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    Dietro le quinte: LA CITTA' VERRA' DISTRUTTA ALL'ALBA - ANNI SETTANTA: LE RADICI (Film)

    THIS THE END

    La catastrofe è che tutto continui come prima. Essa non è ciò che di volta in volta incombe, ma ciò che di volta in volta è dato” (W. Benjamin)

    1970. Le carcasse maleodoranti dell’‘american dream’ cominciano a infestare il cinema targato Usa. Non è più tempo di sogni, di speranze, di progetti. L’Harley Davidson cavalcata dai cowboy
    ‘lisergici’ di Easy Rider (1969) rappresentava qualche anno prima ancora un briciolo di aspettativa. C’era ancora un orizzonte da scrutare e un sogno drogato da mandare in frantumi. I primi anni Settanta puzzano invece lontano un miglio di decomposizione. E le campane a morto non si contano più. La controcultura, l’’on the road’, la ribellione, si spengono in un duello finito prima d’iniziare. Quando la cultura incontra la natura, la cultura muore. Il nuovo ordine del giorno lo scrive il cinema. E comincia a diventare altro da tutto ciò che abbia a che fare con la parola, con la formalizzazione verbale di un pensiero. Si tramuta in gestualità primordiale, in scatto ferino, in atto puro e semplice. Il ragazzo selvaggio di Truffaut (1969) apre le danze. Non parla, ma comunica con il corpo. E non abita il centro, ma la periferia. Due titoli - su tutti: Cane di paglia (Sam Peckinpah, 1971) e L’ultima casa a sinistra (Wes Craven, 1972). Riscoprire la natura fa rima con lo sprofondo nell’abisso del male. Se ne ricorderà il John Boorman di Un tranquillo weekend di paura (1972) che col braccio alzato a pelo d’acqua dell’ultima sequenza decreterà la morte di ogni frontiera. La fine può avere inizio.

    1973. È l’anno precedente all’uscita nelle sale di Non aprite quella porta (Tobe Hooper, 1974). I migliori cineasti statunitensi si fanno portatori (in)sani di panico e destabilizzazione allo stato puro. Il cinema classico statunitense aveva contribuito a gettare le basi della ‘nascita di una nazione’. I Tobe Hooper e i Wes Craven della situazione martellano invece ai fianchi ogni certezza. Di quella nazione non sanno che farsene. E ne demoliscono ossatura e apparato ideologico. Il loro padre putativo? George A. Romero. Il quale, cinque anni prima con La notte dei morti viventi, aveva già raccontato tutto. Vita, morte e miracoli degli zombi. Le tenebre del mondo cosiddetto civile. Un film summa, realizzato con poche centinaia di dollari e già diventato cult assoluto. Ma è ora di guardare avanti. Romero sente il bisogno di limare una volta per tutte la sua poetica e vuole scovare un racconto che faccia al caso suo. Si innamora così di un testo di Paul McCollough, roba scottante su cui gli piacerebbe da matti lavorare. Dopo averlo proposto a un produttore di sua conoscenza, Lee Hessel, riceve una risposta che più precisa non si può. Hessel gli dà il via libera, ma a un patto: lavorare sul testo e renderlo più avvincente. Insomma, riscrivere il soggetto. Romero non se lo fare dire due volte. Lo script de La città verrà distrutta all’alba nasce da qui. Le riprese durano un paio di mesi e il film esce nelle sale americane il 16 marzo del 1973.

    Dal >Press-Book< de La città verrà distrutta all'alba

    LA REDAZIONE

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