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    L'INTERVISTA

    PLANETARIUM - INTERVISTA alla regista REBECCA ZLOTOWSKI (Parte 2)

    10/04/2017 - PLANETARIUM di REBECCA ZLOTOWSKI - INTERVISTA alla regista Rebecca Zlotowski (Parte 2)

    Dicendo questo, lei cerca di stabilire un parallelismo tra il periodo che stiamo attraversando e la fine degli anni ’30?

    "No, non direttamente. Non sono né economista né studiosa di storia e il parallelismo mi sembrerebbe naif, frettoloso e impreciso. Sicuramente il populismo è in forte ascesa e noi ci troviamo in un clima di regressione colossale su tutti i livelli, morale, religioso e politico: ma le due epoche non si sovrappongono. E poi, che l’immaginario degli anni trenta ricordi la nostra contemporaneità è un eco, una rima che non mi infastidisce, fintato che porti a riflettere. Gli anni trenta portano, in termini di fiction, una certa minaccia propria al thriller. Per dire le cose in modo semplice, sappiamo che sta per accadere qualcosa di catastrofico, che la catastrofe è vicina, imminente: è un potente strumento di narrazione, di senso e di atmosfera che mi è stato utile per
    parlare d’oggi".

    E’ stato in quel momento che è intervenuto nella scrittura lo sceneggiatore e cineasta Robin Campillo? Lei che è anche sceneggiatrice per altri registi, come si è confrontata con questa
    scrittura?


    "Sì, ho esposto a Robin il concetto: come fare incontrare nella Parigi degli anni Trenta due americane con un produttore cinematografico ispirato a Bernard Natan? E’ stato stranamente 'Eastern Boys', film sconvolgente, molto impressionante, che mi ha convinto ad incontrare Robin Campillo, molto più che 'Les Revenants' che lui ha scritto e realizzato e che ha le caratteristiche di un fantasy intelligente, potente, originale, molto realista, senza effetti speciali, come volevo che fosse anche il mio film. Quando l’ho incontrato con la prima bozza della storia sulla quale potevamo già lavorare, Robin Campillo mi ha detto: 'Ciò che mi interessa nel tuo soggetto, è che si tratta della storia di Mosè e Aronne. E’ la storia di due sorelle delle quali una ha un dono e l’altra ha la capacità di venderlo'. Questa allusione celata alla leggenda di Mosè e Aronne – Mosè che aveva compreso il pensiero divino ma senza riuscire a trasmetterlo e Aronne che dominava l’arte oratoria ma falsificando la realtà – mi è sembrata straordinariamente ricca. Il tratto d’unione tra le sorelle era lì. Il concetto di una sorellanza potente, segreta. Un rapporto inalterabile basato su un’assenza totale di comunicazione, su un profondo malinteso. L’amore tra due sorelle mi sconvolge, c’è una linea di intimità affascinante sulla quale volevo lavorare ancora dopo Belle Epine".

    Come avete lavorato concretamente insieme? Cosa ha apportato Robin Campillo?

    "Scrivere a quattro mani significa sempre reinventare le proprie regole. Scrivo per gli altri e quindi sono abituata ad avere la penna in mano e Robin ha agito ai due estremi del progetto: sull’architettura globale del film, il suo equilibrio, il suo senso, la sua coerenza. E poi più nel dettaglio: nei dialoghi, che potevano ribaltare completamente una scena. Robin ha sistematicamente 'protetto' il film dalle facilonerie della sceneggiatura, rigettando la tentazione di scene spettacolari, di lirismo troppo visivo, che avrebbe spiegato troppo crudelmente i pericoli e le minacce che incombevano sui personaggi. Lo sceneggiatore è il biografo dei desideri del film, ricordandomi perché l’ambiguità di una scena deve essere custodita piuttosto che chiarificata, messa alla luce. Ed è così che grazie a Robin Campillo, il film si è nutrito rispettando il proprio inconscio".

    Cosa intende quando parla di inconscio del film ?

    "Fin dall’inizio mi sono fidata del mio inconscio durante il lavoro di creazione del film, dalla scrittura alla realizzazione: questo non significa che ho improvvisato – si improvvisa poco nei miei film. Ma ho voluto fidarmi del potere di suggestione dei personaggi, nel lavoro minuzioso attorno alle scenografie, ai costumi che è stato enorme in questo film. Ho rifiutato la dimostrazione, il lato enfatico, volontario, che possono essere frequenti nei film in costume. Per esempio, la scena del fantasma del padre che ritorna (interpretato
    da mio padre…) parlando in yiddish in mezzo ai soldati in tenuta da prima guerra mondiale, l’abbiamo finita di scrivere pochi minuti prima dell’inizio delle riprese. Robin mi aveva letto, la mattina stessa, un passaggio di Salammbo di Flaubert, che torna più volte nel film in momenti inaspettati e che porta finalmente una questione che invade tutto il film (la promiscuità degli uomini in guerra, ma anche l’avvicinarsi della guerra creano dei legami fortissimi, 'l’ante-guerra'): abbiamo avuto bisogno di un anno di lavoro per emergere la verità dal film".

    Come avete pensato a Emmanuel Salinger?

    "E’ entrato nel progetto molto velocemente ma per vie sotterranee. E’ iniziato con lo sguardo di Peter Lorre in 'M – il mostro di Dusseldorf: un colpevole innocente'. Gli occhi di Lorre e di Salinger si sono sovrapposti immediatamente per me, poiché lui mi aveva sempre accompagnato nel mio immaginario cinematografico. E poi penso che questa storia di fantasmi dovesse legittimamente portarmi a far resuscitare un fantasma nella mia memoria, se non in quella dell’industria: anche se Emmanuel Salinger non è sparito dopo 'La Sentinelle' o 'Comment je me suis disputé', ha avuto su di me un effetto di apparizione/sparizione. Lo abbiamo lasciato a 20 anni e ora risorge con i capelli bianchi, come nella scena di un film di David Lynch. Ho pensato molto a Esther Kahn, perché è la storia di una giovane donna che scopre a teatro la possibilità di provare emozioni. E’ chiaramente un capolavoro al quale ho pensato molto mentre facevo il film. La porosità di tutto questo immaginario (quello che apporta l’attore Salinger, quello che apporta il regista Desplechin) mi ha naturalmente condotto a Emmanuel, e le nostre prime prove mi hanno abbagliata. E’ stata la mia prima scelta per questo ruolo".

    Ed è qui che è arrivata Lily Rose Depp…

    "Il ruolo era centrale, il film raccontava quasi in parti uguali la creazione di una famiglia di tre elementi: due sorelle e un produttore cinematografico. Non cercavamo solo la sorella di Natalie Portman, ma una giovane attrice capace di mettersi in trance, tanto da potere farci credere di 'comunicare' con i fantasmi. Come per
    'Belle Epine', non avevo voglia di lanciare dei casting selvaggi nelle strade ma di andare a cercare delle giovani ragazze che avessero già un vero desiderio di recitare, che fossero già delle attrici. C’è una sorta di impronta nel corpo e nello spirito che mi rassicura poiché non ho l’impressione di rubarle alla vita di adolescenti per immergerle nel mondo del lavoro che è in un senso bello, imprevedibile e gratificante, come il mondo del cinema. C’era anche l’ostacolo del dialogo: Kate, nel film, doveva essere un’anglofona che
    impara velocemente il francese… Ho avuto queste intuizioni quando Natalie mi ha inviato una foto di Lily Rose Depp, me l’ha in qualche modo designata, anche per la loro somiglianza. Tutto mi piaceva di quella immagine, un corpo di una finezza inaudita sormontato da un viso particolare, gracile e curioso, perfettamente insensibile alle smancerie, ma anche che fosse stata scelta da Natalie, che l’ha subito messa sotto la sua ala protettiva. Ho adorato che la costruzione di questa sorellanza fittizia abbia funzionato così bene. Lily Rose Depp poi, essendo una giovane donna che non aveva ancora fatto quasi nulla, provocava già una forma di eccitazione, una grande curiosità e desiderio di scoperta. Non era una sconosciuta. Era già stata notata da altri, come Natalie quando aveva la sua età… Il ruolo che volevo affidarle era quello di una giovane medium che faceva il giro del mondo, di una ragazzina che possedeva già un dono e un senso, tutto era coerente, tutto era al servizio del film. Questo mi ha dato la possibilità di equilibrare il film poiché trovavo il personaggio di Korben narrativamente molto potente, con la paura che questo potesse rendere il film traballante. Mettere in scena due attrici così seducenti e potenti nell’industria ha ristabilito la forza del film".

    Com’è andato l’incontro?

    "Ho incontrato Lily Rose molto velocemente e all’epoca molto semplicemente, 'à la francese', senza passare per decine di intermediari: aveva appena finito un film e viveva a Los Angeles. Ci tenevo a fare delle prove con lei da sola, poi con Natalie, per vedere se tra loro poteva funzionare. Il casting è stato interrotto non appena è entrata nella stanza. Abbiamo camminato, parlato di cinema, dei suoi desideri, dell’impegno che avrebbe richiesto, lavorato su qualche scena, nelle due lingue. Lei ha questo: doppia cultura, doppio lessico, doppio cervello capace di armarsi su due fronti, due continenti. Volevo fare di Kate un personaggio responsabile, adulto, saggio e in grado di sopravvivere di città in città, di paese in paese, che conoscesse le difficoltà della vita, gli eccessi, che amasse l’alcool anche se ancora molto giovane, ma allo stesso tempo che potesse essere colpita da sprazzi di infanzia e che le facessero accettare degli uccellini come doni preziosi. Questa giovane attrice dal fisico così fragile porta una forma di espressività molto simile a quella del cinema muto, à la Lilian Gish che può far capire che è una delle rare adolescenti alle quali non devi cambiare nulla, nemmeno un capello, per farla entrare in un costume d’epoca… Aveva quasi 16 anni: è stato molto emozionante sapere che avrebbe fatto altri film, che avrebbe avuto un destino da attrice".

    La sceneggiatura racconta la storia di un produttore che cerca di rilanciare il cinema usando nuove tecniche. Planetarium è girato nel momento in cui il cinema stesso passa da un'epoca all'altra: dalla
    pellicola al digitale. Anche lì, c'è una sovrapposizione


    "Sì, nel clima del pettegolezzo e della maldicenza in cui ci troviamo - in cui le cospirazioni sono divenute la matrice di ogni pensiero, c'è una grande crisi di diffidenza verso l'immagine. Sicuramente ciò è legato anche alla rivoluzione antropologica del digitale. Quanto vale un'immagine filmata in digitale, rispetto alla pellicola, se non garantisce più che ciò che è successo davanti alla telecamera sia successo realmente? Tutto non può che essere un sogno, un'apparizione. Il formato digitale dunque riattualizza bene le fantasie, e se può portarci alla crisi dell'immagine, a questa grande idea di un complotto, dell'inganno, mi sono persuasa che fossero questi racconti a dover essere reinventati con i nostri mezzi. La
    diffamazione, le cospirazioni, l'omofobia, i razzismo, l'antisemitismo, hanno la stessa energia potente della finzione, dello storytelling, al servizio del maligno. All'opposto del cinema: finzione radiosa, gloriosa, positiva, in cui il falso, l'artifizio, creano del vero. È per questo che al di là della sua banalità oggi, l'uso del digitale nel
    film aveva senso".

    È questo che spiega perché siete arrivati a girare con la nuova videocamera digitale Alexa 65, conosciuta per alcune scene di 'The Revenant', ma ancora molto rara, soprattutto in Francia?

    "Sì. È stato un lungo percorso perché io sono più che altro dell'idea che non ci si debba proteggere mettendo videocamere in tutte le direzioni e che girino in continuo, ma scegliere, con la pressione di una ricarica di 10,12 minuti, e una sola videocamera, il punto di vista della scena, con l'idea che la ripresa sia un momento eccitante che costa caro e metta gli attori in uno stato di eccitazione, di nervosismo. Penso che ciò venga dalla mia intuizione che il cinema non esiste per catturare ciò che vive, ma per registrare la scomparsa. Quindi per una volta il digitale mi tentava molto. Ma ero infelice perché non avevo trovato il digitale che mi piaceva, che restituisse le stesse emozioni della pellicola e gli stessi protocolli. Poi ho sentito parlare della videocamera Alexa 65 che ritrova la qualità della pellicola grazie a una quantità di informazioni fenomenale, in particolare con le luci basse. Quando non c'è molta luce, questa videocamera consente, nonostante tutto, di ottenere il massimo della realtà e di colpo, la trasforma per un eccesso della realtà. Si, si può dire che permetta una trasfigurazione della realtà in iper-realtà, il che mi sembrava incredibile per un film in costume: non avremmo cercato di ricostruire l'epoca minuziosamente, ma di reinventarla con i mezzi di oggi. Abbiamo fatto delle prove e dai primi tentativi, innocui, un viso su uno sfondo nero, abbiamo subito visto che si trattava di qualcosa di speciale. Così che all'inizio, è stata una scelta teorica - il formato del sospetto che è il digitale - alla fine, con questa videocamera, ci si è ritrovati come degli avventurieri che usano una tecnica tutta nuova. C'era un'atmosfera di eccitazione e di desiderio intorno a questa videocamera, anche nel personaggio del
    film che pensa di rivoluzionare il cinema inventando una videocamera capace di filmare dei fantasmi... Questo lato ovviamente ci piaceva molto e aveva un senso. Ironia della sorte: le memorie dell'Alexa 65 contengono talmente tante informazioni che bisogna ricaricarle esattamente come un caricatore di pellicola... Si ritrovava la stessa eccitazione della ripresa con la pellicola. In ogni epoca, i cineasti devono domandarsi: cosa c'è che appartiene solo a noi? (che non appartiene alla televisione ad esempio). La Alexa 65, è, oggi, il mezzo che non appartiene che al cinema".

    Il film sembra abbracciare delle tematiche e dei temi cosi diversi e forti che lo spiritismo, la sorellanza, il ritratto di una donna potente, la costruzione di una famiglia, il crescendo degli estremismi e del nazismo in Europa, il cinema degli anni trenta… Come ha lavorato per legare fra loto tutte queste tematiche? Era la volontà cosciente di aprire così tante porte?

    "Lo prendo come un complimento: è sempre difficile mantenere un equilibrio nel mettere insieme in meno di due ore un’idea nata dalla complessità e dall’ambiguità di un mondo immaginario – là dove le serie televisive stanno per diventare dei rivali, proponendo alternative dalle durate opportune. Questa diversità di temi è
    stata esplorata, insieme a Robin Campillo, mettendoci al servizio del film seguendo il manuale dello sceneggiatore: abbiamo lavorato in modo tale che tutte le scene potessero avere diversi livelli di lettura – razionale, poetico, politico – senza mai pensare se lo spettatore sia portato o meno a credere a ciò che vede sullo schermo. Razionale: come due giovani spiriti americani aiutati da un produttore francese a filmare dei fantasmi, senza capire che sarà artefice stesso della propria caduta. Politico: il destino di questa famiglia improvvisata, costruita dal caso, della solitudine in un mondo che si inasprisce nel pieno della crescita degli estremismi. Poetico: come il cinema apre l’unica porta possibile, come un credo che ci permette di sopravvivere ai nostri fantasmi… La fede, la speranza, i sentimenti tra i personaggi, il cinema e le politiche
    sono stati intimamente mescolati. I fantasmi, gli spiriti evocati da Korben nel film, rispondono per esempio a quel principio. E’ stata soprattutto la possibilità, spero, di far emergere un vero progetto estetico, plastico, e romanzesco".

    Se lei dovesse collocare il film in un genere, quale sarebbe?

    "Un film d’avventura. Ci viene chiesto spesso di scegliere sia in campo critico che in campo narrativo, tra il naturalismo e la stilizzazione. Non voglio decidere. Penso molto a quello che diceva Breton du Douanier Rousseau: il realismo magico. Alla fine di questo lungo tragitto percorso dagli eroi in questo romanzo, mi piacerebbe che il film raccontasse che non siamo mai consci dei nostri stessi segreti".


     
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