2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick: Il mio sguardo sul film (parte 1.) - A cura di Carlo Emilio Michelassi
06/01/2022
- 2001. Il silenzio ascoltabile della stanza rococò in cui "si finisce" ci consegna l'idea pura di Cinema come linguaggio visivo. La vita richiamata dal finale con il feto rivela un montaggio anarchico e le reazioni variano, dal pianto al riso, per le varie soluzioni che confluiscono "comunque" in una soluzione, quella di un finale aperto, nel momento in cui non finisce, uscendo dai binari del tempo. Il progetto è durato quattro anni, ma in realtà è il progetto di una vita, e non lo finisci mai, quando l'argomento è metafisico, accoglie il mistero sotteso all'argomento degli argomenti, e per questo può essere espresso solo da un metalinguaggio. La regia del film è consustanziale con la vita stessa del regista, che da sempre si pone le eterne domande sulla Vita.
Il monòlito. In primo luogo, quando ci accostiamo a un'opera d'arte, e in particolar modo a un'opera d’arte filmica, come in questo caso, dobbiamo porci il problema della prospettiva, che già, come etimo, dischiude un ventaglio semantico amplissimo. La prospettiva può essere plurima ed (è)ssere quindi le prospettive. È il caso di 2001. E sempre si torna a un titolo che contiene un numero, con l'idea che tutto sia numero, in quel film. Il monòlito stesso è il frutto di un paradosso logico, un paradosso che ci tiene "distanti", in una prospettiva lontana dalla materia di cui è composto, il suo essere materico e allo stesso tempo evanescente, come il simbolo misterioso che lo stesso monòlito racchiude. E addirittura sembra che il suo materiale sia il tempo. Lo si trova all'alba dell'uomo, e lo vediamo poi spostarsi sul suolo lunare. L'oggetto monòlito cambia prospettiva e il paradosso è che ci appare come un oggetto, quindi "inanimato". Eppure si sposta, e con esso di continuo il nostro sguardo, fino alla stanza in stile rococò. Verrebbe da pensare che quell'oggetto, come un archetipo, ci fosse sempre stato, fosse sempre "presente". E la domanda che suscita ci coinvolge, nell'ottica di una teologia, di una matematica, di una filosofia, di una logica.
Progetti e specchi – L'intelligenza artificiale.
Nel capitolo di 2001 riservato al problema dell'intelligenza artificiale, Kubrick propone un tema che a distanza di cinquanta anni avrebbe appassionato ancora gli scienziati, e cioè la sfida tra l'uomo e la macchina. Il sogno dell'uomo è quello di creare macchine sempre più sofisticate, sempre più intelligenti, salvo poi sconfessare quella forte ambizione con l'idea che nella ipotetica sfida sia l'uomo ad avere la supremazia. E così, in tutta la science fiction. Il primo capitolo si chiude con la supremazia della scimmia sul tapiro, con l'intuizione "umana" che l'osso dell'animale sia anche uno "strumento", ovvero il mezzo per ottenere la sopravvivenza. Poi, il salto temporale divenuto ormai sacro per il cinéphile. È come se Kubrick lì ci dicesse che, all'indomani, l'umanità affronterà un altro aspetto, quello dei viaggi spaziali. Diciotto mesi dopo la scoperta del monòlito sul territorio lunare, viene condotta una missione verso il pianeta Giove. David e Frank sono i due astronauti della missione. Ma chi conosce il vero obiettivo della missione? Il supercomputer HAL 9000. E la domanda successiva: chi/cosa boicotterà la missione? Sarà proprio HAL 9000, che ha in mano il comando dell'astronave. Mentre i due astronauti non sanno quale sia il senso della loro missione, HAL sa che non dovranno/potranno portarla a termine. Inizia così quella degenerazione nel comportamento del supercomputer che gli astronauti interpretano come un "guasto" o, per quanto appaia impossibile, un accesso di follia. Ma la follia, come sragionamento, non può che essere una prerogativa dell'umano. Eppure, David, soprattutto dopo l'eliminazione del collega, che HAL condanna a vanire nel cosmo, è sempre più convinto di una illogicità e di una cattiveria nel comportamento del supercomputer. E l'unico modo per fermare HAL è spegnere la "memoria centrale" che lo alimenta. La scena in cui HAL lentamente va morendo conferma il genio di Kubrick. Durante l'agonia, canta una filastrocca per bambini, come se tornasse a uno stadio infantile. Il ciclo vitale della macchina si chiude con una seconda fanciullezza. Sembra quasi di leggere il destino dell'uomo preconizzato da Jacques nel proprio monologo, dal Come vi piace - Atto secondo Settima scena di William Shakespeare: "Poi la scena conclusiva d'una storia piena di strani eventi: una seconda fanciullezza senza denti, senza vista, senza palato, senza memoria, senza niente."
Nelle immagini camerali di 2001 si ha la conferma del genio kubrickiano. Dire che lo spazio si trova fuori di noi, e fuori della camera, può sembrare tautologico. Ma non è poi così scontato, se il tutto viene ricondotto all'intreccio tra immaginario, simbolico e reale. La lettura di un articolo di Enrico Ghezzi risalente al 1981 è stata utile a questo mio ragionamento. È pacifico che si pensi a una fantascienza degli interni, quando ci troviamo di fronte al capolavoro di Kubrick. Gran parte della "odissea" si svolge all'interno. Nell'astronave, nella camera del '700. Come il viaggio allucinatorio di Jack Torrance in Shining (sempre di Kubrick). Il presente che vive poi Dave attraverso i vari doppi è un tempo fatto di "tempi": l'epoca a cui allude l'arredamento della camera, il progressivo invecchiamento dello stesso Dave (gli attimi che scorrono sullo schermo non seguono la durata "effettiva" della sua esperienza) e il senza tempo del monòlito. All'interno della camera si alternano diversi "tempi" possibili del presente di Dave, percepito come l'ipotetico momento di un tempo futuribile sciolto dalla dimensione narrativa del film, in una visione che ha il tempo e la durata di quegli attimi, vissuti inizialmente dalla soggettiva di Dave, resi in ultimo a una soggettiva che è tutte le soggettive, ove il punto di vista si perde al di là di ogni prospettiva. Noi siamo (?) il fanciullo astrale. È il paradosso logico corteggiato da Kubrick. Era questo che intendeva, quando ha detto: "Quello che vorrei davvero è far esplodere la struttura narrativa del film. Qualcosa che faccia tremare la terra".
La maniacalità di un regista si esprime attraverso la "perfectio" del suo monòlito interiore. La maniacalità è l'oggetto. La maniacalità di Stanley Kubrick è "finalmente" il monòlito. L'oggetto è l'ossessione stessa nei confronti della regolarità. Regolarità, tuttavia, fuori da ogni regola. Il monòlito sarebbe l'espressione di un Pensiero evoluto, il trionfo della Ragione. E non c'è psicoanalisi che tenga. La perfectio "esonda" con l’oggetto antonomastico che incute timore. Il monòlito sopravvive poi all'uomo imperfetto: sarebbe, allora, l'espressione di un oltre-uomo. E se l'oggetto in questione fosse l'anima? Nella filosofia medievale, l'anima rappresenta la perfezione, a differenza del corpo. Quindi, l'oggetto, nella sua compiutezza, non è, paradossalmente, "realizzabile", non è nel possibile. Così Kubrick rappresenta ciò che non è possibile rappresentare, insinuando quasi un monoteismo del monòlito. Ora è Dio, ora è l'Inconscio, ora è il Tempo, ora è il Tutto. Ecco perché non è stato ancora "interpretato". E le grida delle scimmie sembrano ora non provenire dalle loro bocche, quando lo scoprono. L'origine del suono è altrove, nell'inquadratura con il parallelepipedo fuori della loro portata. Forse le voci dello stupore di fronte al "perturbante" sono le nostre. Ogni volta la "cosa" opera una rimozione, un continuo rinvio del significato attraverso il significante.
Quando ci troviamo di fronte a un gigante, un sentimento di riverenza ci mette in guardia dalla tendenza a straparlare. La peculiarità del regista è stata quella di attraversare tutti i generi, pur non rimanendo imprigionato in alcun genere. E infatti, 2001 non è il “classico” film di fantascienza. L’approccio con la materia del film è quello di un poeta, di un filosofo, di un visionario, più che di un regista di science-fiction.
Già nel 1914, David W. Griffith aveva intuito le illimitate potenzialità della nuova arte che stava nascendo. Il cineasta aveva inoltre visto in questo linguaggio eidetico lo strumento ideale per poter condurre una sfida con il tempo. Decenni dopo, Kubrick avrebbe per l’appunto utilizzato il Cinema per assecondare la propria ossessione del tempo. Spesso, nella struttura narrativa dei film del regista, si intersecano vari piani temporali: basti pensare a Shining.
Lungo tutta la filmografia del maestro, sono presenti inoltre riferimenti al tempo storico da lui prediletto: il 18° secolo. È come se dalla follia temporale scaturisse l’intreccio narrativo di un gioco filmico, fruibile attraverso il fiume di molti tempi.
Nella scena finale di 2001, il tempo della visione si dilata mentre il tempo della dissoluzione di Dave è espresso nelle fasi serrate di una ricapitolazione irreversibile, una contrazione dell’esistenza (subìta) su diverse soggettive.
Prima di essere applicata alla fantascienza, la teoria dei mondi possibili nasce in àmbito filosofico, con Leibniz e con l’Etica di Spinoza.
L’approccio di Kubrick con le categorie spaziali e temporali è quello di un giocatore di scacchi, impegnato in una partita con lo spettatore basata sugli indicatori che vengono forniti durante lo svolgimento delle varie azioni. E le azioni che l’essere compie all’interno della storia non possono contraddire le regole stabilite, nonostante si muova in una realtà espressa con una logica che supera i confini della logica stessa attraverso il paradosso.
L’approccio visivo con il film prevede altresì un dialogo tra l’artifex e il fruitore che va oltre la contingenza della materia trattata durante lo svolgimento, sospendendo ogni possibile riflessione analitica a favore di una visione pura.
La soluzione visiva finisce per predominare anche sulla ricerca delle spiegazioni al gioco che il regista ci propone attraverso soluzioni aperte, pur rimanendo legittimi i percorsi logici che conducono a questa o quella spiegazione.
Vedendo la tecnologia del futuro e la parabola dell’intelligenza artificiale con HAL 9000, il computer di bordo della Discovery, si potrebbe inferire che la poetica di Kubrick sia pervasa di elementi profetici. Si commetterebbe tuttavia l’errore o la svista di “categorizzare” per l’ennesima volta l’esplorazione artistica del maestro. Certo, l’elemento profetico è presente, ma i “bagliori futuri”sono pensabili solo in un continuum con quel gioco metaforico messo in atto sin dalle prime scene del film. Nell’alba dell’uomo, lo scimmione Guarda-la-Luna, come lo chiama Arthur Clarke, autore del racconto che ha ispirato Kubrick, vede nell’osso uno strumento per procacciarsi il cibo, inaugurando il processo evolutivo di un’intuizione e preparando il terreno alla scienza. La creatura che dà una funzione all’oggetto determina il salto temporale con l’astronave. E in un’ideale progressione, seguiremo l’avventura della tecnologia che genera la macchina pensante HAL 9000.
Merita una riflessione a parte l’uso dei silenzi e della musica, lo spazio e gli spazi. I suoni cosmici di Ligeti avvolgono il monòlito, per la composizione di un’ontologia che pone questa pellicola come “locus” poetico della storia del cinema. Il racconto epico segue una traiettoria che da un nostro progenitore giunge fino al fanciullo delle stelle, coprendo metaforicamente l’avventura del pensiero.
Progetti e specchi- è sempre un progetto dagli infiniti rimandi. Si ha proprio l'impressione di "naufragare" quando si affronta l'argomento del film in questione. Anche se non sembra, è presente un forte richiamo alla femminilità, in un film che dovrebbe essere di fantascienza. Di solito, non sempre, i film di fantascienza sono "appannaggio" dell'elemento maschile. In questo caso, i protagonisti del viaggio spaziale sono due maschi, Dave e Frank, e un computer, HAL 9000, maschio, che rappresenta l'intelligenza artificiale. Un richiamo alla femminilità è pertanto l'astronave, la sua carlinga-utero. Addirittura, Frank, uno dei due astronauti, viene catapultato fuori dall'utero e l'omicida è il computer di bordo, HAL 9000. Altro richiamo alla femminilità è l'hostess che, nel viaggio precedente, raggiunge lo scienziato, sopraffatto dal sonno. La donna vede una penna fluttuare sopra di lui, per assenza di gravità, e puntualmente la rimette a posto. E questo è simbolico. La penna rappresenta la scrittura, che per 2001 è infinita, la femminilità della scrittura. L'astronave e l'hostess sono due presenze icastiche. Il mistero dell'esistenza è dato da due elementi, la nascita e la morte. La nascita è dovuta a colei che ci dà la vita, e la morte, forse, non è la fine, ma un nuovo inizio. Infatti, nel finale, si vede il fanciullo astrale, il feto, altro richiamo alla femminilità (…)
L'oggetto assoluto. Chiunque si trovi, vedendo 2001, di fronte all'elemento metafisico di quell'oggetto assoluto, ha la sensazione di esser nato troppo presto o troppo tardi. Troppo presto. Lo scimmione Guarda-la-Luna si trova di fronte all'oggetto della futura filosofia, Logos dell'io-penso. L'oggetto entra nell'esperienza del nostro progenitore, senza la connotazione che può aver assunto nelle fasi successive della storia dell'Uomo. Eppure, reca con sé una tale Forza raziocinativa, da far scattare in lui l'intuizione. E se c’è l'intuizione, c'è anche un pensiero. Di fronte a un essere dominato dall'istinto, l'oggetto assoluto è pur sempre qualcosa che trascende i sensi. L'essere vive il suo tempo senza una coscienza di che cosa sia il vivere e, trovandosi in presenza di un Aliquid che entra nel perimetro di un'esperienza priva di possibili riferimenti logici, si avvicina a ciò che i suoi sensi avvertono in una forma diversa dalla condizione reale in cui si trova,- oserei dire- numinosa. Egli non può porsi una spiegazione di ciò che non è in grado di "realizzare". Siamo all'alba dell’Uomo. Troppo tardi. Adesso l'uomo è arrivato sulla luna. Ciò che prima appariva in cielo come un inganno dei sensi non è più l'argomento di una disputa tra sofisti, ma rappresenta la fine decorosa di un'avventura del pensiero che ha attraversato ogni forma, artistica, filosofica, scientifica. Tuttavia, l'oggetto assoluto si ripresenta ora sul suolo lunare, scuotendo stavolta non solo i sensi, ma anche la Ragione. Siamo in un secolo in cui si vuole dare una risposta, ma la risposta questa volta produce un'aporia, un paradosso logico, ed è troppo tardi per mettere in discussione le convinzioni che hanno guidato la ricerca euristica, un intero sistema. L'esaminatore, interpretato da William Sylvester, si avvicina al monòlito perplesso, vorrebbe dare un senso, poiché adesso la magistrale metafora del salto temporale c'è già stata, eppure, di fronte a qualcosa che trascende la forma e la sostanza, egli, come noi, non può che rimanere disorientato. Quella domanda che traduce il vacillamento dello scimmione questa volta dirige il "principio" istintivo verso Qualcosa di "ineffabile", di Trascendentale.
2001 non è soltanto la narrazione di un viaggio nel tempo e Oltre, è anche la rappresentazione di una sfida "registica" CON il tempo, e la visione è una metafora di quella sfida, visualizzazione di una metafora. Si è parlato di epica dello sguardo, di un nuovo modo di vedere, di metafora del cinema, di meta-cinema. Il buio cosmico riflette il buio in sala che avvolge lo spettatore avvinto alle immagini che scorrono sullo schermo, in una sorta di allestimento del platonico Mito della Caverna. Kubrick sta al cinema come la filosofia sta alla filosofia stessa. Kubrick è 2001, Kubrick è il Cinema. Oltre, il Fanciullo delle Stelle volge lo sguardo illuminato da dietro, ove la luce è alta su di lui, lo spettatore osserva quella scena grazie alla luce che un proiettore, alle sue spalle, orienta sullo schermo animando il viaggio dello sguardo.
Il tragitto dell'uomo. L'equipaggio della Discovery viaggia nell'oscurità dello spazio per una missione che solo HAL, il supercomputer, conosce veramente. Un monòlito è apparso sul territorio lunare, affiorato dal nulla. E tutti, compresi noi spettatori, siamo chiamati a interrogarci sul perché, sui perché. L'avevamo già visto, all'alba dell'Uomo. Un nostro progenitore muove incautamente la mano verso l'oggetto assoluto. E si riverbera sull'intera accolita di scimmioni un sibilo che urta l'udito, lo stesso suono che squarcerà la notte lunare, quando lo scienziato poserà insieme ai colleghi per una foto di gruppo, dopo ave ripetuto il gesto dello scimmione. È il gesto di chi cerca qualcosa, di chi si interroga. Noi viviamo e non sappiamo perché, nasciamo, affioriamo dal nulla, come il monòlito. Arriveremo a creare uno strumento che forse ragionerà come noi: HAL ha in sé il perché, conosce il destino dell'equipaggio. Solo Dave, sconfitto nella partita a scacchi da una macchina, riuscirà a penetrare con lo sguardo l'algoritmo della vita, in una camera del ‘700, asettica, bianca, dove ogni minimo rumore può spezzare un freddo, irrazionale silenzio. Dave si duplica, si triplica, fino a vedere se stesso, agonizzante, ripetere quel gesto verso l'oggetto assoluto. Vorrebbe toccare quel sacro Graal. Improvvisamente, ecco la scena che insinua l'algoritmo fondativo dell'Umanità, il mistero dell'esistenza. Dopo l'allineamento astrale dell'inizio, adesso il Fanciullo delle stelle volge lo sguardo nella nostra direzione, e conquista lo spazio dello schermo insieme alla Terra, che ci accoglie come un feto, e sembra riprendere tutto, come un nuovo inizio sulle note dello Zarathustra, con le nostre proiezioni che hanno accompagnato il viaggio dello sguardo. È l'Eterno Ritorno.
Gli spazi in Kubrick sono subordinati al fiume di molti tempi che sfocia nel tempo prediletto, il XVIII secolo. Il '700 in Arancia meccanica, film ucronico, è reinventato (v. la marsina di Alex), in Barry Lyndon è anche fin troppo didascalico, in 2001 è evocato attraverso un ambiente in cui prevale una stilizzazione di quello stesso stile. La traiettoria della Discovery è "nel" tempo, oltreché nello spazio. Il tema del doppio o dei doppi è riflesso nella camera. Ora, una critica a 2001 non può che essere puramente estetica, o “poetica”, con il trionfo della forma nella "sublime algebra delle metafore" (Ortega) che dispiega il contenuto, essendo nello stile il senso di questa fase dell'odissea. L'uomo che sfidò il tempo si affida al rinvio continuo della meta, la différence. Raggiungendo Giove, Dave si allontana paradossalmente dall'origine dell’enigma che disorienta, permeando tutto il film. E la gestazione quadriennale da parte del regista è altresì un modo per "allontanarsi" dal soggetto originale. Qual è la direzione della Discovery, il senso della sua traiettoria? È il disorientamento di tutti, dell'osservatore che dà senso al finale: la camera del '700 mina "finalmente" le basi dell'impianto narrativo, con il senso di un cedimento "strutturale".
Il disorientamento è “palmare”, è un dato di fatto che "ci tocca". Il disorientamento non sostituisce un vuoto di senso, anzi, nasce, semmai, da un'emorragia di senso che sfocia circolarmente nell'emorragia stessa. Si deve pensare il pensiero e per farlo dovremmo pensare nello stesso modo in cui pensa Kubrick. Fino a sentire il suo orgoglio di intellettuale, per superare l'orgoglio stesso. 2001 è l'ottavo lungometraggio e Kubrick dice che per lui conta solo l'esperienza della Visione, anche se sa che ogni sequenza sarà uno spunto di riflessione per chi guarda. Lo spettatore, però, dovrà riflettersi per riflettere. Le immagini che prendono forma assumono un significato immediato, parlando direttamente al nostro inconscio. Se pensassimo a un qualche lapsus, a una qualche possibilità di disorientamento nel disorientante, faremmo il "gioco di Kubrick". Forse nell'opera, nella confezione ultima dell'opera, nel montaggio definitivo, potrebbe aver "disseminato" qualche incongruenza, ma se lo ha fatto, è perché lo ha voluto, offrendoci un ulteriore spunto di riflessione. O forse ha lasciato che così fosse, perché noi dubitassimo della intenzionalità nella "svista", preferendo l'idea che casualmente e non causalmente abbia "mancato" al suo proverbiale perfezionismo. Il fatto che la maniacalità di Kubrick sia proverbiale implica anche la possibilità di una consacrazione nel cedimento, con l'idea che per una volta si sia preso una libertà. La libertà di sconfessare il perfezionismo. Lui ci porta comunque nella stanza in cui Fede e Ragione si dovrebbero contraddire: l'idea illuministica della Ragione, con l'algoritmo della macchina pensante, viene meno di fronte al dato soprannaturale di un Oltre a cui ci appelliamo, per l'eterna Interrogazione del viaggio euristico. L'anziano astronauta leva la mano quasi a voler toccare il monòlito: è lo stesso gesto che compie il suo progenitore, all'alba dell'uomo.
(SEGUE....)
1. E. Ghezzi, Alien: lo spazio, l’interno, il cancro, pagg. 134-135, paura e desiderio- cose (mai) viste 1974-2001, Ia edizione Bompiani giugno 1995.
2. Annette Michelson, Corpi nello spazio: il cinema come ˂˂conoscenza carnale˃˃, pag. 174 (Stanley Kubrick – a cura di Gian Piero Brunetta, ed. Tascabili Marsilio/Cinema, Venezia 1999.
|