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    EDWARD HOPPER (1882-1967): LA SUA VISIONE CINEMATOGRAFICA HA RISCOSSO CONSENSI TRA MOLTI REGISTI

    Gli rendono omaggio con una grande rassegna antologica Milano (Palazzo Reale, fino al 31 Gennaio) Roma (Museo della Fondazione Roma, 16-13 Giugno) e Losanna (Fondazione de l’Hermitage, 25 Giugno-17 Ottobre)

    17/10/2009 - Per la prima volta in Italia, Milano e Roma rendono omaggio all’intera carriera di EDWARD HOPPER (1882 – 1967), il più popolare e noto artista americano del XX secolo, con una grande rassegna antologica senza precedenti nel nostro paese a cura di Carter Foster (Catalogo Skira). La rassegna si tiene a Palazzo Reale a MILANO fino al 31 gennaio, subito dopo si terrà a ROMA, presso il Museo della Fondazione Roma, dal 16 al 13 giugno, e presso la Fondazione de l’Hermitage di LOSANNA, dal 25 giugno al 17 ottobre. La mostra, pur mancante di qualche capolavoro che avrebbe dato più storicità all’evento, crea, comunque, un’ondata di novità, in un panorama troppo affollato di impressionisti e di molteplicità di futurismi. HOPPER, che è vissuto in modo molto appartato insieme alla moglie Josephine, esprime nei suoi quadri l’isolamento dell’uomo nella grande città moderna.

    A queste suggestioni si aggiunge un altro aspetto fondamentale, la sua visione cinematografica incisiva per molti registi. Ammirando molti suoi quadri come non pensare ad Alfred Hitchcock e alla Bates House di Psycho o ai paesaggi di Wim Wenders che come per Hopper sono soprattutto paesaggi dell’Anima!

    Goffredo Fofi, in un suo saggio, narra che nel 1962, gli anni Cinquanta appena conclusi, EDWARD HOPPER disse: “se qualcuno volesse sapere che cos’è l’America, vada a veder un film che si intitola ‘L’occhio selvaggio'”. Questa è una pellicola che nulla ha da spartire con l’opera contenuta di Hopper, sempre controllata, apparentemente distante, fredda attenta alle solitudini e non alle folle di una società in movimento, mentre L’occhio selvaggio ne da’ un interpretazione assai affollata, semi-documentario che molto diceva degli USA, tra anni cinquanta e sessanta, pieno di ansie e di attese.

    Nell’opera “Soir Bleu” (1914), in mostra a Milano, si coglie l’esempio migliore di una carrellata di diverse solitudini incarnate in diverse umanità. Lo spazio all’interno del quale queste figure si trovano è solo accennato. Si tratta della terrazza di un caffè, limitata da una balaustra. Lo sfondo è indifferenziato, diviso da una linea ondulata che separa la superficie azzurro-chiara da quella inferiore azzurra-scura. La balaustrata di pietra divide ulteriormente lo spazio del quadro in un esterno e in un interno (come in un piano sequenza). A sinistra un terzo della superficie viene separato dal resto del quadro da una striscia colorata, sostegno di un tetto immaginario dal quale pendono lampioncini, come nelle atmosfere del film-documentario di Renoir La vie est á nous. I personaggi sono in sintonia con la forza drammatica della composizione, colta dall’obiettivo in un’unica inquadratura. A sinistra siede al proprio tavolo in disparte un protettore; questa identificazione è ricavata da uno studio preparatorio. Al tavolo accanto vediamo un uomo di profilo, con gli occhi nascosti da un grande basco, barba sigaretta all’angolo della bocca e un’ ombra pronunciata sotto lo zigomo. La sigaretta lo collega al clown, che siede vistosamente al centro della parte destra del quadro, truccato, in costume e con lo sguardo fisso davanti a sé; in mezzo, con la schiena rivolta verso l’osservatore, è un soldato, probabilmente un ufficiale in uniforme da libera uscita. La posizione della testa lascia presumere che egli stia guardando la donna fortemente truccata, in piedi al di là della balaustrata, probabilmente una prostituta. Infine una coppia alto-borghese molto curata nell’abbigliamento e nell’acconciatura dei capelli della donna e della barba dell’uomo, osserva la scena dal tavolo all’estrema destra. Quasi tutte le figure sono sovrapposte tra loro, questa coppia è invece chiaramente separata. Gli attori di questa messa in scena sono caratterizzazioni, non di singole persone, sono inserite in una rete di rapporti: il protettore, l’uomo con la barba e il basco e il clown hanno tutti una sigaretta in bocca o che pende dall’angolo del labbro, ma non c’è traccia di fumo. Quindi la sigaretta è un attributo, il segno dell’appartenenza a un determinato ceto sociale, inteso come bohéme, quel tipico demi-monde parigino nel quale si incontrano il mondo dell’arte e quello del crimine e a cui il regista Hopper non poteva astenersi.

    Goffredo Fofi, nel suo saggio, vede un’ulteriore continuità del tema nell’ultima opera di HopperTwo comedians” del 1965, dove, l’artista, rappresenta se stesso e Jo, la compagna di una vita, la sua prima modella e la “protagonista” di tanti suoi quadri, intenti a salutare un pubblico – “il pubblico”: la vita, i vivi del suo oggi che guardano scorrere, ancora, le sue immagini in un flashback di memorie. I due attori dall’alto di un palcoscenico, come due pierrot serenamente malinconici si congedano dagli spettatori in una messa in scena sul palcoscenico della pittura, mentre la cinepresa sfuma in un “flou” le quinte e il fondale che gli accoglie. Nell’opera di Hopper c’è un doppio movimento dell’occhio che va da fuori del quadro a dentro, e il suo contrario. C’é l’occhio che guarda dall’esterno dentro le stanze i bar gli uffici, come da cinematografiche gru o da carrelli bloccati al punto giusto, il punto geometrico che solo il sapiente intuito e l’occhio dell’artista che sa dare il massimo valore al rapporto tra i personaggi e l’ambiente. Il regista Hopper interviene a collocare i personaggi e a decidere il posto della macchina e i suoi movimenti. Ma Hopper è anche lo scenografo che ha deciso la disposizione degli oggetti, che ha ordinato i pieni e i vuoti, il fotografo di scena che ha messo le luci e ne ha deciso l’intensità. Il Ciak inizia da un’immagine fissa, in cui i personaggi, sempre pochi e silenziosi, da dentro la stanza guardano verso il mondo esterno, ma mai “in macchina”, mai verso lo spettatore, aspettando pazienti qualcosa che possa mutare la loro vita semplice, comune, aspettando, forse, anche loro un Godot. Dal cinema noir Hopper assorbe, per la tensione che l’immagine deve esprimere inquadrature fredde e razionali, con un’architettura geometrica alla Lang e alla Wilder.

    Come afferma Gofredo Fofi: “… Ma egli è americano, la sua modernità si confronta con altri ‘interni’ e con altri ‘esterni’, con altre metropoli e con altre praterie, e con altri miti, e sia le metropoli che le praterie americane sono ben più vaste di quelle europee, sembrano predisporre maggiormente alla solitudine proprio per la loro contraddizione: il massimo di folla nelle metropoli, il massimo di vuoto nelle pianure. La sua stessa ‘metafisica’ è diversa, dettata da un puritanesimo di cui l’Europa è andata via via perdendo l’impronta, e da una modernità dirompente, dove la macchina ha la prevalenza sull’uomo. C’è differenza tra le piazze vuote di De Chirico e quelle di Hopper – in comune hanno solo l’attesa…”.

    Come in Wim Wenders, pensiamo ad Alice nella città, Falso movimento o Nel corso del tempo il modulo narrativo del viaggio per il regista tedesco diventa strumento di conoscenza esistenziale dei personaggi, per Hopper, al contrario, diventa acuta riflessione, che unisce l’individuo immobile con l’ambiente. In Paris Texas le immagini cadenzano su ritmi dilatati e di grande potere evocativo, proprio, come in Morning Sun (1952) di Hopper (presente in mostra in tutte le sue versioni).

    Continua Fofi: “… Come perduti in un popoloso deserto, i suoi personaggi siedono e aspettano, anche quando in luoghi di transito, provvisori. A volte è come se una zoomata cancellasse nel suo movimento di focalizzazione ciò che non interessa il regista, come se egli avesse isolato una persona, o due, o tre, raramente di più, puntando la sua attenzione solo su quella o quelle, facendo sparire con qualche artificio le altre. O più semplicemente, avesse in partenza scelto la sua scena come consona a una sola presenza, o due, o tre, raramente di più stanze d’albergo, caffè notturni, sale d’attesa, uffici, ristoranti, verande… Perfino i teatri luogo della recita 'scena' affollata per eccellenza, sembrano escludere il pubblico, gli spettatori, la folla: senza che il pubblico si veda. Una derivazione evidentissima dei teatri di Hopper è in Lynch, soprattutto in Mulholland Drive, ma in una chiave decisamente più angosciosa, evidente, anti-hitchcockiana, di un neo-espressionismo da anni Duemila …".

    (A cura di MARIA PAOLA FORLANI)


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