Goya Awards 2020 - VINCITORE di 7 Premi su 16 Nominations - Tra i più attesi!!! - RECENSIONE - Cannes 2019 - Concorso: VINCITORE della PALMA d'ORO al 'Miglior Attore' (Antonio Banderas) - Dal 17 Maggio
Dolor y Gloria racconta una serie di ricongiungimenti di Salvador Mallo, un regista cinematografico oramai sul viale del tramonto. Alcuni sono fisici, altri ricordati: la sua infanzia negli anni ‘60 quando emigrò con i suoi genitori a Paterna, un comune situato nella provincia di Valencia, in cerca di fortuna; il primo desiderio; il suo primo amore da adulto nella Madrid degli anni ‘80; il dolore della rottura di questo amore quando era ancora vivo e palpitante; la scrittura come unica terapia per dimenticare l'indimenticabile; la precoce scoperta del cinema ed il senso del vuoto, l'incommensurabile vuoto causato dall'impossibilità di continuare a girare film. Dolor y Gloria parla della creazione artistica, della difficoltà di separarla dalla propria vita e dalle passioni che le danno significato e speranza. Nel recupero del suo passato, Salvador sente l'urgente necessità di narrarlo, e in quel bisogno, trova anche la sua salvezza.
Short Synopsis:
A film director reflects on the choices he's made in life as past and present come crashing down around him
Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)
“Il mio cinema sa sempre di pipì, di gelsomino e di brezza d’estateâ€
Quanto sia autobiografico poco ci importa. Resta comunque il fatto che il Dolor Y Gloria di Pedro Almodovar si impone all’attenzione come pellicola tra le più viscerali, sentite intimamente in ogni suo aspetto: una parabola di vita che si identifica con una dichiarazione d’amore nei confronti dell’arte e del cinema in particolare: più che un amore, una vera e propria ancora di salvezza, un respiratore meccanico in grado di supportare quello naturale. Attori feticcio del calibro di Antonio Banderas - che si è sobbarcato quasi la totalità del carico - e di Penelope Cruz, ne hanno sostenuto come granitici pilastri ogni minimalista vibrazione, ognuno memore e prezioso portavoce di vita e di arte trasposte sul grande schermo all’apice del verismo
Arte e cinema si fondono all’unisono in un unico respiro fin dall’inizio. I magma cromatici sui titoli di testa,
di quell’infanzia genuina e protetta, che ha lasciato il posto ad un uomo acciaccato e smarrito nel vuoto incolmabile di una solitudine immersa nello stop creativo professionale: “ero l’uomo più solo che la morte abbia mai vistoâ€, ci racconta il Salvador di Banderas mentre scrive e legge dalle pagine autobiografiche di un suo romanzo. Vuoto e solitudine che non potevano mancare la depressione vera e propria: “La vita mi disgusta come una medicina inutileâ€.
Dolor y Gloria racconta, attraverso un reticolo di ‘ricongiungimenti’, il presente e il passato di Salvador Mallo, un regista cinematografico ormai sul viale del tramonto. Ma nello stop creativo Salvador Mallo scopre di non riuscire a vivere. Condurre una vita senza la creazione non ha senso. E sono proprio quel sentire e quel ricordare ad erigere la costruzione del film e a tessere le fila di una sceneggiatura più pensata che espressa a parole. E il primo
di questi ricordi apre anche sulla prima di una lunga serie di citazioni. Tra le donne al fiume a lavare a mano la propria biancheria c’è anche la Jacinta di Penelope Cruz, la madre del piccolo Salvador che le sta in groppa. Sequenza dal sapore mediterraneo, sanguigno, che traduce oggi in colore, il bianco e nero neorealista di un grande ed indimenticabile Vittorio De Sica. Per questo non facciamo fatica a credere a Penelope quando dice di essersi ispirata a Sofia Loren per il suo personaggio. Più tardi la sequenza in stazione bissa il respiro neorealista rivisitato e corretto, programmato per sorprendere lo spettatore molto più in avanti.
Ma a chi si è ispirato Antonio Banderas!? Non sapevamo che nel gennaio del 2017 avesse avuto un infarto e che il dolore avesse attraversato la sua vita reale. Una cosa del genere lascia il segno e il dolore ti resta dentro come
Non c’è evidentemente gloria senza dolore. L’iter dei vari impedimenti fisici del personaggio ne limita i confini, ma la creazione non può esprimersi entro una griglia di limitazioni. Tornare con la mente in momenti particolari che motivano il rigurgito di memoria all’infanzia, e scoprire l’urgenza
di raccontarli, celebra la rinascita di quella stessa creazione smarrita che vale la salvezza di corpo, anima ed arte. Un mosaico di tessere di vita che ricostruiscono l’infanzia degli anni Sessanta, quando il piccolo Salvador migra con la madre andando a raggiungere il padre a Paterna, un piccolo comune nella provincia di Valencia, per scoprire che avrebbero alloggiato in una grotta. Ricostruita e ritinta, adornata con piante e qualche fiore, per il piccolo Salvador quella grotta diventa una reggia, dove leggere alla luce solare di quel lucernario che apre su un luminoso e spazioso spicchio di cielo, e dove sognare un futuro con un’istruzione coltivata liberamente e non sottomessa ad istituzioni ecclesiastiche come il seminario. La sua ribellione alla madre per questo - la povertà non lasciava d’altra parte altra scelta - esprime il sentimento libero di un bambino naturalmente vocato alla cultura e all’arte. La cultura! Perla rara a
quanto pare, se l’analfabetismo era tanto diffuso da far sì che Salvador potesse insegnare a leggere e a scrivere all’imbianchino pittore conosciuto per caso.
E così, tra un’altalena di ricordi - che va ad includere la nascita e la dolorosa fine di grande amore omosessuale degli anni Ottanta – vive, o, per meglio dire, sopravvive, l’età adulta del Salvador di Banderas, mentre scopre tutti i benefici per i dolori fisici, con tutti i danni collaterali, dell’eroina. E (ri)scopre pure la madre anziana che lo rimprovera per il figlio che non ha voluto essere, un figlio mancato, un figlio negato in nome del lavoro, dei continui viaggi che lo hanno semplicemente conclamato assente. Un inserto tardivo nel film a detta dello stesso Almodovar che tradisce tardivi sensi di colpa per una figura di madre assolutamente centrale. Un cono d’ombra onnipresente.
Nella sofferta parabola del personaggio adulto, i ricordi gradualmente ne rigenerano l’integritÃ
recuperandone la piena identità , accettata con rinnovato affetto ed autostima sul rinnovato impulso di raccontare. Pedro Almodovar in Dolor Y Gloria non dimentica certo che il cinema - sua scoperta precoce così come del personaggio nel film - è quella forma subliminale di una generosità tale da far posto ad ogni altra sua declinazione: la casa museo del protagonista, il monologo teatrale, il set cinematografico, la voce fuori campo che scrive il preludio della sceneggiatura, il romanzo della vita prima che diventi cinema, gli inserti in bianco e nero di video musicali (Mina), gli intermezzi di animazione a sdrammatizzare la fisicità del dolore nella svariate sue forme, i poster con il cinema d’altri tempi con Tyrone Power, le figurine con Liz Taylor e l’iconica Marilyn Monroe sul PC, ma soprattutto, quel disegno, poi dipinto, il ritratto del piccolo Salvador - magnetico! - ad opera dell’imbianchino, muratore e pittore a tempo
perso… Tutto questo, e tutto quello che mi sono persa tra le righe, diventano la summa artistica che si fa unica lingua possibile per un racconto tanto interiorizzato: tale da far rinascere più volte a nuova vita quel ‘primo desiderio’, come romanzo, come cinema e come produzione. Quel desiderio primigenio ammiccante a El Deseo, casa di produzione per l'appunto, fondata dallo stesso Pedro Almodovar (con il fratello Augustin). Una lingua espansa, dall’inizio fin lungo le coste del racconto in corso d’opera prima di andare a raggiungere il finale - magistrale, perfetto, da manuale! - mentre cesella quel cinema d’autore che, in un palpitante ritratto, sottoscrive l’impossibilità di scindere la vita reale personale dalla creazione artistica, pur concedendosi qualche deviazione di percorso, magari in punta di eccesso, come licenza poetica suggerisce.
Secondo commento critico (a cura di La parola al film)