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    ORANGES AND SUNSHINE

    RECENSIONE - Presentato il 29 Ottobre 2011 al V. Festival Internazionale del Film di Roma - In DVD (Regno Unito)

    (Oranges and Sunshine; REGNO UNITO/AUSTRALIA 2011; Drammatico; 104'; Produz.: See Saw Films/Sixteen Films)

    Locandina italiana Oranges and Sunshine

    Rating by
    Celluloid Portraits:




    Titolo in italiano: Oranges and Sunshine

    Titolo in lingua originale: Oranges and Sunshine

    Anno di produzione: 2011

    Anno di uscita: 2011

    Regia: Jim Loach

    Sceneggiatura: Rona Munro

    Soggetto: Tratto dal libro Empty Cradles di Margaret Humphreys

    Cast: Emily Watson (Margaret Humphreys)
    Hugo Weaving (Jack)
    David Wenham (Len)
    Richard Dillane (Merv)
    Tara Morice (Pauline)
    Stuart Wolfenden (Bill)
    Kate Rutter (Vera)
    Lorraine Ashbourne (Nicky)
    Federay Holmes (Charlotte)
    Harvey Scrimshaw (Ben)
    Molly Windsor (Rachel)
    Neil Pigot (James)
    Aisling Loftus (Susie)
    Heath Tammy (Susan)
    Geoff Revell (Syd)
    Cast completo

    Musica: Lisa Gerrard

    Costumi: Cappi Ireland

    Scenografia: Melinda Doring

    Fotografia: Denson Baker

    Montaggio: Dany Cooper

    Makeup: Peta Dunstall

    Casting: Kahleen Crawford e Nickki Barrett

    Scheda film aggiornata al: 27 Dicembre 2022

    Sinossi:

    In breve:

    Oranges and Sunshine racconta la storia di Margaret Humphreys, un'assistente sociale di Nottingham che portò alla luce uno dei più grossi scandali degli ultimi tempi: la deportazione di migliaia di bambini dal Regno Unito in Australia.
    Praticamente da sola, contrariamente ad ogni aspettativa e senza considerare troppo la propria convenienza, Margaret ha riunito migliaia di famiglie, preteso che le autorità si esprimessero e attirato l'attenzione mondiale su un incredibile errore giudiziario. Bambini di appena quattro anni furono traumatizzati dalla notizia, spesso fittizia, della morte dei propri genitori e spediti negli orfanotrofi dall'altra parte del mondo. Molti subirono orribili abusi. Gli avevano promesso arance e sole: ricevettero in cambio lavori forzati e una vita negli istituti.

    In altre parole:

    Ispirato ad uno degli scandali più recenti della storia inglese, il film narra la storia di Margaret Humphreys (Emily Watson), assistente sociale di Nottingham, che ha saputo svelare un segreto nascosto per anni dal governo britannico: 130.000 bambini inglesi indigenti inviati all'estero, nei paesi del Commonwealth e principalmente in Australia, alla fine degli anni '50. Bambini di poco più di quattro anni, a cui fu detto che i loro genitori erano morti, rinchiusi in istituti agli antipodi e spesso oggetto di terribili abusi. A questi bambini era stata promessa un'esistenza migliore "piena di arance e sole", ma hanno incontrato privazioni, orfanotrofi, preti poco evangelici. Margaret, lottando da sola contro ogni difficoltà, è riuscita a ricongiungere migliaia di famiglie, ponendo le autorità di fronte alle proprie responsabilità e attirando l'attenzione mondiale su un caso esemplare di malagiustizia.

    Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)

    Il regista Jim Loach - figlio d’arte di Ken Loach, da sempre regista di affreschi in celluloide che hanno portato sul grande schermo urticanti problematiche socio-politiche - qui con Oranges and Sunshine (2011) al suo debutto al cinema - con il focale apporto interpretativo di Emily Watson, porta alla ribalta un clamoroso scandalo indicizzato dalla stampa come “I bambini perduti dell’imperoâ€. Fenomeno che inquadra la straziante piaga di una vera e propria ‘deportazione di bambini in affido’, in particolare dalla Gran Bretagna verso l’Australia

    “C’è un ricordo molto forte: ero in Inghilterra, avevo 10 anni, venne un uomo da me e mi disse ‘ti piacerebbe andare in Australia? Il sole splende ogni giorno, sai, vivresti in una casa bianca, andresti a scuola a cavallo e raccoglieresti arance dall’albero a colazione, tua madre è morta, sai, perciò potresti’…Ora lei mi dice che non potrebbe essere morta, dopotutto?â€

    Buon sangue non mente: Jim Loach,

    figlio d’arte dell’autorevole Ken, con Oranges and Sunshine (2011) esordisce alla regia con un cinema di denuncia a caratteri cubitali. E lo fa con un racconto a corpo semplice, da cui d’altra parte dirama una tentacolare trama di drammi incolmabili, tutti ricollegabili tra loro, a vario e diverso titolo, nonché ad uno scandalo epocale, del genere che Peter Mullan aveva raccolto con il suo Magdalene. Qui, in Oranges and Sunshine (Arance e sole), titolo che si richiama insospettabilmente ad un’infame promessa, è di scena l’infanzia rubata e poi violata a ben 130.000 bambini.

    Una sorta di universo parallelo alla Shoah che al posto del nazismo, questa volta vede coinvolti il governo britannico con il concorso di associazioni umanitarie ed ecclesiastiche: in un’operazione all’apparenza a beneficio dei bambini più poveri e disagiati, che nella pratica assume le sembianze di una vera e propria, indegno e inqualificabile inganno, ‘deportazione’ verso il fantasmagorico

    mondo migliore, poi tradotto in allocazioni di fortuna, come orfanotrofi nei paesi del Commonwealth, principalmente in Australia. In altre parole, una “deportazione organizzata di bambini in affidoâ€, quando invece le autorità legali avrebbero dovuto fungere da tutorial. Con la significativa particolarità aggiuntiva che al posto del Paradiso, quei bambini estirpati indebitamente ai loro genitori dichiarati morti anche quando erano in vita, hanno trovato, ognuno il proprio inferno personale, fatto di abusi di ogni genere. Abusi tali da invadere e condizionare la loro esistenza da adulti. Uno scandalo inaudito, affiorato grazie all’operato ad alto tasso sacrificale, di una vera e propria ‘eroina per caso’ che risponde al nome dell’assistente sociale Margaret Humphreys, colei che ha raccontato la sua tormentata parabola d’inchiesta, osteggiata in ogni modo, e pure pesantemente, da tutti coloro che non volevano ammettere le proprie responsabilità, nel libro Empy Cradles (‘culle vuote’).

    E Jim Loach non poteva trovare interprete migliore

    di Emily Watson (Le ceneri di Angela, Gosford Park…) per incarnare anima e corpo questa donna tenace e al contempo ultra sensibile, disposta a sacrificare se stessa e la propria famiglia, comunque sempre al suo fianco anche quando distante, pur di inoltrarsi in un ginepraio documentario, tanto sommerso quanto ardente di ricucire, dove possibile, quei legami di sangue spezzati, limitando danni e ferite non rimarginabili. Identità rubate, violate e spezzate nel cuore della prima infanzia. Si scopre nel film che questa indegna pratica iniziata nel XIX secolo dai governi britannici per risparmiare sull’assistenza sociale, si è poi protratta fino al 1970.

    “Sue, ora tua figlia ha bisogno di stare al sicuro, e tu hai bisogno di un po' di sostegno, giusto?â€

    L’inizio entra subito nel vivo della questione e rischia di essere equivocato, perché a cercare di convincere una giovane madre a consegnare all’assistenza sociale la propria neonata è proprio lei, la

    Margaret Humphreys di Emily Watson. Subito dopo la ritroviamo in una sorta di gruppo di ‘supporto locale’ per adulti, tutti figli adottati. Ci troviamo a Nottingham nel 1986 e persino Margaret/Watson non ha idea del pandemonio che si ritroverà a scatenare aprendo il coperchio della prima pentola: a fine turno di lavoro, una donna chiede il suo aiuto perché non riesce a vivere nella costante incertezza di sapere chi è veramente, giacché all’età di quattro anni è stata trasferita in Australia. L’unica cosa certa è che è nata a Nottingham, ma né il suo nome né la data di nascita possono essere confermati: quel che si dice, un primo sassolino nello stagno, in grado di sollevare un maremoto. Il sogno del bambino di Margaret che dice di essersi trovato in un tunnel dove non riusciva a trovare la madre, non è che la metafora perfetta per richiamare all’attenzione un fattore

    inequivocabile: l’importanza imprescindibile del legame tra madre e figli per sentirsi esseri umani completi. Inizia per Margaret un viatico alla ricerca di vecchi registri da cui affiorano, un po' per volta, tra mille difficoltà burocratiche e spostamenti tra la Gran Bretagna e l’Australia, verità scomode, con i primi rintracciamenti di madri biologiche ancora in vita.

    E i confronti tra madre e figlio/a non sono mai facili:
    “devi capire come erano le cose quarant’anni fa. Vergogna, scandalo. Mia madre non mi voleva in casa… Mi portarono via la bambina da una casa di accoglienza…â€. La bambola che questa madre ha sempre conservato e che consegna alla figlia ormai adulta, alquanto amareggiata di questa verità ora rivelata, è il simbolo di un legame mai spezzato davvero, e che ha solo smarrito la strada, indipendentemente dalla propria volontà. Ma non è che una prima zolla tra la miriade di altre realtà che nel film,

    prendono corpo e anima per frammenti di testimonianze, disseminati qua e là: che altro non sono se non i rigurgiti mentali di ciò che si è ritrovata a raccogliere, del tutto imprevedibilmente, l’assistente sociale Margaret, cui sempre più persone ricorrono, dopo che la stampa ha portato la vicenda all’attenzione pubblica. Testimonianze raccapriccianti di uomini e donne adulti che sono stati costretti a bypassare l’infanzia per ritrovarsi a lavorare in schiavitù, in orfanotrofi costruiti da loro stessi, mattone dopo mattone, tra schiavitù ed abusi, con cibo e vestiti ad uso di una misera sopravvivenza, e che da adulti sono stati persino indotti a ripagare come debito del mantenimento ricevuto. Il tutto costruito sulle fondamenta di colossali menzogne raccontate a loro da bambini con la promessa di ‘Arance e sole’, per l’appunto.

    Storie e persone si intrecciano, mentre da queste famigerate ‘migrazioni’ a grappolo, affiorano nei termini di veri e propri piani

    organizzati. Così arrivano le minacce, le ingiunzioni a non interferire e ad occuparsi della propria famiglia, mentre intanto Margaret subisce uno stress del tipo post traumatico sempre più devastante, man mano che va sempre più in profondità nelle maglie della vicenda, assorbendo in sé tutta la sofferenza delle persone che incontra ora, ormai adulte, tentando di aiutarle a ricostruire la loro reale identità: “vogliono solo sapere chi sonoâ€.
    Sofferenze, rivelate con altra sofferenza, che sono di questo genere:

    “Era Natale! Ero davvero eccitato, avevo circa sette anni allora. Avevo una meravigliosa voce da cantante, tenevo dei concerti all’orfanotrofio, e questo dentista e sua moglie mi hanno chiesto di andare da loro e cantare a Natale. Fecero una grande festa, cantai l’Ave Maria, la donna mi disse che ero un angioletto e il dentista e altri due uomini mi portarono in bagno. E loro…â€. Testimonianza che affiora a tratti, in mezzo ai

    movimenti e i pensieri sofferti, fino alle lacrime, di Margaret/Watson, secondo un elegante e sensibile tocco di regia, oltre che di recitazione, e che si conclude con un silente piano sequenza appuntato sul volto di chi l’ha raccontata.

    Emily Watson poi, è davvero straordinaria nel ritrarre quel mix di affabilità e discrezione, di crolli fisici ed emotivi che stemperano in un ribasso temporaneo la sua incrollabile tenacia. C’è una sequenza in particolare che meriterebbe l’Oscar per regia ed interpretazione, tanto è potente nell’assordante silenzio che fa da contraltare. Ed è quella della visita accompagnata da quel Len (David Wenham) che concede a Margaret la sua fiducia dopo moltissimo tempo, e che la convince ad andare con lui in visita al famigerato orfanotrofio per rendersi conto con i propri occhi di che cosa si è trattato. Orfanotrofio cui ora, per sdebitarsi, Len/Wenham ha pagato a sue spese una piscina sul dietro. Motivo

    che non solo gli dà libero accesso all’interno ma che, colti di sorpresa, ammutolisce letteralmente i preti riuniti per la colazione, tra feroce imbarazzo e palpabile verità, cui non c’è niente da aggiungere.

    L’operato di Margareth Humphrey non si ridusse ad un’inchiesta personale per quanto fosse l’unica, col marito, veramente esposta nell’occuparsi della vicenda, ma creò una realtà associativa denominata ‘Child Migrant Trust’ che rafforzò l’indagine, così come i legami tra queste persone gravemente danneggiate, al punto che qualcuno, col senno di poi, non può evitarsi di considerare un triste dato di fatto: “non ci volevano, e le nostre madri sono andate avantiâ€.

    Così il corto conclusivo in bianco e nero, a sfondo documentaristico, con le foto d’epoca a ritratto delle centinaia di bambini, allora protagonisti inconsapevoli di questo scempio - cui hanno concorso, è bene ribadirlo, sia enti governativi che associazioni ecclesiastiche ed umanitarie - non ha bisogno di commenti,

    solo di lacrime. Inevitabili!

    Links:

    • Emily Watson

    • Hugo Weaving

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    Galleria Video:

    Oranges and Sunshine - trailer (versione originale)

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