STATE OF CONSCIOUSNESS

Potrà apparire curioso il fatto che il regista e sceneggiatore statunitense Marcus Stokes scaturisca dal mondo degli effetti visivi presso la Industrial Light & Magic di George Lucas, se non altro perché questo suo State of Consciousness, vale a dire ‘Stato di Coscienza’ - anche se forse sarebbe più corretto parlare al plurale, di 'stati' di coscienza -, in una produzione incredibilmente italiana, è lastricato di introspezione. Se non altro, perché nulla di quanto si vede, attraverso il protagonista d’eccezione, lo Stephen di Emile Hirsch, può identificarsi con certezza come vero, reale, ricordo, o immagine surrogata dipendente da psico-farmaci. E la cosa più straordinaria, forse d’altra parte l’unica, è che, al netto di una pellicola che sfiora il B-Movie, mentre si camuffa dietro il paravento di psichiatria e psicanalisi, criminalità iscritta nel proprio DNA e prospettive di cura sperimentale, onde sventare l’inevitabile carcerazione a lungo termine e persino la pena

di morte, l’architettura filmica tiene in ostaggio lo spettatore in punta di suspense, sul filo di una matassa che sembra non volerne sapere di farsi districare. Altrettanto curioso che, prima di dedicarsi al cinema, o, per meglio dire alla TV, giacché è il piccolo schermo a dominare la sua filmografia, Stokes si sia dedicato proprio alla progettazione architettonica. Insomma, l’architettura filmica di questo State of Consciousness si scopre alquanto solida, mentre già la locandina ne tradisce le fondamenta, con scorci multipli degli occhi del protagonista, alias visioni, soggettive, ribaltate in direzioni opposte.

Gli intenti sono dunque piuttosto chiari mentre puntano prioritariamente nella direzione dello Stephen di Emile Hirsch che, dal canto suo, avrebbe anche forse potuto fare di meglio, giacché è chiaro fin da subito che le colonne portanti di questo ‘viaggio’, in gran parte tutto mentale, poggiano sulle sue spalle. Il suo disorientamento produce quello dello spettatore in un

modo assolutamente complice ma non certo emotivamente travolgente. E’ una storia fatta di episodi, di ospedale psichiatrico, di medici - in particolare la ‘ambigua’ dottoressa Fielder (Kesia Elwin) - e di altri pazienti, di pillole che si dicono necessarie ma che qualcosa dentro lo ‘stato di coscienza’ sempre vigile del protagonista, pongono in stato di allerta mettendo tutto in discussione. La sua compagna Alicia (Tatjana Nardone ), cui sembra essere sentimentalmente molto legato, il suo vicino di casa, l’aggressiva squadra di motociclisti, i vari poliziotti ed altri co-protagonisti satellite, confluiscono nella storia contribuendo a vario titolo al dilemma di fondo di quest’uomo, costantemente appeso a un filo, al netto di frequenti e forti mal di testa, di perdita di memoria, e di incubi inspiegabilmente tanto veri da non distinguersi dai ricordi: realmente malato mentale o frutto di un complotto a base farmaco-sperimentale?

Il corpo del film si annoda di pari

passo tra la lotta mentale ma anche quella molto fisica del protagonista, tra colluttazioni, omicidi, fughe, ribellioni, temporanei allineamenti con i diktat medici, verso un annientamento da cui, inspiegabilmente, almeno per lui, risorge ogni volta, così come ogni volta vengono azzerate le conseguenze di aggressioni e devastazioni ambientali. Una lotta dunque anche molto fisica oltre che mentale. Il che porta ogni volta a riformulare la stessa domanda: realmente malato mentale o frutto di un complotto a base farmaco-sperimentale? Che cosa è vero e che cosa non lo è? La risposta arriverà solo verso l’epilogo, in coda alla ricerca personale del protagonista, mentre approda sulla location riprodotta in una foto. E sarà una risposta che… non ci piacerà!