, è quello dell’onestà con cui il film vuole rappresentare la contraddizione del personaggio di Charlize Theron, Sylvia. Questa donna che sembra tanto disinibita e non avere alcun problema con il proprio corpo e con se stessa - non a caso si affaccia alla finestra e vi rimane mentre viene osservata da dei bambini - in realtà tradisce proprio da questo mostrarsi il suo essere una donna con dei problemi, con un background ancora nebuloso per quanto riguarda i dettagli agli occhi dello spettatore, ma non abbastanza per nascondere un’interiorità evidentemente sofferta, per quanto sottesa. Si tratta di una donna che tradisce la sua sofferenza profonda proprio dalla sua stessa aria di sfida nei confronti del mondo, il che non basta a renderla forte. E qui si torna al motivo centrale della contraddizione, chiave fondamentale di lettura dell’intero percorso”.

    Qual è l’aspetto che l’ha attratta maggiormente?

    C. THERON: “Devo dire che ovviamente mi emoziono e mi lascio ispirare non da una sola cosa ma da tante. E questo credo valga per voi così come per me: non c’è una sola cosa che mi emoziona ad ispirarmi. Sta poi a noi decidere se ci si vuol lasciar ispirare o emozionare da una cosa o meno, quindi se accettarla o no. E’ troppo difficile parlarne in termini generici. Se andiamo nel dettaglio, nello specifico di questo film, credo che quello che ci abbia attratto tutti e che ci affascina, siano le persone: osservare come la gente si muove e si comporta. Ed è questo che interessa anche sceneggiatore e regista: cercare di creare questa combinazione tra comportamento umano e condizioni varie, mescolarle insieme e vedere che cosa ne viene fuori. Ritengo che questo sia un processo comunque continuo, sperimentale. Un processo che rende anche umili, perchè non si conclude mai, neanche quando è completato il film. E’ un processo infinito. Anche alla fine del film io mi continuo a chiedere cosa succede, anche perché non esiste giusto o sbagliato, perché non è così che l’essere umano e la condizione umana funzionano. C’è solo la sensazione del giusto o dello sbagliato, ma il cinema non è bianco o nero, c’è tantissimo grigio in mezzo, ed è questo quello che mi affascina, cercare di capire cosa succede tra questi due estremi, bianco e nero”.

    Quale rapporto con la letteratura e il cinema italiano?

    G. ARRIAGA: “Antonioni, De Sica, Fellini e…Lando Buzzanca. Il neorealismo ha influenzato molto la mia generazione. Non posso che essere veramente grato a questi registi. Ai miei tempi si andava al cinema con tre pesos e mi ricordo che c’erano sempre Antonioni, De Sica, Fellini e… Lando Buzzanca. C’era sempre questo strano ‘connubio’… E poi c’è il calore degli italiani… Per un certo periodo ho insegnato a Bologna e a Torino… mi hanno regalato la maglietta dell’Italia dei Mondiali e io, avendo promesso di indossarla, l’ho fatto per gli Oscar.”

    C. THERON (aggiunge): “Tra l’altro il nostro primo incontro si è verificato in un ristorante italiano, quindi abbiamo chiacchierato, pasteggiando con cibo e vino italiani”.

    Da cosa nasce questa ‘pietas’ per i personaggi che c’è sempre nei suoi film?

    G. ARRIAGA: “Se riflettiamo sulla parola ‘compassione’ ci rendiamo immediatamente conto che è legata a ‘passione’, cioè sono due parole che hanno la stessa etimologia: ‘Io capisco te con le tue passioni’. La mia origine è quella dello scrittore e il peggiore errore in cui potrei mai incorrere sarebbe quello di giudicare moralmente i personaggi dei miei libri o film. Non ci deve mai essere da parte dello scrittore un giudizio morale nei confronti dei personaggi. Ci devono sempre essere invece le componenti di amore, passione e pietà. Personalmente cerco sempre di amarli e capirli anche se magari talvolta li odio”.

    I suoi film, anche quelli scritti e non diretti, si svolgono tra America e Messico…

    G. ARRIAGA: “Se si viaggia in quella terra di confine che è tra gli Stati Uniti e il Messico, direi che può risultare un’esperienza veramente molto affascinante, perché magari anche ad una distanza di pochi centimetri, o di pochi metri, ci si trova di fronte a due realtà completamente diverse…la parte in mezzo è veramente una terra di confine. In questa intersezione ad esempio, l’asfalto che negli Stati Uniti è rossiccio, in Messico è grigiastro… Con questi elementi completamente contraddittori si ha un forte impatto… Gli scambi economici poi sono in crescita e, non dimentichiamo che il 90% della cocaina consumata in Messico proviene dagli Stati Uniti…Queste contraddizioni in terre di confine diventano allegoriche anche delle persone. Non si tratta più di un aspetto solo fisico ma metafisico dei miei personaggi… Non è un caso che alcuni personaggi si incontrino e interagiscano emotivamente con il paesaggio ‘bollente’ del Messico, e, si misurino diversamente con le piogge e l’umidità di un altro…”.

    (…)

    A proposito di questa struttura narrativa di storie parallele, quali sono i benefici che le vengono da questa scelta?

    G. ARRIAGA: “Quando raccontiamo qualcosa della nostra vita non lo facciamo mai in modo lineare e organico: raccontiamo gli avvenimenti che ci paiono essenziali, una cosa in particolare per arrivare ad un’altra, ma non raccontiamo in modo rigorosamente cronologico. Questo è quello che cerco di fare con i miei film. Del resto (da Faulkner ma anche altri scrittori lo fanno) si tratta di una tecnica letteraria molto usata; lo è un po’ meno nella cinematografia, ma non dobbiamo dimenticare che il cinema è giovane e quindi sta trovando il suo modo di raccontare storie anche in termini diversi ed alternativi… E’ un modo diverso di raccontare ma è anche quello che mi affascina di più perché per me rappresenta il modo che si avvicina di più ai parametri con cui viviamo e raccontiamo le nostre esperienze di vita reale… E per concludere, vorrei aggiungere che comunque nessuna storia del cinema ha senso senza gli attori. Gli attori cioè, non lo dimentichiamo, sono i protagonisti assoluti di qualunque storia e quindi io sono veramente orgoglioso del cast che siamo riusciti a mettere insieme per questo film, che ha reso possibile una resa di questo tipo…”.

    Pietas, tragedia, e tra le nuances estreme c’è anche il grigio… Che cosa c’è di imperdonabile in questo film?

    C. THERON: “Ci sono sicuramente delle cose imperdonabili, altrimenti, se nella condizione umana non vi fossero cose imperdonabili, non ci sarebbe la legge. In questa storia c’è un assassinio, ma potrebbe anche non esserci: ci sono tanti grigi si, ma ancor più i colori estremi del bianco e del nero… Questo film parla essenzialmente di come noi stessi possiamo renderci odiosi e tristi”.


     
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