RECENSIONE - Clint Eastwood è tornato alla regia alla soglia dei 95 anni, con quello che ha annunciato essere il suo ultimo film, un 'legal drama' la cui frase cult tuona così: 'Qualche volta la verità non è giustizia' - Dal 14 Novembre
"È un film che io vorrei vedere. Guarda con attenzione alla zona grigia, a tutto ciò che accade tra il bianco e il nero della vita quotidiana, e si spera che vi faccia pensare a cosa fareste voi nei panni del protagonista... È davvero intrigante quando uno scrittore pone un personaggio di fronte a un dilemma morale e questo, ambientato in un'aula di tribunale, è qualcosa in cui tutti possiamo immaginarci o con cui possiamo relazionarci in qualche modo"
Il regista Clint Eastwood
(Juror #2; Usa 2024; Legal drama; 114'; Produz.: Dichotomy Films, Gotham Group, Lightnin' Production Rentals, Malpaso Productions, Warner Bros.; Distribuz.: Warner Bros. Italia)
Justin, preso da sensi di colpa, cerca di convincere gli altri undici giurati dell'innocenza dell'accusato moltiplicando così all'infinito le sedute della giuria nella prospettiva di raggiungere prima o poi la maggioranza. Ma le cose ... prenderanno una strana piega fino all'incredibile finale.
Storyline:
Family man Justin Kemp who, while serving as a juror in a high profile murder trial, finds himself struggling with a serious moral dilemma...one he could use to sway the jury verdict and potentially convict-or free-the wrong killer.
Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)
"Era lo scorso ottobre. Pioveva e ho colpito qualcosa..."
La riflessione endoscopica sul sistema giudiziario statunitense di Clint Eastwood passa per situazioni e persone che volgono, a dimostrare un assunto: la sottile linea rossa tra verità e giustizia rischia di non essere così demarcata come si potrebbe pensare. Anzi! A sollevare “il ragionevole dubbio†è proprio il primo protagonista: quel ‘giurato numero due’ del titolo che ha volto e anima tremanti del Justin Kemp di Nicholas Hoult. Eppure, per quanto nulla manchi alla performance, e non solo alla sua, si sente nostalgia di quelle vibrazioni sottopelle che sentenziano l’immensità dei grandi interpreti.
La Giustizia, quella dea bendata con in mano la bilancia che bascula e pende ora da una parte, ora dall’altra, disegnata in bianco e nero in sottofondo sui titoli di testa, è difatti la prima a comparire, e forse non è un caso se le cromie sono tenui, se non
addirittura sfumate sui toni grigi. Ironia della sorte - raffinatezza eastwoodiana - ad aprire la storia è una giovane donna - la Allison di Zoey Deutch - che entra in scena per l’appunto bendata: l’effetto sorpresa di scoprire la cameretta allestita dal marito Justin/Hoult per la bambina in arrivo. Una gioia che segue dolori passati, come avremo modo di scoprire più avanti. Ma sembra esserci una ragione più profonda per questo: alla fine, questa giovane donna, moglie e finalmente madre in attesa, dopo un tragico aborto gemellare, diventerà l’ago della bilancia per ‘fare giustizia’ su un caso di omicidio ‘apparente’, uno di quelli per cui l’opinione comune pretende un colpevole ad ogni costo. E per dimostrare come la verità non combaci sempre con la giustizia, il vegliardo regista Eastwood, lucido come non mai alla soglia dei suoi novantacinque anni, si prende tutto il tempo che gli serve per questo affresco
da ‘legal thriller’ vecchio stampo che, se davvero ultimo pilastro della sua carriera da cineasta a tutto tondo, suona come la sua eredità più classicista. E il classicismo, da sempre prediletto da Clint Eastwood, sembra qui troneggiare in punta di citazione: è già stato indicato più volte, come riferimento più diretto, La parola ai giurati (1957) di Sidney Lumet. Ma in fondo, per quanto storia di omicidio non esattamente allineata, potremmo anche volgere uno sguardo retroattivo al Presunto innocente (1990) di Alan Pakula, laddove, peraltro, le vibrazioni c’erano tutte e ad altissimo livello: altro contesto in cui verità e giustizia non potevano condividere lo stesso tetto, se non sotto l’egida di un pesante compromesso. E pure contesto in cui l’ambizione e l’ascesa in carriera tracciavano il percorso, di lì a poco lastricato di sangue.
Comunque, in Giurato numero 2 Clint Eastwood scrive la sua equazione e, prima di tirare le somme,
Justin Kemp di Nicholas Hoult, che sembra perfetto e senza macchia per far parte di una giuria, è invece colui che, seppure inconsapevolmente, si vede come probabile responsabile della morte di Kendall (Francesca Eastwood).
L’innesto di intermittenti flashback nella testa dell’uomo, ex alcolista sulla via del riscatto ormai da quattro anni, riguardo all’incidente secondo cui aveva pensato di aver investito un cervo, in una buia notte di pioggia, muove il ‘ragionevole dubbio’ che così non sia stato. D’altra parte, la volontà di svelare la verità , che potrebbe scagionare l’imputato - il James Sythe di Gabriel Basso - nei riguardi dell’omicidio della fidanzata (Kendall/Eastwood), viene frenata dal consulto con un amico, legale di fiducia. Se si rivelasse quale ‘pirata della strada’, per quanto inconsapevole, Kemp/Hoult sarebbe condannato al carcere a vita. Ed è con questa rivelazione giuridica, espressa nei sostanziali dettagli che la definiscono come tale, che Eastwood punta il dito
su una prima grossa falla giudiziaria. Un sostanziale buco nero pronto ad inghiottire e a distruggere la vita di Kemp/Hoult e di tutta la sua famiglia. Questa sarebbe la verità , ma sarebbe vera giustizia?
Eppure, “La giustizia è verità in azioneâ€, è per l’appunto lo slogan di punta per la campagna elettorale in corso di Faith Killebrew (Toni Colette), d’altra parte pure avvocato dell’Accusa nel caso di omicidio in corso. Il film si gioca all’ottanta per cento, e forse anche più, in un’aula di tribunale, in cui testimoni e analisi dei fatti predominano, con tutti i vizi di forma del caso, come il riconoscimento dell’omicida da parte dell’anziano, prima da un’unica foto, poi in aula, proprio quando Kemp/Hoult si china a raccogliere qualcosa per terra nell’intento di nascondersi. Predominano la ricostruzione di un puzzle in cui l’accusato e la vittima - Sythe/Basso e Kendall/Eastwood - affiorano da altri flashback precedenti
all’accaduto: il pane da addentare da parti contrapposte rispettivamente dall’avvocato della difesa e da quello dell’accusa. Ovvio che per Faith/Colette il verdetto di colpevolezza ha la doppia valenza del ‘fare giustizia’ e, al contempo, dell’avanzamento di carriera: altro vizio di forma. Ma nel momento in cui diversi tasselli scompongono la messa a punto del puzzle diventa più difficile persino per lei accettare una evidente ‘non verità ’ e dunque un’ingiustizia. Ingiustizia non da poco se a rischiare l’ergastolo è uno scapestrato, magari un tantino violento e aggressivo, come Sythe/Basso, ma non un criminale, e dunque innocente per quanto attiene al reato di omicidio.
Lo spiazzante finale vi seppellirà , non tanto nella fossa di una verità già trapelata tra le righe, discussa indirettamente in terza persona su una panchina fuori dalle aule di tribunale tra Kemp/Hoult e il Procuratore Faith/Colette – che ha poi vinto le elezioni proprio a cavalcioni del caso, ad
esemplare condanna della violenza sulle donne - ma per la voragine spalancata di proposito sotto i piedi dello spettatore, tra un cumulo di dubbi e una mancata, effettiva conclusione. Un finale sospeso e provocatorio che, a seguito di una pseudo chiusura, in un solo, silente fotogramma - quasi la porta secondaria per un altro film - Clint Eastwood pone la patata bollente direttamente nelle mani dello spettatore. E la patata bollente esala il vapore di un’ultima, scottante, domanda: ‘e ora?’