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    Home Page > Cinespigolature > 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick: Il mio sguardo sul film (parte 2.) - A cura di Carlo Emilio Michelassi

    2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick: Il mio sguardo sul film (parte 2.) - A cura di Carlo Emilio Michelassi

    06/01/2022 - Kubrick e il perturbante . Vi sono scene filmiche che fanno parte ormai dell'immaginario collettivo. L'apparizione del bambino che percorre su un triciclo i corridoi dell'Overlook Hotel è un nostro insidioso "perturbante", da oltre un quarantennio. La carrellata della steadicam che segue Danny sul triciclo "muove" l'insidia del perturbante, nel nostro immaginario, attraverso "qualcosa" di imprecisato, di indefinito, lungo l'itinerario del bambino, ossia l'˂˂un˃˃ dell'Unheimliche, il Non familiare, qualcosa che non si palesa, ma che "potrebbe". Qualcosa che non dovrebbe essere risvegliato si cela dietro la porta della misteriosa stanza 237. La porta che deve rimanere chiusa reca con sé l'archetipo del divieto. Ma il divieto viene espresso proprio perché qualcuno lo infranga, e le conseguenze che deriveranno da quel gesto non potranno che essere fatali. L'immagine dell'eroe che sfida il "divieto", spinto dalla conoscenza e dal desiderio di andare oltre la soglia confluisce ancora nell'archetipo di un'intera letteratura. Come ha rilevato Omar Calabrese, il cinema di Kubrick è dominato dalla poetica delle porte, come accessi a modi-mondi possibili. Detto questo, è giocoforza che scrivendo di una porta che schiude un mondo, l'oggetto "in questione" diventi "archisema". La porta è il semema che, aprendo virtualmente o letteralmente su un mondo possibile, contestualizza e "spazializza" un orizzonte di sèmi che non hanno legami con la porta in senso stretto, ma ne hanno con l'idea di apertura. Ciò che prima rimandava a sbocchi possibili o "stanze" possibili "occupa" ora passaggi che in Kubrick risvegliano tempi diversi. E il contesto spaziale diventa pretesto per una funzione multiplanare, dato che la dimensione temporale subordina addirittura quella spaziale. Torniamo così alla stanza di 2001, occupata dai doppi di Dave, che altro non sono se non tanti tempi compressi nella distorsione di un solo tempo.

    La traccia. La sua biografia sarebbe costellata di spazi bianchi, senza un'aneddotica relativa alla gestazione delle sue opere. I quattro anni della sua vita dedicati alla preparazione di 2001 sono aneddotici. Egli incontrò Arthur Clarke, preclaro autore di narrativa fantascientifica, e gli commissionò, sulle prime, il progetto di una sceneggiatura. L'intenzione era quella di riprendere un soggetto basato sull'idea che una civiltà aliena fosse arrivata sulla Terra. Inizialmente, Kubrick e Clarke pensarono proprio di rappresentare gli alieni. Questa intuizione presto naufragò. E non per la difficoltà di un esercizio immaginativo. Avevano già dato un volto agli alieni, ma Kubrick preferì un'altra opzione. Pensò che sarebbe stato meglio non far vedere la loro presenza, ma la presenza di una traccia che testimoniasse il loro avvento. In un racconto, Clarke aveva affidato alla traccia l'immagine di una piramide luccicante alta il doppio di un uomo. Gli esseri superiori, quindi, sarebbero stati evocati da Kubrick, per non essere poi riprodotti, mentre è stata riprodotta la traccia, che oggi vediamo e riconosciamo nel monòlito. Lo sguardo di Dave, dopo l'ingresso allucinatorio nell'atmosfera di Giove, riflette la Verità, l'Universo, la Traccia, il Senso della vita. Nello sguardo di Dave, che in ultimo avrà gli occhi abissali del Feto cosmico, c'è il destino dell'èpos umano, vissuto secondo la dimensione estetica di Kubrick. Il viaggio si interrompe nello sguardo di Dave, ma proseguirà nei nostri sguardi.

    Trasferimento nel letterario. Il mito di Ulisse, omerico, dantesco, joyceano, come motivo dell'esplorazione nel suo significato archetipico, può suscitare spunti di riflessione utili all'analisi di 2001. L'Oltre conoscitivo che determina la tensione dell'eroe è l'Oltre-logica che pervade i corridoi temporali di Kubrick, è nello sguardo di Dave còlto dal tremore della tensione verso l'Assoluto. Il canto delle sirene, nell'Ulisse omerico che confluisce in quello dantesco e poi joyceano, risuona con la voce della forma "organica" pensante Hal 9000, contraltare alle forme ibride non meno artificiali che distraggono l'eroe. L'Ulisse dantesco, tra Omero e Joyce, peccando di hybris, sfida il limite del conoscibile, avventurandosi ne "l'alto passo" e trovando "una montagna, bruna/ per la distanza, e parvemi alta tanto/ quanto veduta non avëa alcuna". Non vi è modo di andare oltre, e Ulisse si è avventurato troppo in là, sino alla montagna del Purgatorio, dove una "tomba d’acqua" si riversa sull'intero equipaggio. C'è una distanza, anche in questi versi danteschi che ho citato, capace di confondere la Visione, la distanza che fa apparire "bruna" la montagna, il limite conoscitivo, è la stessa distanza disarmante del monòlito, nonostante sia vicino al percipiente. Ogni volta che temerariamente ci si avvicina all'oggetto parenetico, "qualcosa" cambia nella nostra percezione, qualcosa che ci rende instabili, una sensazione interdetta a una possibilità connotativa e il nostro autore, che sia Dante o Kubrick, ricorre a una dislocazione temporale, quella "intersezione del tempo con lo spazio" (Bergson- Saggio sui dati immediati della coscienza- citato da Derrida) che crea uno sfasamento epistemico. In Dante, è la "tomba d’acqua" della punizione divina. In Kubrick, è lo slittamento semantico che ci conduce a una seconda soluzione narrativa, senza un apparente legame con la prima.

    Se il Pensiero puro nasce come immagine, la sua assenza, il suo nulla è la dissolvenza in cui lo sguardo precipita a nostra insaputa, svuotato dell'immagine. Mentre sto scrivendo, scelgo la forma-geroglifico-glifo-grafo raffigurante il mio pensiero, che è parte di un'immagine mnestica, a cui si rifà la scrittura come rappresentazione simbolica, e a cui ricorro per illustrare un concetto, la forma stessa. Il pensiero, per venire in superficie, deve farsi superficie. Il linguaggio è un gioco di associazioni, una tecnica mnemonica per il recupero del significante. Nell'arte eidetica, l'oralità non dà significato all'immagine, convoca semmai il reale, la storia, ed è, a mio avviso, un puro ornamento. In 2001 la parola è sovrabbondante, mentre la visione è una scrittura palpitante, ogni inquadratura è un ponte tra l'immagine e il senso che è in noi, in una proiezione inconscia. Il Pensiero come idea è associato a tracce musicali che non formano un sottofondo, ma estendono lo scritto della Visione.

    Conclusioni

    Il gigantesco affresco kubrickiano pone le basi per una riflessione filosofica sottesa a ogni inquadratura, ove la visione pura veicola il pensiero e l'esplorazione degli orizzonti conoscitivi nasce già nella coscienza di chi osserva, senza intermediazioni contingenti. Non ci poniamo il problema del “reale”, poiché nel momento in cui il proiettore alle nostre spalle illumina lo schermo, noi siamo portati a sospendere ogni dubbio sulle immagini che dialogano con il nostro interior. Il gioco si fa serio proprio perché il flusso ininterrotto del testo eidetico coinvolge direttamente gli animi e quelle immagini diventano nostre. Si verifica quello che io definirei uno “scavalcamento” del confine tra dentro e fuori. Alla fine di questo percorso, non si può che pensare il pensiero, ovvero tutto appare nitido se ci lasciamo condurre nel gioco aderendo “emotivamente” alla visione, e il messaggio diventerà chiaro attraverso la pura percezione. L'intuizione non precede il pensiero, è già in sé intelligere, conoscere.


    3. Il Perturbante (titolo originale Das Unheimliche – 1919) è la traduzione da parte di Silvano Daniele di uno scritto di Sigmund Freud, già apparso in S. Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio (Boringhieri, Torino 1969) vol. 1 pp. 269-307 – poi con alcune modifiche nel volume 9 (contenente gli scritti 1917-1923)- Prima edizione anno 1977 dalle Opere di Sigmund Freud pubblicate per i tipi dell’Editore Boringhieri.

    4. La durata prende così la forma illusoria di un mezzo omogeneo, e il legame tra questi due termini, spazio e durata, è la simultaneità, che si potrebbe definire l’intersezione del tempo con lo spazio˃˃ (H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, trad. di G. Bartoli, Boringhieri, Torino 1964, p. 116 – in Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, trad. di Gianni Pozzi, Giulio Einaudi Editore, Torino 1972).

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