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    L'INTERVISTA

    ROMANZO DI UNA STRAGE - INTERVISTA al regista MARCO TULLIO GIORDANA & CO. (A cura dell'inviata SARA MESA)

    05/04/2012 - Il film ROMANZO DI UNA STRAGE è una dichiarazione di consonanza da lungo tempo di Giordana al modo di guardare il mondo che fu di P.P. Pasolini? E comunque chiamare un fatto storico evocando il romanzo e fare un film che non è un documentario, ma è davvero un film, è una scelta ed un percorso.

    MARCO TULLIO GIORDANA: "Eh si perchè bisogna fare i conti soprattutto col cinema se uno è un cineasta, perchè poi quando si passa nell’altrove ci saranno schierati Hughes, Ford e Bunuel che ti fanno l’esame d’ammissione e dicono 'e tu che cosa hai fatto ragazzo'? Non è che ci saranno De Gasperi,Togliatti o altri, quindi uno deve sempre pensare a fare i conti col cinema esemplare. Romanzo di una strage perchè evoca il titolo di quel bellissimo intervento di Pasolini del ‘74, perchè lui in quel momento di assoluta solitudine scrive: 'io so ma non ho le prove'. Ora noi dopo 40 anni abbiamo le prove, possiamo fare i nomi, è giusto farli e come mi faceva osservare Gifuni oggi possiamo dire 'noi sappiamo' che è più forte di 'io so'. E’ importante se una tragedia come quella di Piazza Fontana e la sua spiegazione entra a far parte del dna di un popolo, come la nozione di risorgimento che uno non ha vissuto, ma come parola evoca in noi il sentimento di appartenenza, di radice e Piazza Fontana non può essere qualcosa di sconosciuto,un punto di domanda e basta. Alcuni di noi sono stati contemporanei ai fatti, sanno qualcosa, ma penso soprattutto ai giovani, chi non sa nulla e non è aiutato dalla scuola o dai genitori, magari contemporanei a quegli anni che ricordano schiavi dei pregiudizi dell’epoca, ha il diritto di sapere. Un film serve a creare il sentimento forte di un avvenimento e a spiegarlo con gli strumenti dell’arte. Penso a Pasolini anche perchè all’indomani della strage scrisse una bellissima poesia dedicata alle vittime delle stragi descrivendole uno per uno, dando un corpo, una voce, una storia, è un po’ questo che mi ha guidato. In generale io ho avuto la fortuna di essere un ragazzo quando Pasolini scriveva e di non essere allo sbaraglio di fronte agli avvenimenti. Oggi i ragazzi non hanno questa fortuna quindi diventa anche un dovere per chi fa cinema, per chi crede nel cinema, vale la pena di crederci, ho potuto fare questo film in assoluta libertà, senza avere paura di sfidare i santuari o rischiare la causa. Quindi Pasolini come esempio dell’apllicare l’intelligenza, che deve essere poetica prima di politica, perchè la politica è molto restrittiva nel suo sguardo mentre le arti hanno uno sguardo più lontano e capace di toccare il cuore delle persone, perchè un’informazione che non è agganciata ad un’emozione non si attacca e quindi si disperde".

    Il film per ovvi motivi è molto scritto, tante cose devono essere dette e intrecciate, ma ci sono dei momenti di cui nessuno vi ha fornito documentazione, avete dovuto ricreare, inventare, dalla stanza di Calabresi, al dialogo di Moro e Saragat che è uno dei momenti centrali, qualcuno vi ha fornito dei dati o avete creato tutto? E sulla doppia bomba, è la tesi definitiva? Che percentuale c’è che sia la vera e unica tesi, e le bombe sapevano l’una dell’altra?

    STEFANO RULLI: "La difficoltà più grande è stata all’inizio capire quale dovesse essere il senso del lavoro che dovevamo fare. Il cinema politico in passato ha fatto film su temi molto importanti, grandi verità che non si sapevano, pensiamo a Salvatore Giuliano. In quei casi la cosa più difficile era dire ciò che non veniva detto sulla stampa e dalla politica, perciò attraverso una specie di indagine riuscire a trovare delle verità non raccontate. La storia di Piazza Fontana è diversa, è la storia di troppe verità che si sono sovrapposte, troppe sentenze che si sono sovrapposte, perciò riuscire a capire qual è il filo, qual è il senso di alcuni sprazzi di verità, uno sa che Pinelli è morto quella notte in questura cadendo dalla finestra, però ad esempio altri pezzi sono legati al ruolo che hanno avuto i servizi segreti, come tutti questi pezzi riescono a trovare un senso. Romanzo è anche questo, il tentativo di ritrovare un filo, un senso attraverso degli indizi che ci sono, non è che è un’opera di fantasia. Quando tu per esempio mi chiedi della scena tra Saragat e Moro, alle spalle c’è tutto un lavoro di documentazione molto ampio che rimanda ad alcuni libri, uno in particolare, poco noto, di Bellini, uno storico che aveva rapporti con i servizi segreti inglesi e dà una versione di quei fatti attraverso lo sguardo dei servizi inglesi che in quel momento essendo in conflitto con i servizi americani hanno fornito a quelli italiani tutta una serie di informazioni, e in particolare rispetto al ruolo di Saragat c’è stata una posizione molto critica dei servizi inglesi che, pochi giorni prima dell’attentato hanno, fatto uscire un servizio su «the observer» che ricostruiva una registrazione di un intervento di un ambasciatore greco che dava l’idea che si stesse pensando a fare un colpo di stato in Italia. In qualche modo la critica a Saragat è un tentativo di ricostruire un ordine in questo paese attraverso una riforma costituzionale che sarebbe stata drammatica. Dall’altra parte l’atteggiamento di Moro di cercare di vivere questa tragedia cercando di evitare che diventi ancora più generale, che questa verità possa trasformarsi in qualcosa di indicibile che crei una spaccatura nel paese risponde alle filosofie di questi politici. Diciamo che la ricostruzione di quel dialogo parte da alcuni dati di realtà, ma soprattutto ricostruisce il ruolo che quei due personaggi storici hanno avuto in quel periodo nella storia di Piazza Fontana. Sulle due bombe diciamo che il libro di Cucchiarelli ha avviato un lavoro di ricerca che documenta in qualche modo da vari punti di vista che le bombe dovevano essere due, come si dice nel film la quantità di gelinite che poteva essere inclusa in quella scatola era inferiore al grado di devastazione che ha creato. Ci sono una serie di dettagli e perizie balistiche, come la miccia che era fuori dalla scatola e viene riportato quei giorni anche dai giornali e poi sparisce, questi due o tre elementi avvalorano l’ipotesi che le bombe siano state due".

    C’è stato un lavoro sui personaggi incredibile, che cosa sapevate e cosa vi hanno lasciato questi personaggi? Mastrandrea è stato straordinario quindi cosa ne pensa di quel commento di ieri del figlio di Calabresi sul «Corriere della sera», forse era troppo preso emotivamente?

    PIERFRANCESCO FAVINO: "Io conoscevo la vicenda di Pinelli per passione di lettura, sapevo cos’era accaduto a Piazza Fontana, sono del ’69, per una serie di circostanze avevo 41 anni quando il film è stato fatto come pinelli quand’ è morto, ho delle figlie, insomma ci sono una serie di cose che anche banalmente mi avvicinano e in generale sono sempre molto attratto dalle storie che hanno a che fare con la giustizia e l’ ingiustizia, quando il sogno di una persona viene spezzato. E’ sempre difficile parlare di un personaggio all’interno di una cosa così, io sono molto toccato dalla vicenda di questa persona e ho avuto la fortuna di essere bene accolto insieme a Michela in casa Pinelli, guardare in faccia sua moglie, le figlie…può sembrare una cosa che sminuisce ma mi sono domandato se io un giorno uscissi di casa e non facessi più ritorno a casa mia che cosa comporterebbe, o anche solo se quel motorino fosse andato in panne o anche solo se fosse stato un’altra persona e non avesse sentito la necessità di salire quelle scale da cui non sarebbe più tornato indietro. Io sono aiutato dal film in questa cosa perchè, e qui ci metto anche i personaggi di Calabresi e Moro, tutti quanti sappiamo che non ci sono più e che hanno avuto una morte molto tragica, in questo senso è anche più semplice essere aiutati dal film nella ricostruzione. Con Marco Tullio non abbiamo voluto farne subito degli agnelli sacrificali, Pinelli balbettava, se ne avessi fatto un balbettante sarebbe stato subito «oh vedi poverino», era probabilmente di un’energia meno sanguigna di quella che Marco Tullio mi ha suggerito, secondo me dà una lettura ancora più onesta di quelli che sono stati i fatti. Quello che mi ha lasciato è innanzitutto l’orgoglio di averlo fatto, di aver conosciuto la sua famiglia e l’importanza di raccontare oggi un momento storico che io non ho vissuto così e facendo una riflessione tutti insieme Marco Tullio ha detto una cosa che mi ha fatto pensare, probabilmente dal dopo guerra al 69 l’ipotesi di una democrazia c’era, l’ipotesi che gli individui si sentissero parte di un progetto comune per il quale costruire un paese di cui sentirsi parte e in cui vedere i propri governanti che con la stesa trasparenza lo portavano avanti è stata interrotta brutalmente, quindi noi non abbiamo mai avuto esperienza di essere individui in un paese nel quale credevamo, quando si dice innocenza interrotta penso che sia importante e quando si dice “la verità esiste” credo che sia un auspicio, penso che si possa richiederla e modestamente mi metto sull’onda di quello che credo Napolitano su tutti stia cercando di fare".

    VALERIO MASTRANDREA: "Io invece mi sono preparato in tutt’altra maniera, nel senso non entrando in contatto con la famiglia, un po’ per pudore un po’ perchè pensavo fosse necessario più che andare a fondo, visto che il film aveva tessuto un terreno abbastanza veritiero di chi era calabresi prima della morte di Pinelli e chi fosse stato dopo, pensavo fosse più interessante liberarmi personalmente dal pensiero moderno, del pensiero di oggi, che credo sia anche figlio di Piazza Fontana. E’ incredibile quanto Piazza Fontana sia vicina, piano piano che ci penso, che ne parliamo, capisco che non è vicina, è vicino il senso di impunità che ha lasciato quell’episodio lì, vicino significa che anche oggi possiamo assistere a fatti del genere anche se meno gravi o comunque in cui si usano altri metodi, ma il senso di impunità accompagna questo paese in maniera possessiva, per questo la sento vicina e molti pensano che possa essere successa ieri mattina. Il lavoro è stato molto complesso e continua perchè non è un lavoro prettamente tecnico per me, è un discorso che ho aperto magari con me stesso e tutta la mia storia, le mie opinioni e va avanti. Sicuramente è stato il lavoro più difficile che ho fatto da quando ho iniziato, sono passati 20 anni insomma e prima o poi doveva arrivare".

    P. FAVINO: "Sarebbe bello che lo vedessero persone di 17-18 anni. A me piacerebbe che potessero pensare che è stata una cosa in qualche modo vicina alla sensazione che può aver dato l’11 settembre, quelle vicende in cui il mondo si inclina visto che poi siamo noi che dobbiamo portare alle persone che vanno a vedere il film un aggancio con le loro verità, io credo che l’Italia abbia vissuto quello stesso tipo di shock all’epoca".

    Come mai il cinema italiano ha dovuto aspettare 43 anni per occuparsi di un film sulla strage di Piazza Fontana, cos’è stato? Mancanza di coraggio? Censura ideologica?

    M. T. GIORDANA: "Io non l’avrei saputo fare prima sinceramente, perché ho dovuto liberarmi di molte idee ricevute, pregiudizi anche difensivi perchè quando uno deve assorbire un urto di quel tipo si dà delle spiegazioni al momento che non sempre sono esatte. Su Piazza Fontana è stato fatto un lavoro di depistaggio e disinformazione incredibili all’epoca, dove sono cascate vittime consapevoli o no anche i giornalisti di allora. Straordinaria è la figura di Nozza che era un cronista de «Il giorno» che rappresenta ciò di cui c’è necessità, un’informazione che non legge veline, wikipedia o i comunicati, che consuma le scarpe; ecco Marco Nozza era uno di quei giornalisti lì, ce n’erano 4-5-6 lui li sintetizza tutti e senza di loro non avremo mai capito tante cose, per cui grande onore e riconoscenza a questo tipo di giornalismo. Ho dovuto aspettare anche una certa maturità artistica per poter imparare a mettermi nei panni di tutti, soprattutto se racconti dei personaggi controversi, devi avere un’abilità shakespeariana diciamo così, devi entrare dentro di loro, questo lo puoi apprendere solo se leggi molto quella letteratura lì, non l’impari dalla politica purtroppo, la politica insegna a separare a semplificare, a creare delle parole d’ordine, degli schemi e gode nel dividere, è esattamente il contrario dell’arte che è analitica, scava, si mette nei panni del carnefice, della vittima, oppure scopre che il carnefice non è un carnefice, soprattutto ti tocca e ti commuove proprio per questo suo sguardo ad ampio spettro. Ci vuole del tempo non si nasce imparati, per cui mi sarebbe piaciuto farlo a 30-40 anni, ma non sarei stato capace, ho imparato un po’ a guardare in questo modo proprio dai film di Pasolini e quindi studiando lui e cosa ci ha insegnato, esattamente questa libertà dei punti di vista, che non significa rinunciare ad un proprio giudizio, ma «percorri tutte le tappe e poi formulalo», non formularlo prima, adesso mi sentivo che potevo farlo, non da solo naturalmente. Prima ancora che uscisse il film sono già partite delle polemiche «non ho visto il film però…» no, non hai visto il film quindi stai zitto! Vorrebbero che scagliassi l’anatema contro Paolo Cucchiarelli perchè nel suo libro «Il segreto di piazza fontana» sostiene la teoria delle due bombe e sostiene tante altre cose, diciamo che sostiene mille cose, io su tre non sono d’accordo ma sulle altre 997 si, ma io perchè devo scagliarli l’anatema? E’ lecito essere in disaccordo su tre cose secondo me? Si, quando tutti mi chiedono di scagliargli l’anatema a me viene voglia di difenderlo anche se avesse torto. Io non sono d’accordo con te Paolo su alcune cose che sai perchè ne abbiamo discusso, ma siamo amici e ti voglio ringraziare per il lavoro che hai fatto, senza il quale a questo film mancherebbero dei pezzi. Bisogna imparare ad avvalersi dei contributi di persone che lo fanno seriamente e in buona fede senza pretendere a priori di dire subito: ci sono i buoni e i cattivi. Ci tenevo a dirlo perchè non vorrei che sembrasse che io ti mollassi, io non ti mollo anche se tu avessi torto sulle altre 997 cose".

    C’è una scena che ha lasciato perplessi chi come me all’epoca c’era e ci è cresciuta con queste storie ed è la scena dell’interrogatorio a Pinelli dove noi vediamo delle tazzine, un certo savoir faire, non leggiamo affatto una tensione che sfocerà nella tragedia. Allora io mi chiedo come l’avete ricostruita? Quante domande vi siete fatti? Siete sicuri che nella questura di Milano a ridosso delle bombe un anarchico venisse interrogato con tanto rispetto e tanta grazia?

    M. T. GIORDANA: "Io non sono stato interrogato in quell’occasione, ma da Calabresi si, perché avevo occupato il mio liceo e ci venne a pizzicare tutti quanti per farci una ramanzina. A me colpì molto questo commissario che aveva l’età di mio fratello maggiore, ,quest’impermeabile bianco, dei modi molto cortesi, era laureato, sapeva tutto di tutti i movimenti, della letteratura di Bakunin, Marx ecc. Dopo ne avrei visti tanti di poliziotti così, ma allora era veramente una mosca bianca. L’interrogatorio quando c’era Calabresi non volavano gli schiaffi come volavano quando usciva dalla stanza, basta vedere i film americani quando c’è il poliziotto buono e quello cattivo. La ricostruzione esatta di quello che successe nella stanza io non la posso fare perchè non ero lì, sono tutti morti quelli che c’erano tranne il tenente dei carabinieri Savino Lo grano che è a Torino, voi siete dei giornalisti, avanti, tirategliela fuori la verità! Lui può dire cosa è successo, io posso fare delle supposizioni secondo me molto verosimili, che mi fanno capire che certo Pinelli non si è suicidato, certo non è stato per sbaglio che uno vicino alla finestra cade a corpo morto così, credo che uscito Calabresi sia volato qualche ceffone di troppo, un uomo che era trattenuto lì illegalmente da tre giorni senza mangiare e bere e che su quella ringhiera così bassa, che poi venne alzata nei giorni seguenti perché non accadesse più qualcosa del genere, sia caduto fuori dalla finestra, cosa che non credo volessero gli uomini della questura perchè in quella via si poteva vedere dall’edificio prospiciente tutto quello che avveniva dalla finestra di Calabresi. Non credo volessero buttare giù un anarchico, sarà successo un pasticcio, sarebbe stato meglio che la questura dicesse 'è successo un pasticcio' invece che cominciare a mentire 'si è suicidato, era implicato con la strage ecc' perché quel veleno che poi è finito tutto addosso a Calabresi è iniziato lì, il patto si è rotto lì, non tanto sulla strage, la strage è stata orribile, ma pensare che gli uffici che dovevano indagare cominciano a mentire, è quello che ha distrutto l’innocenza di chi poteva credere nella democrazia. E’ come se tu giocassi a carte con tuo padre e scoprissi che bara, ti porta a due reazioni: o ti deprimi e inizia a drogarti - che è successo - o bari anche tu; hai bisogno di un padre, di un amico che non barino, hai bisogno che tutti giochino a carte scoperte, se in una comunità uno inizia a fare il furbo poi tutti gli altri, i più fragili, credono di dover barare anche loro. Quindi parte tutto nella stanza di Calabresi quella notte, perchè forse la cosa sarebbe stata ancora recuperabile se avessero detto la verità e non quella sequela di menzogne orribili riportate anche da tutti i quotidiani tranne «Il giorno» che ha reso l’opinione pubblica totalmente incredula, perchè non è che eravamo tutti scemi, nessuno pensava che Pinelli si fosse suicidato. Però quella deformazione durata tre giorni ha avuto effetto su Calabresi, perché abbiamo tutti creduto che l’avesse buttato lui, siccomme tutte le testimonianze erano concordi che lui non fosse nella stanza e non sono mai venute meno, non ci sono mai state crisi di coscienza, poteva voler dire solo due cose, o che era lì e l’aveva buttato lui e dovevano coprirlo, oppure che non c’era, come credo io e come mostro nel film".

    Le immagini dell’autunno caldo di Milano mi hanno ricordato moltissimo le immagini recenti di Genova, ci sono molte analogie secondo me nel film e negli eventi tra l’allora e l’oggi, sono volute o sono frutto del caso?

    M. T. GIORDANA: "No in quel caso io ho ricostruito una mia esperienza personale, perché ero alla manifestazione in cui è morto Annarumma, tra l’altro in circostanze particolari, perché ho cercato nella questura di Milano, grazie anche alla disponibilità del questore che mi ha fatto andare dove volevo, dicevo: «vorrei vedere l’incartamento di Annarumma» «prego», «quello Feltrinelli» «porti», «Calabresi» tute le foto, «Pinelli» «non c’è», ah vabbè sarà per un’altra volta, «Annarumma» «non c’è». Siccome scrissero tutti i giornali che fu ucciso con un tubo innocente scagliato da un manifestante, il tubo innocente anche nella misura minima di 90 cm non è che si può portare a casa quindi sarà rimasto lì, perché non è mai stato repertato? Perchè non è mai stato aperto un fascicolo contro ignoti? è molto strana anche la sua morte. Io non sono un dietrologo, detesto le dietrologie, però viene da pensare che non ci sia questo incartamento. C’è qualcosa di sbagliato nel modo in cui si facevano le indagini allora".

    V. MASTRANDREA: "A noi Genova ci appartiene, quella è stata la nostra tragedia. Credo che ci siano molte analogie con quello che è successo lì, prima, durante e dopo. Sembra che il meccanismo sia sempre lo stesso, ma non è quello che mette paura, è che è l’esito è sempre lo stesso. Prima parlavo di impunità, è quella la cosa che continua a tenere la gente lontana dall’approfondire, dal voler cercare di capire, che poi è il compito del cinema, dell’arte - scusate se uso io questa parola - quello di allargare gli orizzonti. Però, di fronte a tanta monotonia, a tante cose che non cambiano, l’unica cosa, ed è per questo che magari i film su Genova ci hanno messo meno di quarant’anni, è che cambiamo noi. Ognuno di noi ha una telecamera addosso, può fare un film, una foto di quello che succede, cambiando lo strumento di partecipazione, che magari ha gli stessi obiettivi, cambiando le cose, si accorcia la prescrizione culturale rispetto a determinati eventi storici del nostro paese".

    Lei è attualmente anche a teatro con The Coast of Utopia. Qualche cosa di Bakunin e Herzen è entrato nel discorso di Pinelli e viceversa?

    M. T. GIORDANA: "Due progetti che dovevano essere in due tempi diversi si sono accavallati. Credo che le origini di Pinelli fossero più nel grande idealismo di Bakunin che nell’anarchismo violento, la liberazione dell’uomo più che la sovrastazione. E’ strano comunque che me ne sia occupato contemporaneamente".

    Il discorso di Moro con cui ha inizio il film è stato tratto dalle lettere di quest’ultimo?

    FABRIZIO GIFUNI: "Io credo che la scena sia frutto di un’invenzione degli sceneggiatori a differenza dall’altro materiale che è documentato storicamente. E’ l’incrocio di varie fonti, anche delle parole che ha pronunciato dal carcere delle brigate rosse in cui sosteneva di non aver creduto nemmeno per un istante alla pista anarchica. Su Moro c’è tanto materiale su cui lavorare, io già l’avevo fatto per passione personale, anche da bravo drammaturgo quale sono. Io sono un attore che si prepara molto, stavolta invece ho fatto l’opposto, andavo sul set dopo aver passato la notte al teatro Valle occupato, i primi mesi dell’occupazione ho vissuto lì, così ho spezzato quel legame maniacale col personaggio. Le camice che indossavo però sono state fatte dallo stesso camiciaio di Moro e questo mi ha aiutato molto, con quei colli larghi…"

    Il figlio di Calabresi dice di non aver riconosciuto il padre nel film perché era uno che in realtà sdrammatizzava molto, cosa ne pensate?

    M. T. GIORDANA: "A Calabresi manca il padre e non può ritrovarlo in un film. Di fronte all’ingiustizia che ha subito non può dare un giudizio sereno. Leggendo la sua intervista ho provato compassione, nel senso che ho sofferto insieme a lui, anch’io ho perso mio padre a 8 anni, lo capisco. Non ho messo alcune cose che aveva detto la moglie perché sono personali, io ho preso tutto quello che lo riguardava pubblicamente. Prendo i suoi complimenti comunque".

    V. MASTRANDREA: Non l’ho presa come una critica, non c’era spazio da dedicare alle scene in casa, è stato privilegiato il suo stato d’animo dopo quello che era accaduto a Pinelli.

    Avete paura che venga considerato un film di parte ed ideologico?

    M. T. GIORDANA: "Nessuna paura, è molto lontano dalla partigianeria. Gode di un cast e di un lavoro tecnico eccezionali quindi chi se ne frega dell’ideologia. Io penso solo al giudizio di Kubrick e gli altri che mi chiederanno: 'che hai fatto tu?' 'Romanzo di una strage, tiè'!".




     
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