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    E' STATO IL FIGLIO

    I ‘RECUPERATI’ di ‘CelluloidPortraits’ - RECENSIONE - Dalla 69. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica - Dal 14 SETTEMBRE

    "In questo film ho ritrovato il sapore dei personaggi che mi hanno ispirato in passato e ai quali resterò sempre legato. Ad esempio Busu ricorda molto Tirone (il ciclista di Cinico tv che sbrigava le faccende degli altri per racimolare qualche soldo e non aveva relazioni con le donne. Questo mi ha dato la possibilità di sentire questa storia "mia" senza tradire la narrazione del romanzo di Alajmo. E' stato il figlio è il risultato delle mie esperienze e della complicità di tutti i collaboratori che mi hanno accompagnato in questo viaggio. La famiglia Ciraulo è la famiglia che tutti potremmo essere, la proiezione del fallimento dei rapporti umani e dei limiti culturali".
    Il regista Daniele Ciprì

    (E' stato il figlio; ITALIA/FRANCIA 2011; Drammatico; 90'; Produz.: Passione e Babe Films in collaborazione con RAI Cinema e Palomar in associazione con Aleteia Communication e Faro Film con il contributo del Ministero per i B. A. C. D. e con il sostegno di Apulia Film Commission; Distribuz.: Fandango Distribuzione)

    Locandina italiana E' stato il figlio

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    Celluloid Portraits:




    Titolo in italiano: E' stato il figlio

    Titolo in lingua originale: E' stato il figlio

    Anno di produzione: 2011

    Anno di uscita: 2012

    Regia: Daniele Ciprì

    Sceneggiatura: Daniele Ciprì, Massimo Gaudioso in collaborazione con Miriam Rizzo

    Soggetto: Tratto dall’ opera È stato il figlio di Roberto Alajmo, edita da Arnoldo Mondadori. Soggetto di Roberto Alajmo, Massimo Gaudioso e Daniele Ciprì.

    Cast: Toni Servillo (Nicola Ciraulo)
    Giselda Volodi (Loredana Ciraulo)
    Alfredo Castro (Busu)
    Fabrizio Falco (Tancredi Ciraulo)
    Aurora Quattrocchi (Nonna Rosa)
    Benedetto Raneli (Nonno Fonzio)
    Piero Misuraca (Masino)
    Giacomo Civiletti (Giovanni Giacalone)
    Alessia Zammitti (Serenella Ciraulo)
    Pier Giorgio Bellocchio (sordomuto)

    Musica: Carlo Crivelli; Angelo Bonanni (suono)

    Costumi: Grazia Colombini

    Scenografia: Marco Dentici

    Fotografia: Daniele Ciprì in collaborazione con Mimmo Caiuli

    Montaggio: Francesca Calvelli in collaborazione con Alfredo Alvigini

    Scheda film aggiornata al: 25 Novembre 2012

    Sinossi:

    Il racconto viene narrato in un tempo futuro, all’interno di un ufficio postale, in un giorno come tanti. E’ un signore trasandato di nome Busu, ad introdurre la storia della famiglia Ciraulo, come le altre microstorie che di giorno in giorno racconta per uccidere il tempo che consuma la sua solitudine. C’è chi lo ascolta, c’è chi invece ad un certo punto si stanca e va via, lasciandolo solo in quella interminabile giornata d’inverno.
    Busu però si sofferma più a lungo sui Ciraulo, raccontandone anche i dettagli, quasi come gli appartenessero.

    La famiglia Ciraulo è composta da sei persone: Nicola è il capofamiglia, Loredana sua moglie, Tancredi è il figlio maggiore e Serenella la figlia più piccola. Nonno Fonzio e Nonna Rosa, i genitori di Nicola, abitano insieme a loro. Abitano nella periferia di Palermo. Nicola si arrabatta per mantenere tutti vendendo il ferro vecchio delle navi in disarmo. Le loro vite anche in questa realtà molto dura scorrono in una relativa serenità. Fino a quando, al ritorno da una gita al mare, insieme con i Giacaleone, loro amici e vicini di casa, un proiettile vagante, destinato ad un regolamento di conti tra bande rivali, colpisce a morte la piccola Serenella. La disperazione è incommensurabile. Ma si apre uno spiraglio di speranza per un cambiamento economico quando Giacaleone suggerisce a Nicola di chiedre un risarcimento che lo Stato riconosce alle vittime della mafia. Il miraggio di ricevere un'ingente somma di denaro spinge la famiglia a spendere i soldi prima di incassarli, indebitandosi con tutti, pensando che la liquidazione da parte dello Stato sia imminente. Invece i mesi passano e i debiti crescono, tanto da spingere Nicola a cadere nelle mani di un usuraio, grande amico di Giacalone. Quando finalmente la somma arriva, una volta pagati i debiti, l'importo iniziale si è notevolmente ridotto.

    La famiglia si riunisce per decidere come investire i soldi e ognuno vorrebbe realizzare il proprio desiderio. Ogni richiesta viene puntualmente smontata con varie perorazioni da parte di Nicola che solo alla fine palesa la sua idea: un'auto di lusso, una Mercedes. E a poco a poco riesce a convincere quella platea ovviamente perplessa affermando che scegliere quell'auto, è scegliere la dignità. Quella macchina è simbolo di ricchezza e la ricchezza è l'unico status che la gente rispetti, soprattutto nel loro quartiere. Con questo miraggio d'onore riesce a persuaderli.

    La Mercedes diventerà per i Ceraulo più che il simbolo di ricchezza, il simbolo della Miseria della Ricchezza, strumento di sconfitta e di rovina.

    Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)

    IL MIGLIOR CINEMA ITALIANO PARLA ANCORA LA LINGUA NEOREALISTA, LA' DOVE ANCHE IL SICILIANO DANIELE CIPRI' HA TROVATO UMORI E COLORI PER UNA PERSONALE DIALETTICA TRAGICOMICA IN ATTESA DI INCONTRARE L'ORRORE

    Quando si guarda a quei residui scorci del migliore cinema italiano che occhieggiano oggi dall'orizzonte ormai frammentato e nostalgico di un ben più glorioso passato, ci si accorge che si parla quasi sempre la lingua erede del nobile Neorealismo. E quasi sempre questo genere di cinema contemporaneo, sempre più raro e rarefatto in seno alla cinematografia commerciale corrente di casa nostra, esprime il meglio di sé quando ancorato ad etnìe particolari, come la sicilianità doc (di quella che alle volte abbisogna dei sottotitoli in italiano), conosciute per lo più epidermicamente. Etnìe in cui tradizioni e cultura locali diventano una sorta di vangelo familiare e cittadino, urlato, quando non cantato (magari alla maniera di Domenico Modugno) a furor di

    popolo, almeno fino a che non si toccano registri e corde su cui è più 'saggio' sottacere per una questione di convenienza votata alla sopravvivenza. Neorealismo rievocato dalla fotografia seppiata e dal respiro quasi metafisico di una miseria umana a tutto tondo, oggettiva (sul piano finanziario) e, soprattutto, morale (sul piano interiore), che sa farsi ottimo portavoce di una dimensione attuale, consumata, o per meglio dire, logorata, lacerata, tra sponde di regolazione di conti inter nos di stampo mafioso e dinamiche interattive famigliari-parentelari che vanno a ritrarre i nuovi freaks di marca sicula, chiaroscurati quasi quanto i personaggi del pittore toscano Lorenzo Viani, da sempre attratto da poveri e derelitti, tanto nella fanciullezza quanto nella maturità. Ma i freaks cipriani di E' stato il figlio sono stati denudati anche di quel poco di grazia e lirismo che li avrebbe salvati dall'abisso del tunnel in cui si sono deliberatamente cacciati -

    era nell'aria dacché nonno e nipote sono osservati metaforicamente proprio attraverso il buco di un grande tubo steso a terra sul cantiere di lavoro - e che in qualche modo li avrebbe resi più poetici che patetici.

    Così, guardando all'opera tragicomica E' stato il figlio, scopriamo un Ciprì caricato di un imprinting autoriale che finisce per confermare il tocco di stile nato e maturato in coppia con il collega Franco Maresco, con cui egli ha peraltro condiviso l'eclettica esperienza di regia, sceneggiatura, montaggio, fotografia e musica. Un tocco di stile che non dimentica la tragedia greca, di cui sembra figlia questa pellicola intensamente chiaroscurata, sul piano estetico tanto quanto sul piano emotivo-morale. Tragedia greca venata di un umorismo graffiante per quanto in bilico tra il comico-demenziale e il grottesco, almeno fino a che l'orrore allo stato puro non ha la meglio pretendendo il diritto di aver l'ultima voce in capitolo,

    magari tramite una sorta di trasfigurazione simbolica (vedi ad esempio le continue riprese in arditi sotto in su non di rado congiunte a primissimi piani, l'assenza di sonoro supplito dalla musica nelle sequenze climax all'apice del dramma, nonché la rilettura cromatica del rosso sangue).

    E dire che per le prime mosse di E' stato il figlio Daniele Ciprì si affida ad un insolito cronista-narratore (Busu/Alfredo Castro), seduto sulla panchina di attesa in un Ufficio Postale, intento a sciorinare i frammenti del suo racconto-puzzle, ad un pubblico di avventori più o meno incuriositi, più o meno distratti: personaggio che per qualche verso, sia pure invertito di segno, almeno nella dinamica dello 'story-teller' per caso sull'onda dell'emarginazione che sfida una desolata solitudine, sembra quasi la traduzione neorealista del Forrest Gump visceralmente indossato da Tom Hanks per Robert Zemeckis. Ma l'orizzonte cui rivolge lo sguardo Ciprì è poi di fatto ben altro, così come

    ben altro è il battito di ciglio del suo stesso sguardo: acidulo e sarcastico, impietoso verso queste larve umane finite di spontanea volontà, nelle fauci di esseri che per vivere si industriano nell'incenerire i propri simili. Larve umane rassegnate oramai all'umiliazione e a scendere anche l'ultimo dei gradini quasi fosse l'unica risposta alla domanda rivolta loro da un ineluttabile destino, popolato da avvocati, usurai, amici degli amici, parenti dei parenti, più o meno serpenti, e da una 'fauna' altra di pari livello e specie affine. Un affresco a specchiature multiple che Ciprì sa ritrarre con la lucidità e il taglio netto di una lama ben affilata sull'estro dell'arte, lasciando che l'embrionale dramma concepito su quella pila di 'piccioli' (denaro) ammonticchiati sul desco della famiglia Ciraulo, a risarcimento dell'infame delitto di 'cosa nostra' in 'casa loro', si sviluppi in un feto adeguato prima che questo possa veder la luce. Tra le

    interessanti fasi di crescita si distinguono le sequenze che ritraggono Nicola Ciraulo (Toni Servillo) in trattative con il mellifluo e untuoso personaggio dell'usuraio. Sequenze che sottraggono deliberatamente lo spettatore dalle cadenze di uno script minimalista: non sentiamo una parola di quel che si dicono perché i rumori di un treno in arrivo coprono un dialogo che non si fa fatica ad immaginare tanto delicato quanto indecente, da rendere opportuno bisbigliarlo all'orecchio. E non vi è dubbio che il fatto di ricorrere più volte a questa stessa dinamica, avvantaggia Ciprì sia sul piano dell'appeal tragi-comico che della sostanziale drammaticità di condizione del protagonista e della sua famiglia, da lui interamente dipendente.

    Così, in un finale col botto, chi se ne era restato tra le cortine quasi dietro le quinte, come la nonna Rosa incarnata da una superba Aurora Quattrocchi, guadagna la ribalta del primissimo primo piano così come si conviene ad

    una grande maschera tragica, rappresentata altrettanto intensamente solo sui nobili palcoscenici del teatro da manuale. D'altra parte si impone all'attenzione anche la lezione in celluloide di Ciprì, che sa affidarsi ad uno speciale lessico metaforico-metafisico per mostrare bassezze, imperfezioni e miserie, fino all'inesorabile degrado, di un'umanità che riesce a sopravvivere solo viaggiando in seconda, scalando di marcia fino alla sub-stanziale bruttezza interiore prima ancora che estetica. Ed ecco allora che ai ruderi ambientali, ai condomini diroccati e fatiscenti, ben corrispondono resti e macerie di un'umanità a sua volta auto ridotta a relitto. Esattamente come il relitto di quella cosa che alla fine resta sullo sfondo, unica sopravvissuta dell'intera vicenda, congiuntamente alla vergognosa macchia che, inesorabile quanto indelebile, continua a testimoniare e rivendicare la vera natura delle cose, sul selciato della piazza cittadina, di fronte agli occhi ancora increduli dell'ammutolita bambina che resta senza parole perché non c'è veramente più nulla

    da dire.

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