RECENSIONE - NOMINATION ai Golden Globe 2019 per il 'Miglior Attore in un Film Drammatico' (Willem Dafoe) e Coppa Volpi 'Migliore Attore' (Willem Dafoe) - 75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica (29 Agosto-8 Settembre 2018) - Concorso - Ventidue anni dopo BasquiatJulian Schnabel (Prima che sia notte, Lo scafandro e la farfalla), torna a parlarci della grande arte con gli ultimi e tormentati anni dell'irrequieto pittore olandese Vincent Van Gogh (nel film Willem Dafoe) - Dal 3 Gennaio
"Questa non è una biografia del pittore realizzata con precisione scientifica. È un film sul significato dell’essere artista. È finzione, e nell’atto di perseguire il nostro obiettivo, se tendiamo verso la luce divina, potremmo addirittura incappare nella verità. L’unico modo di descrivere un’opera d’arte è fare un’opera d’arte".
Il regista e co-sceneggiatore Julian Schnabel
"Riuscire a creare qualcosa di imperfetto, di anomalo, qualcosa che alteri e ricrei la realtà in modo tale che ciò che ne risulta siano anche delle bugie, se si vuole, ma delle bugie più vere della verità letterale"
Il pittore Vincent Van Gogh
(At Eternity's Gate; REGNO UNITO/USA/FRANCIA 2018; Biopic romanzato ad arte; 120'; Produz.: Rahway Road Production (Jon Kilik), Iconoclast Production; Distribuz.: Lucky Red)
Titolo in italiano: Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità
Titolo in lingua originale:
At Eternity's Gate
Anno di produzione:
2018
Anno di uscita:
2019
Regia: Julian Schnabel
Sceneggiatura:
Jean-Claude Carrière, Julian Schnabel, Louise Kugelberg
Soggetto: Ventidue anni dopo BasquiatJulian Schnabel (Prima che sia notte, Lo scafandro e la farfalla), torna a parlarci della grande arte con gli ultimi e tormentati anni dell'irrequieto pittore olandese Vincent Van Gogh (nel film Willem Dafoe): dal burrascoso rapporto con Gauguin nel 1988 fino al colpo di pistola che gli ha tolto la vita a soli 37 anni. Un periodo frenetico e molto produttivo che ha portato alla creazione di capolavori che hanno fatto la storia dell'arte e che continuano ad incantare il mondo intero.
Cast: Willem Dafoe (Vincent Van Gogh) Rupert Friend (Theo Van Gogh) Oscar Isaac (Paul Gauguin) Mathieu Amalric (Dottor Paul Gachet) Emmanuelle Seigner (Madame Ginoux) Mads Mikkelsen (Sacerdote) Niels Arestrup (Pazzo) Anne Consigny (Insegnante) Amira Casar (Johanna Van Gogh) Vincent Perez (Il Direttore) Lolita Chammah (Ragazza in strada) Stella Schnabel (Gaby) Vladimir Consigny (Dottor Felix Ray) Arthur Jacquin (René) Solal Forte (Gaston)
Musica: Tatiana Lisovskaya
Costumi: Karen Muller-Serreau
Scenografia: Stéphane Cressend
Fotografia: Benoît Delhomme
Montaggio: Louise Kugelberg, Julian Schnabel
Scheda film aggiornata al:
15 Febbraio 2019
Sinossi:
Questo film è un insieme di scene ispirate a dipinti di Vincent Van Gogh, eventi della sua vita comunemente accettati come fatti realmente accaduti, dicerie e scene completamente inventate. Il fare arte dà l’opportunità di realizzare qualcosa di concreto, che esprime una ragione di vivere, se esiste una cosa simile. Nonostante tutta la violenza e le tragedie sofferte da Van Gogh nella sua esistenza, non c’è dubbio che abbia vissuto una vita caratterizzata da una magica, profonda comunicazione con la natura e la meraviglia dell’essere. L’opera di Van Gogh è fondamentalmente ottimista. Le convinzioni e la visione alla base del suo singolare punto di vista rendono visibile e fisico cioÌ che è inesprimibile. Sembra essere andato oltre la morte, incoraggiando gli altri a fare altrettanto.
Short Synopsis:
A look at Vincent van Gogh's time in Arles
Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)
“Quando guardo la natura vedo con più chiarezza la natura e quello che ci lega a lei… Quando mi trovo in una radura penso all’eternità… L’esistenza deve avere una ragione. Non può non avere una ragione… Io sento che Dio è natura e la natura è bellezza… Dipingo per non pensare. Quando dipingo smetto di pensare e sento che io sono parte di ogni cosa che è fuori e dentro di me… Adesso riesco solo a pensare all’eternità… A volte dicono che sono pazzo, però un po’ di follia è una benedizione per l’arte”
La sua voce fuori campo a schermo spento diventa - con la macchina da presa in spalla quasi sempre tesa in soggettiva - il ‘leit motiv’ di At Eternity’s Gate. E’ così che, ventidue anni dopo Basquiat, Julian Schnabel (Prima che sia notte, Lo scafandro e la farfalla), torna a parlarci della grande arte con gli ultimi
e tormentati anni dell'irrequieto pittore olandese Vincent Van Gogh. E’ incredibile l’assimilazione fisionomica di Van Gogh da parte di un camaleontico Willem Dafoe, insignito, non a caso, della Coppa Volpi alla 75. Mostra del Cinema di Venezia e nominato ai Golden Globe 2019 per il 'Miglior Attore in un Film Drammatico’. Dafoe, tradotto in Van Gogh, fa sua la febbrile tensione del grande e folle artista verso un obiettivo preciso: catturare la luce in oggetti, persone, paesaggi, fiori, piante ed ogni elemento della realtà (vedi la ‘natura morta’ dei suoi stessi stivali) per restituirci la sua particolare visione del mondo e poterla condividere. Per questo, all’inizio del film, in quella sorta di prologo che precede il racconto del suo ultimo, drammatico capitolo di arte che diventa la sua stessa vita, lo sentiamo dire: “Voglio solo essere uno di loro”. L’essere apprezzato per la sua arte, essere compreso, avere dunque un
riscontro pubblico, era il suo più grande desiderio. Almeno all’inizio del suo capitolo finale. In seguito, non lo riterrà più prioritario, iniziando a dar rilievo al senso di eternità che lo pervade e che pervade la sua stessa arte. Sarà il momento in cui comprende appieno che la sua pittura, frenetica e veloce del suo presente, attende il futuro, le generazioni che verranno: “… dipingo per persone che non sono ancora nate…” dirà ad un certo punto. Momento in cui la sua pittura si vestirà di una dimensione altra, eterna, per l’appunto, in piena consapevolezza.
Una dissolvenza apre al titolo - quello italiano Van Gogh-sulla soglia dell’eternità suona esplicito e diretto - e ad uno sguardo affacciato sul mondo che diventa anche il nostro. Perché, come già dichiarato dallo stesso Schnabel: “Il ritratto di Van Gogh che emerge dal film deriva direttamente dalle mie reazioni ai suoi quadri, non da quello
che è stato scritto su di lui”. E nel film, questo sguardo dall’interno, si sente eccome! Dal senso di vuoto in estrema povertà, con i quadri che non si vendono e una stamberga in cui col maltempo sbattono porte e finestre, fino al passo svelto e febbrile nei campi per lunghi tratti - del tutto particolari le riprese dalla vita in giù - verso la meta perfetta per rubare alla natura un momento, un fiore, un albero o, per meglio dire, le sue radici. Solo le sue radici. E per di più azzurre. Non tutti potevano comprendere la sua visione del mondo. Tanto meno la rumorosa scolaresca capitanata dall’idiota maestra che sopraggiunge a rovinare la pace del suo momento creativo, finito in rissa con tanto di insulti. Il diverso è evidentemente sempre stato incompreso ed offeso, anche allora. E che Van Gogh non fosse compreso e neppure accettato - figurarsi
se amato! - non vi è ombra di dubbio. Un’incomprensione che sfocerà in vero e proprio odio e rifiuto come cittadino anche solo pari a chiunque altro, al punto da solleticare la collettiva richiesta di metterlo al bando.
Se mettiamo insieme quella sua sconnessione mentale, reale, oggettiva, palpabile ed ammessa da lui stesso, pure grande bevitore, tale da non fargli ricordare momenti critici, in cui non sempre riesce ad evitare incidenti, problematici per se stesso e per gli altri, se mettiamo insieme tutto questo con la crescente incomprensione generale nei suoi confronti, si comprende facilmente quanto pesante fosse il fardello da portare sulle spalle da Van Gogh. Pesante ed ingombrante al punto che entrare ed uscire dagli ospedali psichiatrici diventerà per lui un inevitabile ritornello, la sgradevole costante della sua dissestata quotidianità. E la sua percezione in senso lato è catturata da una soggettiva praticamente permanente, come se guardassimo attraverso
una lente sfocata - vedi il taglio orizzontale in cui si divide la ripresa di ogni fotogramma da metà film in poi: realistica nella striscia sopra e annebbiata in quella sottostante - ed è proprio quella sua visione a renderlo sempre più folle agli occhi del resto del mondo. Solo il fratello Theo (Rupert Friend), mercante d’arte e suo modesto sponsor, con il collega ed amico Paul Gauguin (Oscar Isaac) - seppure a lui contrapposto nel modo di sentire e fare arte - rappresenteranno l’unico, concreto, punto di riferimento nella vita di Vincent Van Gogh, abbastanza consapevole della sua realtà da controbattere la cieca insolenza di un prete con il potere di liberarlo dall’ennesimo stallo in ospedale psichiatrico.
Vi era un altro desiderio focale espresso dallo stesso Van Gogh all’amico Paul Gauguin, amante, al contrario di lui, della pittura lenta, meditata: “Vorrei dipingere in pieno sole. Sono stanco di questa
nebbia e di questa luce grigia”. E’ lo stesso Gauguin a consigliare a Van Gogh di spostarsi verso il Sud. Ad Arles, per esempio. E di ciò che sole e luce piena significassero per Van Gogh ce ne dà un’idea visiva il fotogramma interamente giallo - colore non a caso prediletto dall’artista, tanto quanto il rosso vermiglio da Gauguin - verso l’epilogo del film, costeggiato dai suoi desideri e confessioni a voce alta. Nebulose le dinamiche dell’incidente, tanto maldestro da farsi nefasto, ad opera di ragazzacci preoccupati solo di insabbiare la cosa per non far sapere nulla ai genitori: quel colpo di pistola vagante porta alla morte l’artista a soli 37 anni proprio mentre stava dipingendo. E non poteva essere altrimenti. Perché senza dipingere non poteva proprio stare. E mentre diminuiscono gli schermi neri con la sua voce fuori campo, incalzano le dissolvenze e le sovrimpressioni filmiche, a tallonare gli
ultimi baluginii di quella follia d’artista, mentre intanto egli si guadagna davvero la soglia dell’eternità.
“Tu vai troppo veloce e usi troppo colore. Non è neanche pittura la tua. Sulla tela sembra ci sia uno strato di argilla. E’ più una scultura che un quadro”. Così lo aveva criticato amichevolmente Paul Gauguin, ma fino a che punto Vincent Van Gogh fosse rifiutato nel suo presente, lo attesta quel grande quaderno che l’artista aveva ricevuto vuoto e che aveva riempito di disegni prima di restituirlo alla ‘ostessa’ ‘Madame Ginaux’ (Emmanuelle Seigner), colei che più tardi, ricevendolo da altri, lo aveva riposto senza neanche degnarlo di uno sguardo. E se solo si pensa, come informa una delle didascalie finali del film, che questo quaderno è stato ritrovato solo nel 2016, abbiamo una misura concreta di quel che all’epoca, per Vincent van Gogh, abbia significato ‘rifiuto’ e, d’altra parte, di quanto lungimirante fosse
stato, dall’alto di quella sua stessa follia d’artista, quando pensava di sentirsi esattamente, proprio ‘sulla soglia dell’eternità’.
Secondo commento critico (a cura di La parola al film)