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    PROVE D'ACCUSA

    'Celluloid Portraits Vintage' - Robin Wright, William Hurt, Sean Penn Retrò - RECENSIONE - Uscito il 31 Ottobre 1997

    (Loved; USA 1997; Thriller Drammatico; 109'; Produz.: Clyde Is Hungry Films, Crosslight, Loved Productions, MDP Worldwide, Palisades Pictures; Distribuz.: Filmauro)

    Locandina italiana Prove d'accusa

    Rating by
    Celluloid Portraits:




    Titolo in italiano: Prove d'accusa

    Titolo in lingua originale: Loved

    Anno di produzione: 1997

    Anno di uscita: 1997

    Regia: Erin Dignam

    Sceneggiatura: Erin Dignam

    Cast: Robin Wright (Hedda Amerson)
    William Hurt (Avv. K.D. Dietrickson)
    Sean Penn (Michael)
    Joanna Cassidy (Elenore Amerson)
    Amy Madigan (Brett Amerson)
    Lucinda Jenney (Kate Amerson)
    Anthony Luke Lucero (Convenuto)
    Jennifer Watson-Johnston (Diana Raines)
    Natsuko Ohama (Harriet)
    Richard Schiff (Steve Waters)
    Mark Bryman (Giovane avvocato)
    Gary Latourette (Giovane avvocato)
    Catherine Wong (Giudice donna)
    Jennifer Rubin (Debra Gill)
    Gregg Artz (Will)
    Cast completo

    Musica: David Baerwald

    Costumi: Amy State

    Scenografia: Barry Robison

    Fotografia: Reynaldo Villalobos

    Montaggio: Gillian L. Hutshing e David Rogow

    Casting: Cathy Sandrich Gelfond e Amanda Mackey

    Scheda film aggiornata al: 22 Settembre 2024

    Sinossi:

    In breve.

    K.D. Deitrickson è un avvocato incaricato di provare la colpevolezza di un uomo accusato di aver abusato di tre donne che hanno tutte cercato di gettarsi sotto una macchina: una è morta, l'altra è su una sedia a rotelle e la terza è terrorizzata. Quando però l'avvocato Deitrickson cerca di dimostrare la colpevolezza dell'uomo una delle donne afferma di non sentirsi abusata e mentre prova a dimostrare che nei suoi confronti c'è stato un plagio psicologico si sviluppa con la donna un rapporto più profondo.

    Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)

    Si direbbe quasi una sorta di sodalizio quello tra la regista e sceneggiatrice californiana Erin Dignam (ex campionessa professionista di tennis, qualificata a Wimbledon 1977) e Robin Wright (all’epoca ancora Penn). Eh si, perché questo Loved (Prove d’accusa, 1997) si colloca al seguito di Denial (1990), entrambi con Robin Wright protagonista. Sodalizio proseguito più tardi con Land (2021), quando Erin Dignam si è limitata ai confini della sceneggiatura, cedendo lo scettro della regia alla stessa Robin Wright. Nelle intenzioni, il film Loved/ Prove d'accusa, avrebbe voluto affrontare il tema dell’amore tossico, del plagio sentimentale, e invece, ne esce fuori un legal-thriller distratto da ritratti di un variegato disagio esistenziale. Disagio applicato alla mancanza d’affetto e all’esigenza del sentirsi amati in senso lato. Loved, ‘amata/o’, è così il motore di tutto un marchingegno narrativo altalenante tra il tiepido e il caotico, nebuloso ‘affair’, sia personale che familiare, alla fine carente della

    prospettiva tridimensionale, necessaria alla vita e al respiro pieno di ogni personaggio sul grande schermo. La narrazione è di fatto frammentaria e spesso scollegata, o almeno privata del vitale collante tra personaggi primari e secondari, non di rado sfilacciata e lacunosa. D'altra parte, in questo mosaico umano ‘dislessico’, fortemente condizionato e mortificato dal punto di vista affettivo, si insinuano intriganti tessere introspettive.

    Solo all’ombra di un’impressione di disagio ‘affettivo’ all’insegna della fame del sentirsi amati, a vario titolo, può trovare una giustificazione logica nella storia, altrimenti scollato da tutto il resto, quella sorta di prologo che inneggia al talento naturale di Sean Penn. Talento già evidente all’altezza del suo stranito ed estraniante personaggio Michael, e della sua bislacca richiesta d’aiuto al procuratore distrettuale K.D. Dietrickson (William Hurt), incontrato per strada, in coda ad un incidente che, come appurato più tardi, vede coinvolta la protagonista Hedda Amerson (Robin Wright/Penn). L’approccio di

    attracco con la riflessione sugli umani come magneti che finiscono per respingersi e la richiesta di un abbraccio finale come supporto - pillola di conforto di una patologica mancanza affettiva - è un qualcosa che fa subito presa sullo spettatore generando aspettative di uno sviluppo che non arriverà mai. Eppure, il cameo allargato di Sean Penn, stranito ed astruso come un alieno, con il suo Michael, sa farsi strada fino a depositarsi nella mente dello spettatore. E solo molto più tardi realizzeremo come quell’apertura fungerà da cassa di risonanza per una chiusura, per la quale Michael/Penn non si sentirà in obbligo di tornare fisicamente sul campo. Solo un eccentrico e singolare performer come Sean Penn poteva dare vita ad un personaggio in veste di incognita chiave di lettura sull’amore. Non a caso, quando esce di scena, sentenzia “oltre l’amore non c’è fede. Non c’è fede oltre l’amoreâ€. E solo a

    quel punto possono partire i titoli di testa del film.

    Dopo quell’incontro imprevisto e alquanto insolito - cui nella realtà non molti altri come lui avrebbero accordato fiducia - il procuratore distrettuale Dietrickson/Hurt dismette la veste di una quotidianità vagamente hippy per indossare i classici abiti da avvocato e si accinge ad affrontare il caso di uno stupratore seriale, o, per meglio dire, manipolatore dei rapporti affettivi che, in mano sua, odorano intensamente di una violenza subdola ed ingannevole, come abbiamo modo di afferrare dai distillati rigurgiti di memoria, ma anche delle sue affermazioni in tribunale, di Hedda/Wright. Da qui in poi, la narrazione, dichiaratamente di marca ‘indipendente’ - da sempre predilezione sia di Sean Penn che di Robin Wright! - sbanda di qua e di là come in stato di ebbrezza: nel ritorno a casa in famiglia di Hedda/Wright regna il caos festante dei bambini di casa, mentre latita la

    chiarezza sull'identità dei ruoli. Quel che lega o separa i membri di quella famiglia, in base ai trascorsi del vissuto passato, resta tra le righe: schegge che affioreranno pian piano in modo soffuso, come avvolto nella nebbia. Lo strano rapporto con la sorella, che poi è anche avvocato, ma soprattutto con il procuratore distrettuale Dietrickson/Hurt, in bilico tra il ruolo di difesa legale e di potenziale nuovo amore, sporge spesso sulla sponda di un crinale psicologico, per non dire psichiatrico, a carico di Hedda/Wright. E' lei d'altra parte la prima protagonista in campo, destinata a farsi sempre più strada nella storia e nelle vite dei vari personaggi.

    La Hedda di Robin Wright, bellissima ed ipnotica, dagli abissi dei suoi labirinti psicologici, alimentati da confusi sensi di colpa e da una sete d’amore disposta a giustificare persino la violenza, finisce così per dominare una storia che quasi si nega, per far

    largo ai riflessi postumi, alle conseguenze, di un determinato rapporto affettivo passato, dipinto per impressioni che scartano deliberatamente dalla descrizione letterale, affidandosi piuttosto all’intensità introspettiva dell’interprete principale. I riflessi di una mente talmente condizionata, anche a distanza di tempo, da arrivare a dichiarare di provare invidia per la giovane donna finita sulla sedia a rotelle per la violenza subita dallo stesso uomo, perché, in qualche modo, in quel momento era lei ad essere la più amata. Una visione 'patologica' ovviamente discutibile, non solo in tribunale, ma anche nel privato: con la sorella di Hedda e con quello procuratore distrettuale che confessa di non essere più in grado (e di non volere) più amare. Tesi sostenuta a lungo e, d’altra parte, contraddetta da un finale che sembrerebbe indicare esattamente l’opposto. E questo perché, per dirla con Michael/Penn, “oltre l’amore non c’è fede. Non c’è fede oltre l’amoreâ€.

    Riproduzione riservata © Copyright CELLULOID

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