(A Private War; REGNO UNITO/USA 2017; Biopic drammatico di guerra; 110'; Produz.: Acacia Filmed Entertainment/Thunder Road Pictures in associazione con LB Entertainment, Jeff Rice Films, Denver and Delilah Productions, Kamala Films e Savvy Media Holdings; Distribuz.: Notorious Pictures)
Soggetto: Basato sull'articolo Marie Colvin's Private War di Arash Amelby pubblicato su "Vanity Fair", sulla coraggiosa reporter di guerra Marie Colvin che lavorò per il settimanale britannico "The SundayTimes" dal 1985 al 2012.
Marie Colvin (Rosamund Pike), un'espatriata di origine americana che lavora a Londra come corrispondente di guerra per il "Sunday Times", è la prima giornalista straniera a riuscire ad entrare nello Sri Lanka occupato dalle Tigri Tamil. Ignorando un vecchio divieto per i giornalisti, attraversa il Vanni e scopre una ben celata crisi umanitaria per i 500.000 civili che vivono lì. Dopo aver presentato la storia di quella crisi vissuta in prima linea, Colvin torna indietro attraverso il territorio in mano al governo, ma viene catturata durante gli scontri tra le truppe cingalesi e le Tigri Tamil. Viene colpita dalle schegge di un razzo e alla fine perde la vista dell'occhio sinistro. Nonostante la sua ferita, Colvin si rifiuta di appendere al chiodo il suo giubbotto antiproiettile. Invece, indossa una benda nera sull'occhio e fa un'apparizione pubblica per ritirare il premio di Giornalista Britannico dell'anno, dove ha uno scontro verbale molto teso con il suo caporedattore del "Sunday Times", Sean Ryan (Tom Hollander). È chiaro che la giornalista non ha intenzione di rinunciare alla sua vocazione. Mesi dopo, Marie è in Iraq sulle tracce di una fossa comune, molto lontana dalle avanzate americane. Si ferma a Bagdad, dove assume il fotografo freelance Paul
Conroy (Jamie Dornan) per accompagnarla. Sulla rotta verso Falluja, vengono fermati a un posto di blocco dalle milizie pro-Saddam, armate di tutto punto. Lì su due piedi, Marie convince gli agenti che sono due operatori umanitari che aiutano i medici volontari e riescono a superare lo sbarramento. Marie predispone una squadra locale per scavare sopra la presunta fossa, e scopre i corpi di centinaia di kuwaitiani uccisi dal regime di Saddam. Rientrata a casa, tutti quegli anni vissuti in prima linea hanno segnato Marie in maniera molto pesante. Soffre, infatti, di disturbo da stress post-traumatico e ha un grave attacco di panico durante la sua permanenza a Londra. Dopo una sincera conversazione con la sua amica, alla fine accetta di farsi aiutare in un ospedale londinese. Anche se sembra fare progressi nell'affrontare il suo conflitto interiore, Marie è irrequieta e prova solo il desiderio di tornare a fare ciò che ama veramente: raccontare le storie di coloro che ne hanno bisogno. Con il passare degli anni, Marie continua a coprire i conflitti più letali. Fa anche un viaggio in Afghanistan, dove testimonia gli attacchi dei talebani ai civili locali e ai convogli degli aiuti statunitensi. Incontra poi l'eccentrico uomo d'affari Tony Shaw (Stanley Tucci) a una festa e si innamora di lui. Tuttavia, il suo desiderio di una vita normale svanisce, quando viene portata in una zona di guerra in Libia, dove la Primavera araba è in pieno svolgimento e i ribelli minacciano di abbattere
il regime di Gheddafi. Mentre si trova in Libia, il suo caro amico e collega giornalista, Norm Coburn, viene ucciso dal fuoco di un lanciarazzi. Nonostante la sua profonda disperazione, riesce a ottenere un ultimo colloquio faccia a faccia con Gheddafi in cui Marie sfida il dittatore. Mentre la Primavera araba è in piena attività , Marie inizia ad avere i primi segni di cedimento, e pensa a come sarebbe la sua vita senza il trauma dei reportage di guerra. La sua storia d'amore con Tony rappresenta un futuro alternativo per lei – futuro in cui potrebbe godersi la sua relazione, perseguire la sua passione per la vela e passare più tempo con la sua famiglia e gli amici. Nonostante un momento fugace in cui sembra che Marie possa ritirarsi dalle prime linee, è costretta a viaggiare con Paul Conroy nella città assediata di Homs, in Siria, dove 28.000 civili innocenti sono tenuti in trappola in condizioni brutali. Questo sarà il compito più pericoloso della sua vita.
Synopsis:
One of the most celebrated war correspondents of our time, Marie Colvin is an utterly fearless and rebellious spirit, driven to the frontline of conflicts across the globe to give voice to the voiceless.
In a world where journalism is under attack, Marie Colvin (Rosamund Pike) is one of the most celebrated war correspondents of our time. Colvin is an utterly fearless and rebellious spirit, driven to the frontlines of conflicts across the globe to give voice to the voiceless, while constantly testing the limits between bravery and bravado. After being hit by a grenade in Sri Lanka, she wears a distinctive eye patch and is still as comfortable sipping martinis with London's elite as she is confronting dictators. Colvin sacrifices loving relationships, and over time, her personal life starts to unravel as the trauma she's witnessed takes its toll. Yet, her mission to show the true cost of war leads her -- along with renowned war photographer Paul Conroy (Jamie Dornan) -- to embark on the most dangerous assignment of their lives in the besieged Syrian city of Homs
Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)
“In questo lavoro non ci si può permettere di cedere alla paura, la paura arriva dopo, quando è tutto finitoâ€. A dichiararlo è la stessa reporter di guerra Marie Colvin - che ha lavorato per il settimanale britannico “The Sunday Times†dal 1985 al 2012 - un ‘mito eroico’ dell’informazione in diretta sul campo di guerra, uno dopo l’altro, negli anni, ad un ritmo tale che avrebbe fatto impazzire qualsiasi essere umano sano di mente. Ma Marie Colvin non era evidentemente un essere umano cosiddetto ‘normale’, o, per meglio dire, ordinario. In Marie Colvin ardeva una fiamma che solo lei era in grado di mantenere viva con una sorta di ‘febbrile’ urgenza di intervenire e di raccogliere un oceano di atroce sofferenza, fatta di centinaia di migliaia di singoli rivoli, corrispondenti a storie personali incredibili, assurde e ignominiose, con un inimmaginabile moltitudine di donne e bambini involontariamente in prima linea
destinata ad essere deformata dalla lente dell’indifferenza, della distanza o della disinformazione.
Marie Colvin ha fatto la differenza, a proprie spese e sulla sua stessa pelle, ed è di questo che si dà conto nello straordinario A private War di Matthew Heineman - suo anche il documentario City of Ghosts in cui un gruppo di giornalisti di guerra espone gli orrori dell’ISIS - un film, basato sull'articolo Marie Colvin's Private War di Arash Amelby pubblicato su "Vanity Fair", che scavalca la consueta cornice di un biopic, per infiltrarsi nelle pieghe più intime di un modo di sentire e di un genere di approccio al lavoro sopra le righe. Un qualcosa inteso come ‘una guerra privata’ appunto, come rimarca lo stesso titolo del film. Un qualcosa che porta sull’orlo della follia, con incubi costanti con cui convivere, ma che spinge, ancora ed ancora, a tornare sui campi di guerra, là dove
film è l’escavazione in una porzione di territorio dove si era intuito essere zona di ‘fossa comune’: il recupero dei resti di congiunti per avere la possibilità di onorarli con un funerale e pregare per loro, valeva il tentativo.
Per una figura così forse non avremmo pensato a Rosamund Pike (L'amore bugiardo-Gone Girl, Hostiles-Ostili), eppure non poteva esserci una Marie Colvin più ‘verace’ di lei. Se gli Oscar fossero premi ‘onore al merito’ – e non sempre lo sono! - Rosamund Pike tradotta in Marie Colvin avrebbe già in tasca la statuetta come ‘Miglior Attrice’, per essere riuscita a confondere il confine tra interprete e persona reale rievocata nel personaggio. Un personaggio tutt’altro che facile, fatto di mille sfaccettature, di sfumature che intrecciano una femminilità riletta quasi al maschile, fuori dai denti di convenzioni o limiti e confini personali. Si può ammirare una sorella dedita a famiglia e a bambini, ma,
pur desiderando di onorare la maternità a monte di due aborti spontanei, si deve fronteggiare la propria realtà , il proprio modo di essere prima ancora di fare, la reporter di guerra. Tutto questo, e molto di altro ha rappresentato Marie Colvin, la cui voce fuori campo riecheggia magneticamente nel film - sorretta da una splendida sceneggiatura - quando scrive i suoi reportage, interrotti da visioni di morte che la ossessionano anche in quelle schegge di vita privata ritagliate e sottratte alla costante di lavoro. Vita privata sottomessa alla dinamica del ‘mordi e fuggi’ per forza di cose, e, per forza di cose, sofferente e carente di una stabilità affettiva. Nel corollario dei co protagonismi langue il monocorde e ininfluente cameo allargato di Stanley Tucci tradotto nell’‘eccentrico uomo di affari’ Tony Shaw. Un’interpretazione statica che ha involontariamente relegato un importante legame affettivo alla stregua di un ‘incidente di percorso’.
Il film ha
una struttura circolare che passa da una griglia cronologica volta a scoprire la prima postazione ad Homs in Syria all’altezza del 1986, passando da Vanni nello Sri Lanka, dall'Iraq, dalla Libia e dall'Afghanistan, dove Marie/Pike testimonia gli attacchi dei talebani ai civili locali e ai convogli degli aiuti statunitensi, per tornare ad Homs in Syria nel 2012. La macchina da presa marca il campo stretto, anzi, strettissimo, prima di indietreggiare lentamente, sempre più, quasi si trattasse di ossequioso rispetto, fino a guadagnarsi il campo lungo, lunghissimo, in cui a sopravvivere sono solo edifici diroccati ridotti in macerie. Una fotografia seppiata e fumosa ritrae le viscere di una devastazione senza pari, uno scenario in cui l’unico respiro sopravvissuto è quello della morte a missione compiuta. Ma è sua l’ultima parola: l’interprete (Rosemund Pike) cede il palcoscenico all’autentica Marie Colvin, con cui entriamo in contatto tramite uno spezzone di reportage documentaristico, mentre
mi riaffiora nella mente, come motivo di ritorno, un fraseggio del film che meglio di qualunque altro, riassume quella ‘febbre’ di volerci e doverci essere. Quella ‘febbre’ che non ha mai lasciato altra scelta alla reporter Marie Colvin: “nelle zone di guerra i genitori non sanno se i loro figli sopravviveranno alla notte… se vuoi parlare di paesi in guerra devi andare lì, dove rischi di essere uccisa…â€. Ma la domanda delle domande che Marie Colvin ci ha lasciato in eredità e su cui ancora oggi è lecito riflettere è questa: “raccontare una guerra può davvero cambiare qualcosa?... Bisogna aver fiducia nell’umanità , che in questo modo inizi ad interessarsi al problemaâ€. Adesso sta a noi ad evitare di macchiarsi di alto tradimento. Dal canto suo, d’altra parte, Marie Colvin una risposta se l’era data: “sento che abbiamo fallito se non documentiamo questi orrori, se non facciamo sapere la verità â€. Ed
è quello che ha fatto, al prezzo della sua stessa vita.
Secondo commento critico (a cura di La parola al film)