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    GLI AMICI DEL BAR MARGHERITA: A RUOTA DE 'IL PAPA' DI GIOVANNA' PUPI AVATI APRE UN'ALTRA FINESTRA SULLA BOLOGNA DEGLI ANNI CINQUANTA. MA QUESTA VOLTA E' UNA COMMEDIA

    "Questo film deriva da una necessità di raccontare la mia città ancora una volta al passato ma attraverso una luminosità ed una gioiosità dell’insieme che contraddicessero totalmente il clima struggente e doloroso del mio film precedente, 'Il papà di Giovanna'. Riandando indietro anche solo di una cinquantina di anni ho ritrovato nella Bologna degli anni ’50, soprattutto nella cultura dei bar, un atteggiamento nell’interpretazione della vita da parte dei giovani di allora che oggi sarebbe considerato arcaico e deplorevole. Nel bar Margherita di via Saragozza - come io verificavo quotidianamente trovandosi dirimpetto a casa mia - i ragazzi di allora investivano la loro creatività nel più assoluto disimpegno e nel totale disinteresse degli adulti verso di loro. Ho messo insieme così una serie di suggestioni, che non riguardano solo me, ma un momento del Paese in cui le adolescenze erano spensierate e sperperate con disinvoltura e lo stupire e il divertire gli altri era un modo per dare senso alla vita. Le prime due pagine del lungo racconto che ho dedicato a quei personaggi così sopra le righe e a quel locale specificano in modo dettagliato, addirittura puntiglioso, le dodici regole comportamentali alle quali ognuno di loro doveva attenersi e che riassumevano tutto intero un mondo psicologico e culturale di una gioventù felicemente irresponsabile che oggi può apparirci incomprensibile e risibile, dove regnava il maschilismo e le donne erano viste solo come elemento perturbativo, oppure direttamente come mogli. Oggi è cambiato tutto. È cambiato il modo di essere giovani, ho la sensazione che si faccia di tutto per privare i nostri
    ragazzi della speranza e del senso di attesa, per renderli rinunciatari e per consegnare loro un mondo privo di prospettive, dove non c’è spazio per i sogni
    ".
    Il regista e sceneggiatore Pupi Avati

    (Gli amici del Bar Margherita ITALIA 2009; commedia sentimentale; 90'; Produz.: Antonio Avati per Duea Film; Distribuz.: 01 Distribution)

    Locandina italiana Gli amici del Bar Margherita

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    Celluloid Portraits:




    Titolo in italiano: Gli amici del Bar Margherita

    Titolo in lingua originale: Gli amici del Bar Margherita

    Anno di produzione: 2009

    Anno di uscita: 2009

    Regia: Pupi Avati

    Sceneggiatura: Pupi Avati

    Soggetto: Dal libro di Pupi Avati, Gli amici del Bar Margherita, (Narratori Moderni - Garzanti Editore).

    "Bologna, 1954. Il Bar Margherita, sotto i portici di via Saragozza, è frequentato dai campioni della città: campioni nel biliardo, nel poker, nella briscola, nella conquista delle donne, nelle gare di boogie, nelle bevute, nel guidare spericolatamente ma, soprattutto, nell’investire gran parte del tempo negli scherzi da riservare agli amici. Tutto sembra andare per il meglio finché non accade l'irreparabile: il fidanzamento dell'ingenuo Bep con la navigata Beatrice, 'l'unica a essere uscita con tutti i ragazzi di via Saragozza sia dalla parte dei numeri pari che dei numeri dispari'! Matrimonio più disarmonico è difficile da immaginarsi ma difficile sarebbe anche farlo saltare, considerati gli interessi delle rispettive famiglie... Fortuna però che esistono gli amici del Bar Margherita, quell'«unità di crisi» sempre pronta a correre in soccorso di uno dei suoi membri in difficoltà. Divertente e toccante, ricco di situazioni e
    personaggi, Gli amici del Bar Margherita è un romanzo che unisce il piacere del racconto (con le sue mille sorprese e rivelazioni) a quello della
    nostalgia in un'atmosfera intensa e unica. Vitelloni e belle donne non sono infatti gli unici ingredienti di questo romanzo breve e fulminante: ci sono anche il Festival di Sanremo, le balere di periferia, le truffe, le
    scappatelle extraconiugali, gli occhiali per vedere le donne nude, i romanzi d'amore affittati alla biblioteca circolante, i lanci con il paracadute dalla Torre degli Asinelli, gli ottuagenari che si innamorano delle maestre di pianoforte, le feste danzanti pomeridiane e tanto altro ancora.
    'Comunque l’unico posto veramente bestiale che c’è in Italia è il Bar Margherita. Se sei uno di quel bar c’è sempre una ragione, magari a prima vista non la capisci e ti domandi: come mai questo soggetto qui è
    del Bar Margherita? Poi dopo che lo studi capisci perché proprio quello lì è uno del Bar Margherita e gli altri sono del Bar Andrea Costa o del Bar Billy. Io piuttosto di diventare uno del Bar Billy mi do una martellata nel mezzo esatto dell’ocarina?.
    Pupi Avati traccia il ritratto di un'epoca e si conferma grande narratore, sulla pagina come al cinema".
    (Dal colophon del libro)

    PRELIMINARIA: Regole del Bar Margherita del 1954

    a) Al Bar non si portano mogli, madri, sorelle, figli, nipoti.
    b) Se vuoi essere considerato al Bar Margherita ci devi arrivare la sera tardi. Comunque sempre prima che chiuda.
    c) Se ti metti con una che non ti fa più venire al Bar, si avvia l'organizzazione per fartela mollare.
    d) La squadra del Bar Margherita è il Bologna Football club e tutti ci tengono a sentire le partite alla radio, quando vince e quando perde. La bandiera del Bologna è appesa ogni domenica a una colonna del portico.
    e) Quelli del Bar Margherita ci credono alla Messa e al Rosario ma non ci vanno o se ci vanno non si fanno vedere.
    f) Anche se piove forte nessuno va al Bar Margherita con l'ombrello.
    g) Nella classifica degli imbarcatori di donne, che nel codice del Bar si chiamano penne, quarti sono i finocchi, terzi i democristiani, secondi i comunisti, primi quelli che invece di parlare tanto cercano una che gliela dà.
    h) Le penne che la danno a quelli del Bar sono tutte segrete, spesso sposate, che quelli del Bar hanno conosciuto nelle balere e hanno solo il nome del quartiere dove abitano, quella di Casaralta, quella della Bolognina, quella della Dozza... Forse esistono, forse no.
    i) A quelli del Bar è proibito andare in gita ai santuari sui pullman con il mangiare nelle sporte e la bottiglia dell'acqua e limone.
    l) Quelli del Bar Margherita quando stanno seduti ai tavolini e passa una penna la debbono guardare con desiderio e fare qualche “tirinoâ€. Sempre. Anche se è un gran cesso le debbono sussurrare: “Che fisico!†oppure “sai cosa ti farei!â€. È una regola di quelli del Bar Margherita.
    m) La Santa protettrice del Bar Margherita è la Madonna di San Luca che viene giù dal suo Santuario una volta all'anno e che anche gli atei del Bar Margherita la ammirano molto.

    Cast: Diego Abatantuono (Al)
    Laura Chiatti (L'entreneuse Marcella )
    Fabio De Luigi (Gian)
    Luigi Lo Cascio (Manuelo)
    Neri Marcorè (Bep)
    Luisa Ranieri (Ninni)
    Pierpaolo Zizzi (Taddeo detto 'Coso')
    Claudio Botosso (Zanchi)
    Gianni Ippoliti (Sarti)
    Niki Giustini (Pus)
    Bob Messini (Mentos)
    Caterina Sylos Labini (Maestra Scaglioni)
    Maria Pia Timo (Beatrice)
    Gianni Fantoni (Padre di Gian)
    Lucia Modugno (Merciaia)
    Cast completo

    Musica: Lucio Dalla

    Costumi: Steno Tonelli

    Scenografia: Giuliano Pannuti

    Fotografia: Pasquale Rachini

    Scheda film aggiornata al: 25 Novembre 2012

    Sinossi:

    Bologna, 1954. Taddeo (Pierpaolo Zizzi), un ragazzo di 18 anni, sogna di diventare un frequentatore del mitico Bar Margherita che si trova proprio sotto i portici davanti a casa sua.
    Con uno stratagemma, il giovane diventa l'autista personale di Al (Diego Abatantuono), l'uomo più carismatico e più misterioso del quartiere. Attraverso la sua protezione, Taddeo riuscirà ad essere testimone delle avventure di Bep (Neri Marcorè), innamorato della entreneuse Marcella (Laura Chiatti); delle peripezie di Gian (Fabio De Luigi), aspirante cantante e vittima di uno scherzo atroce; delle follie di Manuelo (Luigi Lo Cascio), ladruncolo e sessuofobo; delle cattiverie di Zanchi (Claudio Botosso), l'inventore delle cravatte con l'elastico; delle stranezze di Sarti (Gianni Ippoliti), vestito giorno e notte nel suo smoking e campione di ballo. Per non parlare del contesto dove Taddeo vive con mamma (Katia Ricciarelli) circuita dal medico di famiglia e il nonno (Gianni Cavina) che perde invece la testa per una prosperosa maestra di pianoforte (Luisa Ranieri). Ma alla fine, Taddeo che tutti chiamavano "Coso" ce la farà ad essere considerato uno del Bar Margherita.

    Commento critico (a cura di PATRIZIA FERRETTI)

    CON ‘GLI AMICI DEL BAR MARGHERITA’ PUPI AVATI PORTA IL CINEMA NEL CINEMA: UNA MACCHINA DA PRESA A MANO CON CUI UNO DEI PERSONAGGI DELLA SUA STORIA PRESENTA IL RESTO DEL GRUPPO AD UNO AD UNO, LI SEGUE NELLE LORO STRAMPALATISSIME E GOLIARDICAMENTE SCELLERATE FINESTRE EPISODICHE - LE REITERATE SOGGETTIVE IN BIANCO E NERO - PRIMA DI ACCOMIATARSENE TORNANDO ALLA INIZIALE ‘FOTO DI GRUPPO - EVENTO ANNUALE’ DI UN MITICO 1954, DESTINATA AD IMMORTALARE QUEGLI ‘EROI SCIOCCHI’ CHE A QUEL BAR ERANO STATI ‘INIZIATI’, SVILUPPANDO OGNUNO A SUO MODO LA PROPRIA ‘ICONA CITTADINA’. MA CAVALCANDO QUESTA VOLTA I TONI LEGGERI DELLA COMMEDIA PUPI AVATI NON DIMENTICA SCHEGGE DI PICCOLI MELODRAMMI PERSONALI, DIVAGANDO QUA E LA’ SULLE STRUGGENTI NOTE DI ATROCI SCHERZI, CODARDE VIGLIACCATE O CINICHE SFRONTATEZZE DA INCOSCIENZA GIOVANILE (TADDEO DETTO ‘COSO’ ALLA MORTE DEL NONNO). L’UNICA MORALE, MALGRADO TUTTO, CHE SI PUO’ RICAVARE DA QUESTO GRUPPO DI SQUINTERNATI MASCHILISTI

    E’ UNA BUONA DOSE DI SOLIDARIETA’ AFFETTIVA SOTTERRANEA CHE FINISCE PER DARE SENSO E SPESSORE AD UN GENERE DI LEGAME CHE OGGI APPARE QUANTO MENO DEMODE’. MA, NEL ‘LORO PICCOLO’, SEGUENDO IL MOTTO DEL CAPO BANDA ‘AL’ (RUOLO PERFETTO PER ABATANTUONO), AL BAR MARGHERITA SI SENTIVANO GRANDI

    Lo è stato di solito qualsiasi bar - abitudine caduta un po’ in disuso ai nostri giorni – il luogo di ritrovo, di aggregazione di generazioni miste: giovani, mezza età o anziani fino alla vecchiaia piena, declinate però rigorosamente al maschile. E questo tanto più in un’epoca come gli anni Cinquanta. Epoca in cui non solo Bologna ma anche altrove in Italia, tale consuetudine risultava alquanto diffusa, con una buona dose di rigore aggiunto qualora ci si spostasse dalla città al paesello.
    Che cosa ha allora di tanto diverso, o almeno di particolarmente distintivo il Bar Margherita di Pupi Avati? Beh, diciamo che si potrebbe

    definire una sorta di ‘luogo di iniziazione’ al percorso individuale di vita della gioventù maschile di allora, alla ricerca di modelli da emulare e di un senso di appartenenza ad un gruppo in grado di dare appunto l’imprinting, giusto o sbagliato che fosse, al resto dei coetanei concittadini. ‘Imprinting’ oggi assolutamente risibile oltre che ovviamente non condivisibile, se si considera l’effetto speculare a quella che di fatto era la società microscopicamente ‘maschilista’ ed orgogliosamente ‘scellerata’ di metà secolo, là dove la donna era semplicemente oggetto di desiderio classificabile essenzialmente in due categorie: ‘entraineuse’ o moglie. Insomma il ‘gruppo in’, una sorta di clan cittadino cui guardare con il forte desiderio di farne parte, per sentirsi grandi e soprattutto accettati in una sorta di cerchia ‘elitaria’ che agli occhi di un giovane anonimo ragazzo doveva ‘fare tanto vip’ secondo una consuetudine modaiola dell’epoca, appunto.

    E Pupi Avati, cui premeva scrollarsi di dosso

    il languore malinconico del grande dramma de Il papà di Giovanna, senza dismettere però uno dei suoi motivi firma da navigato autore detective in grado di scandagliare gli anfratti più intimisti delle piccole realtà quotidiane, nel bene e nel male, ha pensato di riprendere i suoi pennelli, sempre intrisi di un caleidoscopio di sfumature, per schizzare sulla sua tela un affresco ben più scanzonato, imbevuto di ricordi, di aspirazioni e di fantasiosa affettività. Non un quadro di rigore storico dunque, ma un richiamo personale ad una realtà spiata molto da vicino senza arrivare mai a farne parte integrante.
    Vezzo che ora Pupi Avati sembra potersi prendere con questo film. Così, nella sua personale rivisitazione di quel particolare ‘luogo di ritrovo di incontri e di scontri’, questa volta non vuole mancare. Ora che ne ha l’opportunità, si prende la rivincita: vuole essere presente e partecipe, e lo fa attraverso un suo

    alter ego: il personaggio narratore di Taddeo, detto ‘Coso’, il furbastro che segue questi ‘episodi’ chiassosi e sgangherati come nella migliore tradizione goliardica, quella che in effetti risulta essere la ‘lingua madre’ di questo Bar Margherita, i cui avventori sono più che ben disposti a dispensare a piene mani. La sua voce fuori campo ci introietta nella storia, fa le sue brave presentazioni, e si mostra a noi in tutta la sua astuzia per come riuscirà ad avvicinarsi al gruppo riuscendo a farne parte o almeno a meritarlo, anche se di fatto ‘è più bello guardare a distanza ravvicinata ma dall’esterno’, secondo la sua scelta finale che va a parafrasare la migrazione di Pupi Avati da Bologna a Roma.
    E lo sguardo su questo circoscritto spaccato d’epoca plurigenerazionale si fa fortemente intimista fin dalle prime battute per il modo in cui Avati sceglie di raccontarlo e di mostrarlo, sul filo

    della memoria nostalgica, con il cinema nel cinema. Si diceva non un quadro di rigore storico ma un richiamo personale ad una realtà spiata molto da vicino: non è un caso che a rafforzare la voce fuori campo del narratore ci sia una machina da presa a mano che segue e immortala in fotogrammi rigorosamente in bianco e nero volti e vicende di ‘quelli del Bar Margherita’, sgangherati e squinternati, maschilisti e scellerati quanto si voglia ma affettivamente solidali e dunque non privi di un’anima.

    Commenti del regista

    Gli eroi sciocchi:

    "Amo troppo il cinema per non farlo più possibile, con caparbietà e insistenza. Il cinema ha pervaso di sé l’intera nostra esistenza (intendo quella mia e di mio fratello) permettendoci di farlo con la continuità che ci segnala tra i più prolifici. Questa continuità la si alimenta soprattutto con nuovi stimoli, nuove suggestioni, con la necessità di essere condotti al termine di ogni vicenda sempre dall’altra parte del mondo. In un altrove. Così oggi spalanco le finestre di quel tetro appartamento di via San
    Vitale dove il papà di Giovanna ha vissuto la sua dolorosa vicenda
    umana e la luce piena del giorno che inonda l’appartamento è
    accompagnata da una nuova colonna sonora fatta dal rombo delle utilitarie e delle canzonette della neonata San Remo dell’incombente boom. Siamo nel pieno degli anni Cinquanta e io sedicenne somiglio nella sfrontatezza delle mie aspettative a quell’Italia in cui nessuno si
    prenda la briga di richiamarmi alla ragionevolezza. Ho l’età dei miei sogni che è l’età della città in cui vivo e della sua gente. Tutti insieme condividiamo le stesse attese nei riguardi di uno sconfinato futuro.
    Perché non rammentare quegli anni se è sufficiente traversare la
    strada per raggiungere il Bar Margherita, quel santuario nel quale la società dei maschi, che teneva ancora asservita la donna in qualsivoglia suo ruolo, regnava impunemente?
    Perché non alzare la saracinesca di quel locale nel quale la mia
    memoria ha trattenuto intatti, preservati dalle ingiurie del tempo, quell’insieme straordinario di eroi sciocchi, che tuttavia furono per gran parte della mia giovinezza i modelli ai quali mi ispirai?
    Perché non ridare vita al padrone del bar, quel Walter che tutti
    chiamavano Water esasperandolo, o quell’Al che consumava le notti fra lasagne e puttane o quel Manuelo che bendato, senza toccare il freno, traversò via Murri su un’Ardea Lancia o quel Gian che partì col
    padre per cantare a San Remo o quel Bep che non si presentò al suo matrimonio per fuggire con una entreneuse dell’Esedra?
    Perché non restituire alla loro grandezza quel Mentos che si bevve un’intera bottiglia di cognac o quel Sarti che truffava preti e suore o quel Pus afflitto da una costellazione di foruncoli o quel Zanchi che inventò la prima cravatta con l’elastico?
    Perché non celebrare quel tempo e quella pattuglia di eroi ai quali era sufficiente la messa in commercio degli occhiali K, con i quali si vedevano le donne nude, per dare senso ad un’intera estate?
    E soprattutto perché non celebrare questi nostri quarant’anni di cinema sorridendo di noi stessi, della nostra superlativa ingenuità?
    ".

    Links:

    • Pupi Avati (Regista)

    • Laura Chiatti

    • Fabio De Luigi

    • Gianni Fantoni

    • GLI AMICI DEL BAR MARGHERITA - INTERVISTA a PUPI AVATI (Interviste)

    • GLI AMICI DEL BAR MARGHERITA - INTERVISTA a DIEGO ABATANTUONO (Interviste)

    • GLI AMICI DEL BAR MARGHERITA - INTERVISTA a LUCIO DALLA (Interviste)

    • UNA SCONFINATA GIOVINEZZA - INTERVISTA al regista, soggettista e sceneggiatore PUPI AVATI (Interviste)

    1

    Galleria Video:

    Gli amici del Bar Margherita (versione originale).mov

    Il giudizio della critica

    The Best of Review

    PAOLO GHEZZI (PUPI AVATI. Sotto le stelle di un film†a cura di PAOLO GHEZZI, Edizioni IL MARGINE):

    "Sotto i portici di via Roma a Cuneo, maggio Duemilaotto: si gira 'Gli amici del Bar Margherita', la storia della curiosa fauna umana che frequentava il Bar Margherita di Bologna, sessant'anni fa. Pupi Avati, incurante del trambusto del set, parla fitto con un cinquantenne dalla barba ispida e dagli occhi arrossati, che si chiama Paolo, e gli sta ricapitolando febbrilmente gli ultimi dieci anni della sua vita. Pupi l'ha fatto accomodare sulla sedia con il nome della protagonista, l'eterea Laura Chiatti, attesa due ore dopo sul set. Paolo ha le dita ingiallite dalla nicotina, la voce arrochita dalle sigarette, il giubbotto umido di pioggia, un'apparente noncuranza per ciò che lo circonda. Racconta dei suoi ricoveri in neurologia, della moglie
    americana, della rivoluzione che sognava e del suo viaggio a Medjugorje, dei ragazzi di oggi, di birra e preservativi... Regala al regista un santino con la sua preghiera preferita, le tre Ave Marie...
    Davanti alla farmacia Bertero, con le pubblicità di oggi sostituite dai cartelli degli anni Cinquanta, sotto i portici di Cuneo che ricreano Bologna del 1954, Pupi Avati è disteso, non ha fretta, si prende il tempo di parlare all'ex professore che vent'anni fa ha avuto una particina in un suo film, lo ascolta guardandolo negli occhi anche se tra dieci minuti scatta il ciak. E dalla vecchia ventiquattrore un po' lisa dove tiene il quaderno nero con le annotazioni sulle riprese, il regista estrae un piccolo rosario da dito, e lo regala a Paolo, in cambio del santino con le tre Ave
    Marie. La Madonna di San Luca, protettrice degli avventori del Bar
    Margherita anche se sono atei e magari comunisti, apprezzerebbe.
    Pupi Avati non ha avuto una fortuna critica pari al suo valore artistico e alla vasta popolarità che – al di là dei non infrequenti insuccessi, che lui stesso ammette con autoironico, umile orgoglio – si è conquistato nel
    pubblico italiano attraverso quarant'anni di cinema e quasi quaranta film, realizzati con insolita prolificità e indubbia generosità creativa. E proprio l'alta frequenza delle sue pellicole è stata forse un elemento che ha portato certa critica snob a collocarlo in fondo alla serie A, o addirittura in testa alla serie B dei registi italiani, tra i 'piccoli maestri' ('Truffaut dell'Italietta', secondo l'icastica e a parer nostro lusinghiera formula di Fofi), piuttosto che tra gli autori maggiori del cinema nazionale.

    È la critica pronta a sdilinquirsi per l'opera prima del regista trentenne, purché politicamente corretto, invece che collocare nella giusta dimensione un autore che dal 1968 ad oggi – non avendo riguardi, mai, per lo Zeitgeist e per le mode – ha fatto cinema senza preoccupazioni cerebrali, ma solo per il gusto di raccontare delle storie: appassionate, sfuggenti, epiche, minime, sgangherate, ma sempre col timbro dell'autenticità. Quasi mai banali. Quasi sempre spiazzanti. Politicamente moderato e artisticamente coraggioso. Cinema del bizzarro, del misterioso e dell'insolito. Cinema dell'amicizia e delle generazioni (pochi le hanno raccontate con lo stesso gusto affettuoso e graffiante). Del ricordo, della malinconia e della nostalgia. Della giovinezza e dell'attrazione d'amore. Delle avventure della carne e di quelle dello spirito. Della ricerca della consolazione negli umani affetti e della ricerca dell'orizzonte ultimo di Dio.
    Cinema di protagonisti perdenti ma anche di comprimari cinici, di
    tenerezza ma anche di ferocia, di tremori ma anche di terrori, di poesia ed elegia, ma anche di cronaca e sberleffo.
    Nel baule di Pupi Avati c'è tutto questo e molto più di questo: ci sono quarant'anni di Italia ma non solo. Sociologia applicata più che critica sociale. Storia narrata più che contestazione della storia. C'è l'America di ieri e di oggi. C'è il Medio Evo, c'è il Settecento, c'è tutto il Novecento, da quella prima notte di secolari speranze all'ultima partita a poker, dove vince sempre il peggiore.
    Dal baule di Pupi Avati, anzi dei fratelli Avati – giacché Antonio, prima sceneggiatore e poi produttore, ha un posto preziosissimo e imprescindibile in questa vicenda cinematografica e umana - saltano fuori pizzi e merletti profumati di lavanda, lettere d'amore ingiallite, microsolchi stile New Orleans, spade affilate e cilicio, tabernacoli e candele sataniche, reliquie venerabili e mazzi di carte truccate, palloni di cuoio e clarinetti, pianoforti e fortezze, paludi agresti e periferie urbane,
    cimiteri e soffitte... Insomma, in quel baule c'è tutta la vita, tutto un mondo, anzi una pluralità di mondi e di epoche. Avati non si è risparmiato nulla e non ha fatto mancare nulla a noi spettatori. Soprattutto, ci ha aiutati a riconoscerci nei suoi personaggi e nelle sue piccole e grandi storie (e forse, riconoscendoci nei loro egoismi e vigliaccherie, a diventare migliori di loro). Maestro indiscutibile nel rappresentare i cortocircuiti dei sentimenti tra amore e psiche, amore e passione, istinti compulsivi e angeliche sublimazioni, amore e crudeltà, amore e indifferenza, amore e sorrisi, amore e frustrazioni, amore e incomprensioni, amore e lontananze, amore e morte, amore e orrore, amore e incubi, amore e fede, amore e sogni, amore e musica, amore e malinconia. Perché l'importante – su questo siamo d'accordo in molti, no? - è l'amore.
    E se non tutti i critici lo amano e lo apprezzano sempre, che cosa importa? E se è stato una volta sola in cima al box office, che cosa significa? E se, paradossalmente, ha avuto più successo in tv, alla fine degli anni Settanta (con gli sfacciatamente autobiografici 'Jazz Band' e 'Cinema!!!'), che nei cineclub d'essai frequentati da ragazzo col sogno di diventare un maestro dello schermo, che cosa importa?
    Intanto noi – con riconoscenza, dopo quarant'anni di cinema, di ragazzi e ragazze, di padri e figli, di madri e figlie, di cuori spezzati e spiazzati, di tradimenti e trasalimenti – non possiamo non dirci avatiani
    ".

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