La fine del mondo risale al 1968. Romero, complici un paio di amici e poche migliaia di dollari, l’aveva raccontata nel suo primo film, La notte dei morti viventi. Bianco e nero dreyeriano, città svuotate, cimiteri in fermento e zombie come se piovesse. La scena finale, perfetto sigillo autoriale di una precisa concezione del mondo, vedeva morire l’ultimo sopravvissuto. Un uomo di colore come tanti massacrato dalle pallottole dell’esercito americano che lo scambia per uno zombie. Anche La città verrà distrutta all’alba affoga in uno sconsolato e feroce pessimismo umanistico e nella consapevolezza che la civiltà non è morta, ma che non è mai esistita. La prima sequenza dice tutto. Romero imbraccia la macchina da presa come un fucile a pompa e filma un bambino che osserva durante la notte lo scempio della madre e la casa che prende fuoco. Il responsabile di tutto? Il padre. La classica brava persona fino a quando un virus si è impossessato del suo corpo e della sua anima, riducendola a brandelli e trasformandolo in un folle a piede libero. Incipit memorabile. Il titolo originale d’altronde la dice lunga: The Crazies (traduzione: i folli). Teatro della vicenda è la classica sonnolenta cittadina americana di
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provincia. Un limbo di anime pacifiche pronta a trasformarsi in un inferno di morte e sangue. La causa di tutto? Un’arma batteriologica creata a scopi bellici e scappata di mano ai militari di turno. Il virus si scatena, la pazzia comincia a impossessarsi di ogni essere umano e il precipizio è dietro l’angolo. Ma Romero non si accontenta di raccontare la nascita della follia nelle pieghe della normalità. Assolutamente no, fa molto di più. Raccoglie tutta la sua potenza espressiva, fa un bel falò di ogni tipo di accomodamento pacifico e sbaraglia sintassi cinematografica e tradizionalismo narrativo all’insegna di una vera e propria rivoluzione formale. Diventa un cecchino anarchico e dissacrante di istituzioni, luoghi di potere e frasi fatte di ogni tipo.
La città verrà distrutta all’alba germoglia nel cuore nero del contagio, prende forma nell’allegoria dell’apocalisse e si conclude nella metafora della fine. Quando i militari provano a tenere in pugno la situazione, evacuando intere zone, perimetrandone altre e rinchiudendo i civili in zone di massima sicurezza, vengono accolti dagli abitanti della cittadina interessata con colpi di fucile e resistenze di ogni tipo. E’ il caos. Un circolo vizioso di morte al lavoro in cui l’’homo homini lupus’ hobbesiano viene
declinato nelle forme di un corpo a corpo forsennato e in un montaggio ellittico e indemoniato davanti al quale sarebbe impallidito persino Sam Peckinpah.
La città verrà distrutta all’alba non è un semplice film di passaggio per George A. Romero, ma la definizione asciutta e feroce di una poetica autoriale che sarebbe esplosa appieno nel 1978 con
Zombie. La catena di montaggio dell’orrore nasce da qui. Dalle costole di un mondo andato in pezzi. Dai detriti fumanti di un cinema che non si stanca di mostrare il vero volto dell’orrore.
Dal >Press-Book< de La città verrà distrutta all'alba
LA REDAZIONE
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